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RACCONTI D'AUTORE

ADAMO BENCIVENGA
L'AMANTE UFFICIALE
TERZA PARTE

Quaranta
Mia madre è convinta che io sia nata una sera
d’agosto, quando fuori le stelle cadevano fitte. Mia
madre è convinta, ma ogni volta mi racconta una storia
diversa che mischia e confonde con le altre delle otto
sorelle. L’unica cosa certa è che sono nata a Can Tho
dove tutta la vita si scioglie lungo le rive del fiume,
dove si saltano in padella scalogno e filetti di pesce.
Mio fratello è il primogenito e ci ha fatto da
padre, perché quello vero è morto di un male che ancora
ignoro e che ogni volta al primo dolore credo di avere.
A Saigon c’è una via che si chiama la strada del sole,
ecco io sono nata poco distante proprio dove cade il
tramonto, perché la mia pelle è gialla e rossastra,
perché il mio cuore è cenere e fiamme per i tanti uomini
che m’hanno almeno sfiorata.
Ma quella notte ne
ho presi tanti, lo ricordo ogni volta per farmi scandalo
al cuore. Perché la guerra non è solo bombe, non sono
solo i bagliori che rischiarano a giorno le case sul
fiume. Non è solo morte, ma l’odore di stupro
nell´anima dentro, è una donna che cammina da sola, un
fratello ubriaco che si era scordato di farmi da scorta.
La guerra è una ballerina alle due di mattina che esce
ammantata di rosso di seta, che fa tre passi insicuri
lungo un marciapiede tra sterco di cani e lattine di
birra.
Ed io ne ho presi quaranta in una sola
notte, tutti diversi senza mischiarne gli odori, ne ho
presi quaranta dalle due all’alba, quaranta davvero dai
piedi ai capelli. Nel posto più intenso dove sentivo
possesso, dove più stretta non potevo far finta che un
cuore che batte ne giustifichi il verso. Ne ho presi
quaranta, quaranta in tutto. Quanto una raffica fino
all’ultimo fuoco, d’un cecchino perfetto che non ha
sbagliato mai mira, tutti al bersaglio e mi leccavano il
collo, tutti sorpresi che i miei fragili fianchi,
tenessero testa ad ogni tipo di voglia, avessero un
posto per alloggiarci il piacere.
Non so perché
ti scrivo scriva questo, cosa pretendo e perché tu lo
debba sapere. Forse soltanto perché era successo la
notte precedente a quando mi hai conosciuta. E tu non te
ne sei accorto, anzi nessuno se ne è accorto che nei
miei occhi c’era ancora il terrore. Forse perché la
guerra ci ha insegnato a mentire, ci ha insegnato a
distinguere il valore che una donna stuprata non è una
bomba nel cuore.
Tu mi hai vista ed io ero
sorridente nonostante quella notte ne avessi presi
quaranta, tutti diversi, perché natura scivolasse
dentro, nell’infinita certezza che ero parte del mondo,
come un cielo che è ventre di voli d’uccelli di specie
diverse, come un mare che nutre grandezze di pesci
affamati, come una gatta in calore che porta nel grembo
incroci di semi di razze straniere. Come me che ero
soltanto la figlia, d’una guerra che cominciavo a
subire, a rendermi conto che non era solo miseria e
bombe, sangue e corpi sfigurati, ma anche aliti densi di
vino e di birra.
Ne ho presi quaranta senza
fiatare perché m’ero promessa di resistere, tanto,
seppure avessi chiesto aiuto, chi mai si sarebbe
avvicinato. Sentivo nel mio ventre il destino e quello
ho avuto, uno ad uno come cani e sciacalli che aspettano
muti il proprio turno per finirsi la preda. Erano
tanti e a tutti ho dato un nome, anche se poi, come mia
madre, confondo le mani e i capelli, misure di sessi
bianchi europei, e il colore degli occhi si mischiava in
una luce riflessa, la stessa che quella notte proveniva
dal mare, mista all’odore di pioggia e di fango. Ero
stanca, ma cercavo di resistere al dolore, perché non
volevo sprecare un solo momento, di quella rabbia che
intensa mi spaccava da dentro, di quel ricordo che vivo
rimane indelebile ogni volta che faccio l’amore.
Il giorno dopo sono andata comunque alla Maison, mi
sentivo senza fili, sballottata, cercavo protezione,
quando sei comparso tu. Forse volevo solo che tu
conoscessi il mio stato d’animo e perciò ho accettato la
tua proposta senza fiatare.
Ora era
tutto diverso
“Ce l’ho fatta!”
Ero immobile tra voi due che dormivate, giuro
tranquilli, niente di più facile, bastava soltanto dirlo
e voi non avete neanche risposto. “Perché non c’è
ragione nel sentimento che provo, non c’è motivo di
mettersi contro la corrente che fluida trasporta lontano
senza sapere dove, ma col piacere di obbedirle.”
Pensavo soddisfatta tra i vostri corpi.
Nel
bagno, mentre ci struccavamo dopo il ballo
all’ambasciata, tua moglie m’aveva baciata a lungo.
Avida, prima di venire a dormire, m’aveva succhiato la
lingua e la gola, m’aveva stretto il seno fino a darmi
dolore. M’aveva detto puttana, come te la prima volta,
perché si era accorta del tenente francese che insolente
avevo lasciato strusciare, sul vestito, sul sesso, che
tu avevi lasciato penosamente voglioso. Mi diceva
puttana e mi baciava le gambe, in ginocchio sul
pavimento del bagno. Ero io la padrona! Leccava il mio
sesso per sentirne il sapore e constatare che a nessun
uomo quella sera avevo aperto l’ingresso. Mi diceva
puttana e mi faceva giurare che ero solo una serva di
sua proprietà e nessuno mai avrebbe varcato quella
soglia, se lei non avesse voluto.
Tremavo, avevo
paura che tu ci sentissi. Era pazza, pazza di gelosia
fino a che ha voluto che io facessi altrettanto
dissetandomi del suo miele. Appoggiata al lavandino e
col ventre proteso mi ha coccolato la testa e poi spinto
verso il suo piacere infecondo, verso la brama più
intensa che copiosa scendeva e mi bagnava le labbra. Poi
un rumore e tutto è finito di colpo.
Sono venuta
in veranda e tu mi hai chiesto scusa. Ma scusa di cosa?
Che mi ero fatta tua moglie? O che poco prima avevo
raccolto la sua voglia con la stessa bocca che avresti
voluto baciare? Ti ho guardato spalancando gli
occhi. Volevo che tu capissi. Ma davvero non riuscivi a
leggermi dentro? Stavo impazzendo pensando a te, a lei,
alle mie gambe ancora bagnate dalle voglie di una
femmina intatta. Subito dopo ci ha raggiunti in
terrazzo ed è stato naturale dirvi che avrei dormito nel
vostro letto. Proprio lì nel mezzo, come un bimbo nella
pancia di sua madre. Non c’era altro posto che potessi
occupare.
Dio! Non vi siete neanche guardati.
Che so io… consultati con uno sguardo. Nemmeno un cenno
d’assenso. Avete immediatamente detto di sì, come fosse
la cosa più naturale del mondo. Però per me lo era,
sai.
Tra voi due
Ero di tutti e due anche se l’uno pensava che non fossi
dell’altra e l’altra s’illudeva di saziarmi nel ventre
per zittire l’istinto d’un maschio che chiama. Ero lì
che sfioravo il calore di pelle, i dubbi dei cuori
immobili e muti che non chiedevano altro. Per tua
moglie era un atto dovuto, lavare la colpa che m’aveva
macchiata, come se il francese m’avesse scopata davvero,
come se i miei peli che sentiva tra i denti non fossero
bastati a chiedere scusa. Per te soltanto un atto
d’amore come se le mie mani potessero afferrare la tua
parte incompiuta, darti la cura che chiedevi ogni volta,
ogni donna tranne tua moglie.
Tu stavi ascoltando
i miei pensieri e nel buio ho sentito due labbra soffici
baciarmi i capelli. Ho sentito una mano che si infilava
nella stoffa, tu non sapevi del tenente francese, ma eri
geloso lo stesso, geloso di non essere alla pari di
tutti gli uomini che avevo avuto finora, di quei
quaranta che ignoravi ma affollavano ancora i miei
incubi. Mi sei venuto vicino, ma io non avevo più
bisogno di conferme. Ti amavo e la notte di colpo m’è
sembrata più chiara. Mi domandavo per quale mistero
v’eravate affidati ad una puttana, anche se di buona
famiglia, anche se una delle 150.
Capivo perché
il primo giorno eri andato via. Tu cercavi sicurezze e
sei voluto tornare con tua moglie che involontariamente
mi scegliesse. Ero sicura che non stavi fingendo,
che tu volevi amarmi autonomamente da lei e dal suo
giudizio. Mi domandavo se m’avresti scelto comunque.
Anche se lei non fosse stata complice dei tuoi
fallimenti, dei tuoi tentativi d’essere maschio tra le
sue gambe? Ma quella sera era cambiato qualcosa, la
gelosia di tua moglie al ballo, il continuo cercami per
non essere sola. Mi voleva tutta per sé, medicina e cura
delle sue astinenze, medico e terapia delle tue
impotenze. Mi scaldava ogni volta portandomi ad un
flebile orgasmo, come se mi tenesse viva ed avesse il
timore che in qualche modo potessi sfuggirle.
Perdonami! Non potevo fare più a meno dell’una e
dell’altro. Godevo nel governare la danza delle vostre
insoddisfazioni, scardinare da dentro due anime
inquiete, voi m’avevate cercata ed ora sentivo d’essere
bella come non lo ero mai stata, come una donna contesa.
A passi felpati
A
passi felpati per non sentirmi un’intrusa, avrei voluto
entrare nei vostri sogni e vedermi come quando il
riflesso di uno specchio mi scontorna le dita e lascia
in penombra la scia che accarezza leggera i profili del
seno. Avrei voluto bussare in uno dei due senza
preferenza, perché uguali a quell’ora di notte quando
accanto dormiva un’anima in piena. Mi vedevo bella,
bello il mio seno perfettamente ricurvo alla vostre mani
incavate. Bella quanto la fantasia fertile s’illudeva di
partorirmi, senza nei e difetti, penetrata o solo
espugnata da un fascio di luna, mentre spicciavo i
capelli ai bordi del letto ed accavallavo le gambe di
fame d’amore.
Mi vedevo donna perché nata dalle
menti digiune, che il desiderio confonde e la ragione
non è di conforto. Mi bagnavo al solo pensiero che
sgorgasse copioso all’idea che la mia anima di colpo
fosse seno e forme, succube dei rivoli del desiderio che
da solo colava senza nessuna apparente ragione. Ma
avevo paura che essendo notte non fosse stato che un
sogno soltanto, che l’alba avrebbe appiattito il
desiderio che inseguivo da giorni, d’essere
indispensabile alle vostre fragili vite supplendo
carenze affamate d’amore.
Non so perché mi
abbiate concesso di stare lì in mezzo, di dirvi in
silenzio che vi amavo. Non so perché vi ho concesso di
immaginarmi più bella e di toccare il colore delle mie
mutande leggere. Perché vi ho promesso di avere le ali e
farvi volare sopra queste nuvole d’amore che non
nascondevano niente. Nell’incanto d’essere parte di
voi, d’essere il vuoto che vi teneva distanti pensavo a
te che accanto dormivi. Eri lo stesso che confondevo nel
sogno. Pensavo a lei che m’aveva rivoltata e legata
perché io fossi solo corpo e fessura, uno squarcio di
pelle dove cercava fatica e riposo.
M’avrebbe
presa di nuovo, ne ero sicura, dove la gelosia ripone
vendetta e consuma rivincite, tane ed anfratti per donne
che depongono uova, dove la violenza non è offesa ma
amore, piacere, un manico di spazzola che fa le veci di
un uomo, cogliendomi sorpresa e impreparata al
risveglio. In fin dei conti stavo chiedendo solo di
stringermi, più forte perché quel buio non fosse
evanescente, che da un momento all’altro non rimanesse
che vuoto. Ma avevo paura di essere io stessa il vuoto.
Ed allora m’aggrappavo alla mia voce che vera
rispondeva, che il domani era quello che stavo vivendo,
ma avevo paura che il giorno che stava nascendo mi
sorprendesse in un letto disfatto ancora da sola.
Tu dormivi, avevi il respiro pesante, quando la mano
di lei mi ha protetto prima il viso e la bocca e poi
come una lama è scesa nell’incavo dei nidi dove
gorgogliava bollente il piacere. Sentivo che era un
atto d’amore, forse davvero il primo, che nessun uomo mi
aveva mai dato.
Ho preso sonno con difficoltà in
quell’alba più rumorosa del solito. I francesi non erano
vinti, i comunisti Viet Minh non avevano la forza per
gridare vittoria. Venivano voci di massacri nella zona
di Dien Bien Phu. Qualcuno diceva che nella lontana
Svizzera il mondo stava trattando per noi. Mi risultava
difficile pensare che qualcuno si interessasse a questa
miseria. A scuola avevo imparato che se dividi zero
rimane sempre zero, ed allora cosa si stavano spartendo?
Dio, che orrore la guerra. Ma erano soltanto pensieri
d’innamorata che alle cinque del mattino era ancora
sveglia.
Le amanti ufficiali
Mia madre era contenta e mia sorella aveva messo
il vestito della festa che si era cucita da sola
copiando il modello da una rivista francese. Mi hanno
domandato di te, se riuscivo ad esserti umile compagna e
trovare la pace nel cuore. Per loro tua moglie era
solo un dettaglio come anch’io credevo quel giorno
quando comprasti dieci biglietti. Come facevo a spiegare
che da allora era tutto cambiato? Che negli ultimi tempi
soltanto una donna m’aveva portato vicino al piacere,
che tra te e lei non c’era conflitto, ma un vuoto su cui
m’ero adagiata? Loro erano convinte che ogni notte
prendessi il suo posto, e tua moglie tacitamente mi
lasciasse la parte più fredda del letto, che io
scaldavo. Ed in effetti quel giorno non mi fecero
domande perché da queste parti è cosa normale che una
moglie si metta da parte, quando i desideri del maschio
rimangono intatti dopo l’amore.
Ci sono donne che
non aspettano altro d’essere mogli soltanto di notte e
curano le anime e soddisfano i cuori, a viso aperto,
senza per questo doversi nascondere. Sono le amanti
ufficiali, signore vestite di viola con le unghie dei
piedi smaltate di rosso. Sono ex ballerine a tariffa,
mogli in affitto che suppliscono ai doveri avendo in
cambio un alloggio, vitto e consumi che chiederebbe una
donna normale. Ex puttane cadute in disgrazia che si
accontentano di un tetto temporaneo.
Non sono
concubine, mai si accavallerebbero alle mogli, rimangono
nel ruolo per cui sono state affittate, signore di
cortesia che non svolgono faccende di casa.
Ufficialmente non offrono sesso, sono regolate dalla
legge come dame di compagnia, ma è solo una patina di
ipocrisia perché lo Stato e la Comunità tolleri questa
usanza diffusa soprattutto nelle grandi città.
Non è difficile trovarle, le vedi ovunque dove c’è
folla. Basta andare al mercato del pesce una mattina a
buon’ora e vederle a gruppi che parlano fitte in attesa
della prossima offerta. Sono lì che aspettano uomini e
donne che vengono in coppia, che insieme trattano il
tempo, il compenso di vitto ed alloggio, il motivo per
cui sono chiamate. Quasi sempre lei, la moglie, ha la
pancia ripiena o troppi figli intorno che spezzano il
fiato. La donna vestita di viola discreta li
ascolta. Ha una propria dignità e non tratta mai con
uomini soli. Sarà l’amante ufficiale per un giorno, un
mese, un anno di scorta per chi avrà la fortuna di
sfamarle la pancia e d’ospitarla su un letto che avanza.
Le poche volte in cui mi alzavo presto e andavo
al mercato rimanevo a fissarle chiedendomi se dalla vita
non potessi avere altro e se quella sarebbe stata
l’unica meta concessa ad una ballerina a tariffa. Me
lo sono chiesta anche in quei giorni, in effetti cos’ero
se non un’amante ufficiale, la vostra, anche se ancora
troppo giovane. Mi chiedevo se stessi facendo soltanto
le prove!
Mi disperavo ma poi convinta tornavo a
sorridere pensando che tra noi non c’era soltanto un
gelido patto, un contratto. Voi eravate due persone che
cercavano amore e che l’ipocrisia in cui eravate vissuti
non vi permetteva d’essere chiari e trasparenti.
Sarebbe stato tutto più facile avere un’amante
ufficiale! C’eri tu che mi convincevi che sbagliavo a
pensare. C’era lei che forse m’amava davvero! Tu mi
guardavi nell’anima aperta e tentavi di dirmi che stavo
sbagliando a pensare, che l’amore che sentivi non era
condivisibile con altre persone, che era un sogno, una
fuga da Saigon lontano da tua moglie. Ma come potevo
accettare? C’era lei che in quel momento mi stava
aspettando sotto casa di mia madre. Ferma e impaziente
dentro un taxi.
Aveva paura che io potessi
rivedere quel tenente francese o qualche altro tenente
che lei non conosceva, qualche altro francese che mi
consumava la voglia sopra il pavimento di legno di
qualche catapecchia lungo il corso del fiume. La
vedevo dalla finestra, ogni tanto usciva dal taxi e
guardava in alto. Era bella tua moglie. La mia Amante!
Quel giorno portava un vestito a fiori ed un ombrellino
bianco di stoffa. Passeggiava nervosa. Mi faceva
immensamente piacere che qualcuno mi stesse aspettando.
Era un cuore che batteva, fremeva e perdeva dei colpi.
Ne ero orgogliosa, qualunque fosse il suo sesso e anche
se dalle parti del cuore c’era un rigonfio di seno.
Mi faceva piacere, ma non mi bastava.
Ogni volta
che scendevo da casa di mia madre mi scrutava dalle
caviglie alla fronte. Analizzava ogni parte del mio
vestito per non trovarci macchie e pieghe sgualcite,
residui indelebili di segni d’amore. La vedevo che
non si dava pace. Era l’unico posto al mondo dove non
poteva seguirmi. Mai avrei tollerato il minimo dubbio
negli occhi di mia madre, nel sorriso malizioso di mia
sorella. “Quando mi guardi, i tuoi sono occhi di
innamorata! Chiunque se ne accorgerebbe… tranne tuo
marito naturalmente!” Lei lo aveva capito.
Scendevo e rientravo nel vostro mondo, nel suo, in cui
lei sguazzava, ma a me andava stretto, perché come le
amanti ufficiali io mettevo armonia, e come ballerina a
tariffa mi mancavano i fiori, due mazzi con i biglietti
bene in vista, perché fosse chiaro che non c’era inganno
in quello che facevo e l’amore che offrivo era la somma
perfetta di due parti uguali.
Il
ventre del mare
Quella sera in veranda
sono rimasta atterrita, parole grosse, insulti e
rimproveri per l’unico fine di procurare dolore ed
offesa, di farvi del male senza ragione. Eravate veri ed
io ho spento ogni mio dubbio. Io guardavo il mare,
le navi che partivano mute, lo sforzo e il dolore, i
bordelli e il quartiere cinese che intatto continuava la
vita di sempre, dove nessun francese s’era mai sognato
di entrare.
Le navi partivano cariche d’amore e
speranza di trovare la pace in qualche altra parte del
mondo, di trovarci un lavoro perché avevano braccia ed
avevano mani, sudore che avrebbero offerto per uno
stomaco pieno. Guardavo quel mare, lo stesso che
faceva da profilo a chi s’accusava di santa ragione, a
te che le rimproveravi d’averti lasciato da solo nelle
notti da lei passate fuori di casa, in cerca di quel
compenso che pretende una donna, che non è affetto, non
è amore, ma impellente bisogno di sentirsi considerata.
Sono sicura che lei non avrebbe avuto nulla da dire
se io non fossi stata presente. Ti avrebbe lasciato
parlare, sfogare, per poi tornare dentro la coltre della
sua freddezza. Mi rendevo davvero conto che quella
non era una commedia, e lei non credeva che io ne fossi
al corrente. Ti lanciava sottintesi per non essere
chiara, per non essere scura davanti ai miei occhi.
Oddio che pena! E tutto perché la mattina ti eri
rifiutato di andare al ricevimento della moglie del
console. Secondo lei ti avrebbe portato vantaggi nel
lavoro e nella sistemazione poco decorosa che io vi
avevo trovato. Era evidente che non era quello il
motivo, che non c’era pace nei vostri occhi. Al minimo
accenno eravate nemici, alla prima parola storta vi
vedevo sprofondare negli abissi dell’odio, della
rivalsa, della rivincita.
Ti sei alzato
lasciandola urlare, si è alzata continuando a gridare,
mentre io ad occhi chiusi guardavo il mare senza più i
vostri profili. Era un mare profondo dove
m’abbandonavo leggera, mai sarei potuta andare a fondo
perché ero ancora convinta d’averlo trovato nel ventre
delle vostre anime vuote. “Sei la sua amante vero?”
Ma quella era una sera diversa, una nuvola rara
velava la luna. Mi sei venuto vicino e mi hai
accarezzato le spalle, ridevi per cercar comprensione.
“Sei la sua amante vero?” Ti eri fatto serio.
“Dimmi che già ti ha fatto godere.” Non rispondevo, ma
come se l’avessi fatto senza raggiri. Eri seduto mi
stringevi le cosce. “L’ho capito dai suoi occhi
troppo aggressivi. Lo è sempre stata quando ha un
amante. L’ho capito dal tuo sguardo equidistante che non
ha guadagnato la sponda per guardare dall’altra parte
del fiume.” Mi stringevi più forte. “Se l’hai fatta
godere, te ne sarà grata per sempre! La conosco, ha
l’anima a forma di sesso quando prova piacere. Nella sua
carne s’annida il conflitto di non poter essere di un
unico uomo.”
Ero contenta, era la prima volta che
mi parlavi di lei. La tua mano continuava a salire fino
a sfiorarmi il sesso. Poi discretamente sei entrato. Ero
felice che sentissi le sponde bagnate. Non capivo le tue
intenzioni, non sapevo dove il tuo dito mi avrebbe
condotto. Hai voluto che ne assaggiassi il sapore
per guardarmi negli occhi e provare cosa prova una donna
quando assaggia sé stessa. Eri intraprendete ed ero
felice. Non l’avevi mai fatto così vicino al rischio che
ci potesse vedere e non capivo se fosse una rivalsa
perché in tua assenza avevamo giocato da sole o una
sconfitta di maschio che vede negli occhi una donna che
gode.
M’hai trascinata fino alla ringhiera di
legno, Saigon m’avvolgeva e tu eri attratto da quel dito
che continuavo a leccare. Non c’è voluto molto. Mi
sporgevi nella notte e m’alzavi il vestito. Obbediente
colavo e mi facevo toccare, inghiottivo la mia faccia
nell’oscurità della notte.
Cos’ero per te in
quel momento? Soltanto un corpo o una piccola
puttanella che si era fatta tua moglie. Oppure l’amante
sognata nelle mille escursioni al fronte per scrivere un
pezzo. Ero solo una fica, e tu sei entrato come
Cesare nell’arco di trionfo, come un generale che saluta
le truppe. M’hai scopata davvero, senza remore e
dubbi, per dimostrarti d’essere vivo, per mostrarmi che
quello era sesso, maledetto e violento, d’un uomo che
era anche maschio. Chissà cosa avrebbe detto tua
moglie? Ma il destino l’ha lasciata in bagno ancora ad
urlare, a pensare che non ci sarebbe stato rimedio alla
tua impotenza.
Guardavo le navi partire, ma ora
non c’era tristezza, perché per me era amore,
assolutamente la prova che m’amavi davvero. Mi
fottevi come un animale in calore che non chiede altro
che quello che sente e giura e stragiura che nulla potrà
mai essere meglio. “Sei una puttana no?” Affondavi i
tuoi colpi, rischiando di cadere nel vuoto. “Sei una
puttana no?” Sì lo ero, ma non capivo cosa rispondere,
se dovessi giudicarti dal sesso che mi stava riempiendo.
“Ho ancora nove biglietti vero?” Spingevi e m’alzavi
con la sola forza del sesso.
“Allora posso
scoparti ancora nove volte a mio piacimento!” Eri crudo,
ma sentivo che mi volevi bene. “Lei lo paga il
biglietto?” Ecco la gelosia che usciva fuori. “Dimmi
se mi senti. Se pochi o nessuno sono arrivati più
oltre.” Sbattevi gli occhi e mi stringevi i fianchi.
Sbattevo gli occhi e ti strappavo i capelli. Ho
gridato: “Nessuno.” Perché tanti erano andati oltre,
tanti fino a ferirmi la carne, ma nessuno s’era spinto
fino a spellarmi anche il cuore. Poi un attimo e ti
ho sentito bollente, un niente e m’hai gridato
nell’orecchio che saresti stato qui dentro per sempre.
|
CONTINUA
Questo racconto
è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
luoghi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore e non sono da considerarsi reali.
Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
persone è del tutto casuale.
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