Io ci sono stato a Tijuana, città di dogana, capitale
del traffico di carne umana, corridoio di speranza, lì
al confine tra il sogno americano e la disperazione
messicana, punto di frontiera obbligato per tutti i
clandestini che vogliono rischiare e per i regolari che
si vogliono divertire. Sì certo ci sono stato lì,
immerso nell’infinito blu dell’oceano e i vicoli stretti
che odorano di piscio e contrabbando, lì, proprio lì, a
passeggio lungo l’Avenida Revolucion e la via elegante
dei bordelli esclusivi, lì, tra le luci accecanti dei
locali notturni e quelle in penombra dei tramonti
autunnali.
Eccola Tijuana la città più a Nord e
più a Est del Messico, le sue spiagge confinano con
quelle della California e solo pochi chilometri e circa
venti minuti la separano dalla ricca e tranquilla San
Diego, ma la vicinanza con gli Stati Uniti ne ha fatto
una specie di Sodoma e Gomorra in salsa messicana.
Eccola Tijuana, un mix di inglese essenziale e
colorito spagnolo, centro di libero scambio di qualsiasi
merce, dalle armi all’alcol, da ogni tipo di droga alle
“Bar gilrs”, prostitute locali che si incontrano in ogni
bar di Tijuana. Non sono belle, ma disponibili ad ogni
ora del giorno e della notte quando offrono la loro
merce e il pericolo di contagio a tariffe popolari.
Qui si vende e si compra di tutto: visti falsi, auto
rubate, sigari cubani, Marlboro ad un dollaro al
pacchetto, Viagra a due dollari e perfino il passaggio
della frontiera a 1.500 dollari a testa. Qui tutto sa
di illegale, sa di marcio e disgusto, dal taxista
orientale che ti offre indistintamente a poco prezzo sua
moglie o un pacchetto di sigarette, al minorenne che
vende munizioni e pistole vere. Qui è nato il grande
Cartello che gestisce tonnellate di droga al giorno ed
ogni grammo spacciato genera violenza, omicidi,
sparatorie, aggressioni, morti per strada, vendette,
facili arricchimenti e sangue, soprattutto sangue che
scorre rosso sull’asfalto delle vie lungo il grande
oceano della baia californiana.
Qui si vive in
baracche senza fondamenta e si muore facilmente sotto il
fango per una pioggia abbondante, molti di loro abitano
in una delle tre discariche di rifiuti della città
trasformate in veri e propri quartieri. Ma si muore
soprattutto per omicidio, in media uno al giorno, e per
la speranza di poter un giorno emigrare dall’altra parte
del muro. Alla frontiera di San Ysidro transitano
ogni giorno 60 mila macchine e 35 mila pedoni. Gli
agenti hanno 30 secondi per decidere chi fermare e chi
lasciar passare. Ogni giorno bloccano 15 carichi di
droga, ma secondo le stime più di 150 in media passano
indenni.
In città ci sono 4.500 posti di spaccio
e case del crack con altrettanti 80 mila
tossicodipendenti. Ogni anno a Tijuana 20 mila macchine
vengono rubate, incalcolabile il numero degli scippi e
le rapine a mano armata.
Sì certo ci sono stato a
Tijuana dove gli abitanti gridano alla luna di farsi i
fatti propri, lungo quelle strade che si interrompono
contro un muro, il muro della vergogna, alto tre metri e
lungo tremila chilometri, costruito per spezzare la
speranza a migliaia di reietti. Ed è proprio qui che
incontro all’imbrunire Reyna che si sta iniettando
eroina vicino al fatidico muro, è qui che incontro Pedro
che vive in un tombino, Carlos che mi invita a passare
la notte con sua madre o sua sorella. Mi dice che sono
tutte e due belle, che farò fatica a scegliere e quindi
per qualche dollaro in più anche contemporaneamente.
Qui vive Oscar che si veste da donna prima di andare
al lavoro, con tanto di tacchi a spillo, trucchi,
gonnellina rosso fuoco e parrucca platino, ma assicura
di essere uomo vero e che lo fa solo per lavoro. Per
essere più credibile mi invita insistentemente nella sua
casa di lamiera, mi offre una birra locale e mi presenta
sua moglie e i suoi cinque bambini.
Saluto Oscar
e torno in strada, mi avvio verso la Zona Norte, il
distretto a luci rosse, ed è qui che incontro Fernanda
un giovane travestito che vive e lavora da queste parti.
Sta mettendo i soldi da parte per rifarsi il seno e mi
parla di un giovane avvocato di Baltimora che ha
conosciuto l’estate scorsa. Sogna l’America e mentre
parla mi ricorda la Prinçesa di Fabrizio de' Andrè:
"Sono la pecora, sono la vacca Che agli animali si
vuol giocare Sono la femmina, camicia aperta
Piccole tette da succhiare..." "Che Fernandinho è
come una figlia Mi porta a letto caffè e tapioca E
a ricordargli che è nato maschio Sarà l'istinto sarà
la vita…"
Nella Zona Norte la prostituzione è
legale, sia nei bordelli che per strada, dove la
Paraditas, arricchiscono l’arredo urbano come i semafori
o i cestini per la spazzatura. Devono stare lì 24 ore su
24 e sono schiave dei cartelli criminali affidate di
solito ad un padre padrone che ne gestisce l’attività, i
ritmi di lavoro, l’affitto temporaneo e la vendita. Se
sei bella puoi avere mercato e fare carriera o
addirittura finire dentro una valigia e passare la
frontiera.
Tutte questa anime di vetro hanno in
comune la disperazione e la malattia. Qui, a causa
dell’eroina e della prostituzione, due persone su cento
sono malate di Aids e Fernanda, come Martha e Patricia,
sebbene sappiano come proteggersi, accettano per un
dollaro in più di fare sesso non protetto. Sesso alla
buona, alla Boia di un Giuda, consumato per strada. Come
del resto Reyna che addosso a quel muro si sta
iniettando una dose con una siringa usata chissà da
quante altre persone.
Patricia invece accetta di
raccontarmi la sua storia per un dollaro. Ha i capelli
lunghi di un colore indefinito, occhi grandi, è povera e
bella e questo a Tijuana significa avere il destino
segnato. Mi dice che un tempo è stata sposata ad un boss
della malavita di una provincia del Sud. Ha sopportato
per anni soprusi e violenze. Alla fine è riuscita a
scappare e ora l'unica ragione per andare avanti è
Isabel, la sua bambina, affidata a una zia in
California. Non la vede da anni, mi mostra una foto
ingiallita di una bimba di appena qualche anno. È per
ricongiungersi a lei che Patricia è qui giorno e notte
lungo il famoso muro. Sta cercando qualcuno disposto a
farla espatriare clandestinamente, intanto però ha
incontrato un uomo che si è preso cura di lei, ma è un
alcolizzato senza fissa dimora, per cui per il momento
vive di espedienti e si prostituisce.
Ecco tutte
questa anime sono, malgrado tutto, il simbolo di
Tijuana, il simbolo della miseria e della disponibilità,
il simbolo di un sogno che non si realizzerà mai. Loro
sanno che l’aspettativa di vita in questa città è di un
sesto inferiore alla media nazionale, e il Messico è in
fondo alla classifica delle nazioni, come sanno che un
bambino su sei finisce ineluttabilmente lungo le strade
della malavita. In Messico la prostituzione ha iniziato
ad essere regolamentata a partire dal 1885 e attorno
agli anni ’30, a Tijuana come nelle città di confine,
l’enorme flusso di turisti americani ha visto nascere
come funghi bordelli e locali vaudeville.
Certo
sì io ci sono stato a Tijuana lungo l’Avenida e sul
caotico lungomare, crocevia di anime, degrado e
contrabbandieri, tra le orde di teenagers statunitensi
in cerca di emozioni. A Tijuana non serve andare a
cercare una donna, come non serve andare a cercare
droga, a Tijuana la merce è a portata di mano, c’è e
basta, si respira in ogni angolo della citta, e gli
stessi abitanti non appena capiscono che sei straniero
ti affiancano per proporti donne e droga. Oppure basta
entrare in un qualsiasi bar, alla Mezcalera ad esempio,
dove dentro quel buio suggestivo ti servono il Mezcal,
l’infernale e potente distillato di agave.
E qui
le donne sono belle, belle, belle e messicane, sono
tutte belle per definizione, e ti invitano nei loro ampi
e colorati vestiti a fiori, dentro le tende pesanti di
un inverno che non arriverà mai. Oh sì, sono esperte e
ci sanno fare, come tutte le donne che fanno il mestiere
nelle città di frontiera. Sono giovani ventenni con il
seno grande quanto basta, sfruttate come mucche da latte
per questi famigerati protettori poco più grandi di
loro. Sono dappertutto, non solo agli incroci, ma anche
nei grandi parcheggi, come nei cortili dei caseggiati,
oppure negli alberghi, in fila al supermercato, nei
ristoranti, davanti alle chiese o nelle fabbriche di
fiori, oppure nei mercati dove si confondono con la
merce esposta.
Il posto dove allargare le gambe
non è un problema, basta girare l’angolo, basta un antro
semibuio, bastano tre dollari per alzare la gonna e
mostrarsi senza mutandine, ammiccano e ti invogliano ad
entrare, chiedono solo di non essere giudicate con gli
occhi di uno straniero. Poi tutto va come deve andare,
loro lo chiamano amore ma è solo sesso animale che dura
quanto un bicchiere di Pepsi Cola. Sono duty free e non
devi pagare alcuna imposta ed è lì che avviene
l’approccio, tutte belle ed a buon prezzo, ragazze madri
abbandonate dai loro mariti, tutte con una storia di
miseria e sfruttamento alle spalle e con il sogno di una
vita futura diversa. Credono davvero che quella vita
possa durare solo qualche anno e poi varcare la
frontiera, saltare quel muro, sposarsi a Los Angeles
oppure a San Diego.
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