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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
LE CENTO FOGLIE
Ora mi sento più sicura e cammino più svelta, tra meno di cento foglie sarò unica e vera, senza paure che finora m’hanno protetto, ma che ora mi spingono verso un laghetto, dove mai fino ad oggi avrei creduto d’andare. “Terza panchina a sinistra davanti alle barche."
 





Come posso pensare che quest’incontro mi cambi la vita? Che un’occasione neanche cercata mi possa ridare vigore al cervello e linfa alla pelle che nonostante le creme cade e s’arrende, al tempo che corre agli anni che porto? Come posso pensare che quel ragazzo incontrato per caso, possa in un attimo riempire i miei vuoti, scavati negli anni da sbagli e da imbrogli, oramai diventati caverne irrequiete, che se solo potessi cancellerei all’istante, ricominciando dal giorno che ho visto la luce?

Non c’è ragione e nemmeno un appiglio, perché ora mi aggrappi a questo sostegno, dentro un vagone stipato di metro, che rumoroso mi raschia il cuore e la mente, e mi porta diritto verso Villa Borghese. Perché poi gli ho detto proprio quel posto, dove si incontrano amanti che si giurano fitti, calde promesse in un pomeriggio affollato, davanti ad un laghetto dove rischi che incontri, mamme a passeggio con carrozzine e mariti, perfino la gente del mio stesso quartiere, che mi scruta e si chiede come mai qui sola, senza mio figlio o mio marito a braccetto.

Non so perché abbia voluto rischiare e questa mattina ho accettato l’invito, all’entrata di scuola dove lascio mio figlio, ho detto va bene senza pensarci, a quel ragazzo invadente con la faccia da bimbo, che insistente mi chiedeva un minuto soltanto. “Mi scusi signora, un attimo solo!” Con fare indiscreto mi ha chiesto una strada, poi m’ha seguita per i banchi di frutta, finché m’ha strappato un sì e un va bene, che ora mi pento e mi rimbomba ossessivo, come se non aspettassi che altro che quello, un qualsiasi uomo che mi facesse un invito.

M’intravedo la faccia e mi giudico oscena, tra i finestrini sporchi che mi fanno riflesso, mi sento ridicola se solo ci penso, perché avrà la metà degli anni che porto, perché sto andando rassegnata su una panchina, di Villa Borghese davanti al laghetto, che non porta altro che a questo presente, senza uno spiraglio che diventi domani.
Mi ripeto che alla prossima scendo, e torno indietro da mio figlio che ora m’aspetta, e mi vuole e mi chiama per aiutarlo a studiare, magari inventando a mio marito una scusa, semmai davvero dovessi rendergli conto, che l’estetista stasera ha avuto un disguido. Ma dove vado non c’è nessuna estetista! Forse solo la speranza remota di qualche massaggio, che la mia vergogna ha riposto in qualche angolo buio, e nessuna luce al momento potrebbe schiarire, senza farmi sentire davvero grottesca.

Mi sento comica e buffa, mi sento uno straccio, se penso alla faccia di chi ora m’aspetta, quando mi vedrà traballare imbranata ed incerta, su questi tacchi che non mettevo da anni, con questa gonna che non copre il ginocchio, adatta ad un corpo giovane e snello, ad una ragazzina con gli stessi suoi anni, giovane e bella e perfino modella! Chissà cosa penserà vedendomi diversa, da questa mattina quando m’ha vista, quando i suoi occhi si sono adagiati, nella scollatura che ostentava il mio seno, dove da anni nessuno mai aveva riposto, il minimo intento per sentirsi più uomo.

Ma io ce l’ho già un uomo! Uno di quelli che a quarant’anni soltanto, pensa che una madre ha smesso di essere donna, che una moglie non sia più adatta a dare piacere. Non si rende conto cosa cova qui sotto, tra queste gambe ora coperte di rete, che camminano dritte verso la percezione di un sogno, che da tempo consumo al risveglio da sola, quando lui esce ed io rimango nel letto.

Tra poco lo vedrò giovane e bello, sorpreso perché mai ci avrebbe sperato, mi darà del lei chiamandomi signora, chissà se cercherà la mia mano, che timida ogni volta cambierà posizione. Spero davvero che non si faccia illusioni, non cederò di un millimetro ai suoi desideri, perché una signora per bene non si lascia mai andare, la prima volta su una panchina all’aperto. Scanserò le sue voglie maliziosa e sicura, facendomi corteggiare per ore e parole, fino a che mi sentirò considerata davvero, che a quarant’anni si può essere altro, gustando l’inizio di quello che vado cercando.

Mi domando sul serio se sono venuta per questo, se veramente questo ragazzo possa cambiarmi la vita, o almeno i pensieri quando m’addormento di notte. E se invece me ne innamorassi davvero? Se non opponessi resistenza alle sue mani, che di sicuro smaniose proveranno a toccarmi, tra la maglia di rete delle mie gambe scoperte, come mille risposte alle mie tante domande, che inesorabili mi spingono ad andare più avanti. Sorrido e mi metto a pensare, come possa una donna far capire che vuole, dire e non dire ed invitarlo ad osare, che può venirmi più accanto e sfiorarmi i capelli, e se vuole può sentire quanto batte il mio petto, se tocca e ritocca dalle parti del cuore.

Credo davvero che sia inutile fingere, perché se ho accettato l’invito, da questa faccia poco più che lattante, non ho poi tanto bisogno di corte a parole, di cene e d’alberghi e suite imperiali, con le finestre tappate per soffocare le urla, la voglia che dentro trabocca da sola. Perché griderei se solo provasse, se solo una mano m’accarezzasse di fianco, o che so io, un bacio negato ad un seno che chiede, per farlo esplodere senza ritegno, come una mina nascosta dalla terra e dal tempo. Mi sgualcirebbe la seta che leggera mi fascia, appiattendo le onde di luci che fuori, filtrano, giocano e sensuali si danno, per l’unico scopo d’essere femmina, per l’unica meta di farsi sciupare, le pieghe del cuore di pelle e di carne, nel dai e non dai che si nega e si dona, alla passione del maschio che incede ed avanza.

Che pazza che sono a pensare queste cose e intanto cammino su queste foglie d’autunno, che fanno rumore sotto le suole, che fanno richiamo per uomini soli, mi fischiano volgari per il gusto di farlo, m’invitano sapendo di non aspettarsi che altro, da una signora che passa non si volta e cammina. Invece non sanno che potrebbero osare, che basterebbe davvero un minimo sforzo, per esser cortesi e rallentare il mio passo. Se sapessero solo che il calpestio dei miei tacchi, va dritto verso l’unico maschio, che ha avuto il coraggio di offrirmi un incontro, e nessun’altro motivo mi conduce in quel posto, neanche la voglia che pur cova e ristagna e vorrei destinare a due mani più adulte.

Se sapessero che sotto la mia gonna fibrillano fiocchi, orli e merletti per un po’ d’attenzione! Ma è possibile che non riescano a capire? Che mi sono ridotta ad infarcire di sogni, un piccolo ometto che ora m’aspetta, che davvero potrei fargli da mamma, e di sicuro i miei seni sarebbero adatti, se fossero gonfi soltanto di latte. Mi lasciano andare perché hanno capito, che cerco un’occasione per imbrogliarmi di nuovo, che non sia evidente e nemmeno diretta, ma nasconda le insidie per farmi tentare. Conciata in questo modo non vado di certo, a prendere un tè con la mia amica del cuore, ma a farmi accettare per quello che valgo, se gli anni che mostro sono pochi o poi tanti, per sentirmi più donna senza pretendere altro.

Ora mi sento meglio e cammino più svelta, ho voglia soltanto di mettermi in prova, con le mie morali assopite che dormono a fianco, e mi fanno vedere più chiaro che voglio, essere apprezzata chiunque sia il soggetto, uomo o bambino che freme e che sbava, su questo seno testardo che cala e che pende, trascurato da bocche che ho respinto negli anni.

Tra meno di cento passi sarà tutto diverso, solo cento foglie che ciancico strada facendo, contenta e felice d’esser me stessa, vestita e truccata per farmi guardare, per farmi sentire bottino e poi preda, di fronte a due occhi che ne fanno saccheggio. Tra meno di cento foglie sarò unica e vera, senza paure che finora m’hanno protetto, ma che ora mi spingono verso un laghetto, dove mai fino ad oggi avrei creduto d’andare.

Lo immagino che freme che suda e vorrebbe, poggiarmi la voglia bollente che aspetta, il suo sesso che cerca una comoda alcova, le sue dita sul velluto di stoffa e di tette. Se solo fosse un po’ intraprendente! Lascerebbe i convenevoli ad un altro momento, per darmi ora il desiderio più esperto, quello diretto che mi brucia e consuma, questo calore che mi lievita dentro. Se solo fosse più deciso, m’alzerebbe la gonna in un attimo breve, scoprendo fiocchetti orli e merletti, d’una donna che freme che lascia scoprire, il solo motivo che qui l’ha condotta, lungo questo viale di alberi e ghiaia, che fastidiosa m’impedisce di procedere in fretta.

“Terza panchina a sinistra davanti alle barche.” Mi ripeto ossessiva la sua voce infantile, che ora m’appare sensuale e più scaltra, come se nel frattempo fosse cresciuto, come se tante donne amate nel mentre, gli avessero dato un’aria da grande. Mi prenderà proprio su quella panchina, magari quando l’aria più scura s’è fatta tramonto, o spingendomi dietro una siepe d’alloro, così rada perché ora a me serve pensarlo.

Mi prenderà per il gusto d’avermi davanti, di farsi una madre con quarant’anni di voglia, di farsela tutta, obbediente e più schiva, che le cerca le labbra o dentro le cosce, che per il fine che cerco non fa differenza. Mi chiede e mi vuole, mi chiama e mi ingiuria, senza curarsi poi troppo del mio tailleur di Cavalli, mi spoglierà di sicuro lo farà veramente, per lasciarmi in balia di occhi indiscreti, che di lì a niente passano in fretta, che di lì a niente desto solo che schifo, perché mi faccio sbattere contro una siepe, perché è un ventenne ed io più nuda, mostro per intero gli anni che porto. Cammino e rallento cammino e m’affretto, sento gli occhi del mondo che mi danno un giudizio, come se le mie scarpe parlassero sole, come se i miei seni ballassero al vento, e diventassero voci sempre più fitte, e poi urla e poi rumore assordante.

Solo cento foglie ed ora mi vedo, vestita elegante dietro gli sterpi, la siepe d’alloro che a malapena mi copre, dalla strada, i passanti, dal traffico intenso, da mio figlio che ora m’aspetta, da gente normale che va verso casa, da mamme che corrono verso gli affetti. Solo cento foglie per sentirmi già persa, che cerco impunita l’ennesimo orgasmo, senza trascurare la brama di pelle, che s’infila e si sfila nel mio piacere che doma, che affonda e ristagna dopo anni di incuria.

Solo cento foglie e mi chiama puttana, eccolo lo sapevo che l’avrebbe gridato, che vestita così non do altra idea, che in piedi in ginocchio come la domenica a messa, come gatta in calore che gode alla luna, alla fila di maschi che stanno aspettando. Le voci m’incalzano e si fanno più inquiete, solo cento foglie per lacerarmi i vestiti, stipata nel collo d’un passato banale, da buttare intero come immondizie, la comunione di Luca, il mio viaggio di nozze, mio marito che sbuffa e ogni notte mi schiva, s’addormenta pensando ad una donna diversa, magari straniera, magari più bella, magari più bionda del mio castano rifatto.

Dentro di me le voci si fanno più intense, urlano ficcanti e diventano un coro, un corteo di facce che non mi lasciano tregua, solo cento foglie per essere brava, per sentirmi padrona e sentirmi in difetto, stipata di voglia tra le labbra e la bocca, la mia grande occasione perduta nel tempo, la bella casa arredata di gusto all’antica, l’aborto spontaneo da sola nel bagno, le cene a Natale i pranzi di Pasqua, l’immagine sacra sulla spalliera del letto.

Solo cento foglie e godo davvero, di fianco e supina montata riversa, con il seno umido spiaccicato sull’erba, insozzato di terra ed acqua piovana. E chi se ne frega se ha vent’anni di meno, se ha la bocca ancora piena di latte, perché godo davvero riempita all’orlo, come un secchio per strada sotto la pioggia, che ancora ne chiedo addosso la siepe, con gli stecchi che graffiano l’anima persa, che mi danno dolore ferite e bruciore, e a poco a poco svaniscono senza più tracce, perché nulla rimane e nulla più sento…

Le cento foglie sono finite, le cento foglie ora non fanno rumore, sopra questa panchina davanti al laghetto, la terza a sinistra dopo il cancello, proprio davanti alla rimessa di barche. Mi rimane solo un dubbio calmo e silente, se quel ragazzo sia esistito davvero, all’entrata di scuola mentre salutavo mio figlio, se intraprendente m’abbia veramente invitata, a quest’ora al tramonto dentro Villa Borghese.










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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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