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LIBERAEVA
L'ALBERO DI FICO
"Sarà quest’inverno che piove da sempre,
che mi fa ritornare da mia nonna da bimba, tra i sentieri di fratte
di funghi e lumache, ed un sole spaurito che filtrava tra i rami, ed
io ero attenta a non sporcarmi le scarpe, per via di mia madre che
m’avrebbe sgridata"

Photo Gundega Dege
Sarà quest’inverno che piove
da sempre, che mi fa ritornare da mia nonna da bimba,
tra i sentieri di fratte di funghi e lumache, ed un sole
spaurito che filtrava tra i rami, ed io ero attenta a
non sporcarmi le scarpe, per via di mia madre che
m’avrebbe sgridata, perché erano bianche lucidate a
bianchetto, la domenica presto sul davanzale. Sarà
questa pioggia che stinge quei muri, ed io battevo con
forza la mano contenta, e gridavo convinta tana libera
tutti, credendo bastasse un cielo e una mano, per
toccare con un dito l’azzurro più intenso. Credevo che
il mondo non fosse altro che un sogno, che finiva al
mattino tra il dormiveglia nel letto, di ferro battuto
dipinto marrone, e le coperte di lana e la stufa di
cotto. Credevo che il mondo fosse tutto lì dentro,
tra i rumori in cucina e l’odore di latte, nella stanza
che dava a valle sull’orto, con i rami del noce che
entravano dentro, che sarebbe bastato allungare una
mano, per raccogliere i malli verdi d’ottobre. Sarà
che ricordo di quella casa ogni punto, i disegni gli
stipiti la carta sul muro, che ogni tanto per rabbia ne
staccavo un pezzetto, e poi l’odore di muffa e di erba
murana, che saliva dai vicoli ammattonati e consunti, i
suoi pianciti corrosi smembrati e sconnessi, mi
rinnovavano il sentore della vita e la morte, di quanto
effimero fosse lo scorrere in fretta, delle stagioni e
del tempo da quel giorno per sempre. Sarà che la
notte la vedevo più nera, quando al tramonto m’attardavo
nel buio, e giocavo a nascondermi tra la siepe più
fitta, e mia madre da casa mi chiamava a gran voce. Come
vorrei risentire quel freddo, quando zuppa correvo per
ritornare nel grembo, ed essere sgridata per via dei
malanni, che puntualmente prendevo con trentotto di
febbre.
Era il primo novembre nel giorno di
festa, ed avevo da poco compiuto nove anni, e rincasavo
bambina dalla messa dei Santi, trovando il vicino a
sbarrarmi il passaggio, mi racchiuse tra le braccia
vecchie insecchite, perché nonna era andata via per
sempre, e lui colava di pianto lacrime mute, l’inutile
rabbia sopra i suoi baffi. Non ho mai capito ed ancora
mi chiedo, se quell’abbraccio fosse per consolare una
bimba, alla prima esperienza di morte e dolenza, o
volesse acchetare il suo stesso dolore, perché sapeva in
cuor suo che sarebbe partito, a breve anche lui per
l’identico viaggio. Quella notte dormii da parenti
vicini, ci riempirono di premure caramelle e regali,
fogli bianchi di Fabriano e matite a colori, in una casa
pulita che sapeva di libri, di famiglia per bene con un
impiego alle Poste, due figlie in procinto di laurearsi
a breve.
Quando tornai non trovai più nonna, il
suo letto era vuoto e allora piansi davvero, affacciata
nel mondo da quella finestra, trai rami stecchiti del
noce e la valle. Erano i giorni di neve poco a Natale,
passò l’inverno tornò primavera. Io intanto crescevo e
crescevo in altezza, d’un tratto orgogliosa superai la
maestra, lei piccola e minuta e tinta di biondo, la
sorpassai fin sopra la cotonatura rigonfia. Iniziò
l’estate ed anche il mio petto, lievitò come i dolci di
nonna nel forno, e infine un bel giorno trovai una
macchia, scura di sangue e sbiancai di paura, nel
vedermi le gambe colate di rosso, nel sentirmi infettata
da un grave malanno, nel pensarmi già morta come la
nonna. Velocemente nel bagno raccolsi i pensieri, mi
guardai alla specchio bianca e convinta, che sarebbe
mancato poco alla fine e dovevo per forza avvisare mia
madre. Piangevo tanto immaginando il suo pianto, e ci
rimasi di stucco vedendo il suo riso. Andò in camera e
tornò poco dopo, con un pezzo di stoffa bianco di lino,
due spille da balia e una specie di laccio. Durante la
cena nessuno fiatava, tra sguardi e sorrisi conclusi che
in fondo, potevo continuare la mia vita di sempre, e che
non ero malata anche se il mattino seguente, il
pannolino era intriso ancora di sangue. Mia madre mi
cambiò e ripose quello sporco, nella bacinella di acqua
che si tinse di rosso. Mi ricordai in quel momento delle
tante tinozze, viste fino allora simile a quella nel
bagno, pensando che il mio male doveva esser comune, a
quello di mamma di zia e di altre parenti.
Sarà
questa notte che mi fa tornare bambina, saranno quei
giorni passati in campagna, e una ragazzina del posto mi
venne vicino, saltellando dicendo “Hai il marchese!” Io
la guardavo sorpresa con gli occhi sgranati, e tacendo
negavo con tutta me stessa, con la testa la mano e poi
un grido strozzato. “Cos’è?” gridai, “Che dici?”
“Il marchese! Il marchese rosso!” e mi ballava intorno.
“Il marchese! Il marchese rosso!” e rideva contenta.
A sentire quel colore capii umiliata, ed il pensiero
veloce andò a mia madre, era andata a dire ad estranei
la cosa, e sentii una stretta dolorosa nel cuore.
“Allora hai anche i peli lì sulla fica” La ragazzina
spietata continuava a ballare, a dire parole che
m’entravano fitte, nella mia intimità contaminata ed
offesa. Sbiancai nell’udire quella parola, che non
conoscevo ma percepivo volgare, che non potevo che
associare alle spille, che portavo alla vita e risposi
rabbiosa. “Non ho peli, non ho nessun pelo!” Scappai
piangendo a sfogarmi la rabbia, sopra il primo albero
quello di fico, che colava stille dolci e collose, e
calai le mutande e purtroppo era vero, il mio pube era
colmo di peli e di nero, era vero davvero e non me ne
ero mai accorta!
Sarà questa sera che sento i
cani abbaiare, e fanno più nero questo buio di pesto, e
fanno più vuoto il silenzio che intorno, mi fa
galleggiare come una nuvola bianca, che cambia la forma
sballottata dal vento, ed io da bambina ci fantasticavo
per ore, ci vedevo dei mostri continenti e figure.
Sarà che domani sarà giorno di nuovo, ed il tempo che
passa passa veloce, e gli diamo misura fissando i
ricordi, con un chiodo puntato sulla pelle del cuore,
come una data ed un nome scolpiti nel marmo. Saranno
davvero questi cani che sento, una ragazzina che balla
ed ingiuria il mio sesso, ed io che scappo di corsa e
sui rami, appesa a quel fico che porta male se cadi, e
mi ritrovo bambina con gli occhi ormai secchi, perché
piansi per ore lacrime amare, piansi finché si fece buio
e poi notte, finché qualcuno da casa mi venne a cercare.
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Questo racconto
è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
luoghi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore e non sono da considerarsi reali.
Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
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