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LiberaEva
L’amore materno
"A volte mi sembra impensabile
guardarmi ancora allo specchio e vedere di giorno in giorno la mia
pancia che lievita, nonostante la mia coscienza non abbia fatto il
minimo sforzo per donarmi questo regalo. …..."
Photo Piotr Stach
A volte mi sembra impensabile guardarmi ancora allo
specchio e vedere di giorno in giorno la mia pancia che
lievita, nonostante la mia coscienza non abbia fatto il
minimo sforzo per donarmi questo regalo. A volte mi
sembra assurdo che io possa amare così tanto questo
nocciolo di pesca dopo che ho varcato confini e sfondato
certezze che affondavano nelle radici di chissà quale
parte della mia intelligenza che al momento opportuno
s’è ritrovata meschina senza opporre ragione. Mi sono
sorpresa a sentire voci incomprensibili e straniere
senza che avessi passato frontiere o valicato dogane di
montagna. Imbracata e calata nelle viscere del mio corpo
ho sentito solo l’odore acido che fa l’acqua stagna in
un pozzo, solo i suoni che provengono dal basso misti al
rimbombo che dà l’incoscienza…...
C’era
Venezia di contorno, opaca e d’autunno, c’era la
pioggia, quella che dà fastidio e non bagna, tra ponti e
calli che s’inseguivano grigie e depresse nel dubbio di
averle già passate. C’erano le barche e l’acqua che
torbida rifletteva dal basso questo peccato, che nel
mentre rispecchiava, ne vedevo tremolante il peso e la
colpa. Subito poco prima, una musica metallica di
cellulare: “Buona sera amore, come stai?” “Buona
sera, tesoro, il tempo è brutto, il viaggio non male, la
riunione di oggi tutto bene”. Sentivo la voce
lontana, quasi come se poche ore ed un treno m’avessero
liberata dai Piombi, quegli stessi che ora guardavo da
un ponte dopo piazza San Marco. “Buona notte amore,
non t’affaticare!” La voce di mio marito ancora più
pallida l’avevo già persa proprio mentre due occhi verde
laguna mi fissavano e m’affogavano nella melma di questa
città che solo l’apparenza rendeva indimenticabile.
Ma io quegli occhi l’avevo visti centinaia di volte,
m’avevano già spogliata per giorni e giorni e solo la
mia illusione ora credeva che non sarebbe più accaduto.
Come credeva che sarebbe bastato dirglielo e la sua
mano, ammansita dalla luna, m’avrebbe compresa
sfiorandomi i capelli, addolcendo il mio istinto di
essere madre.
Mi baciò ignaro, con lo stesso
sapore che avevo rifiutato in piedi durante la pausa
pranzo, mi baciò più forte senza chiedermi permesso,
insinuando il suo pantalone nero dentro il nylon delle
mie calze, premendo il suo sesso deciso contro il mio
ventre deforme, ancora cieco soltanto ai suoi occhi. Che
sarebbe successo? Se in quel momento, dove era calata la
notte, gli avessi confidato il segreto, se in quel
preciso istante, mentre mi cercava la voglia tra i seni,
gli avessi fatto notare i miei fianchi ingrossati? Forse
nulla, perché nessun’altra occasione di lavoro ci
avrebbe sorpresi così vicini, nessun’altra coincidenza
gli avrebbe permesso di sfiorarmi le labbra che solo uno
specchio d’albergo le dipingeva perfette ed inopportune.
Erano anni che vivevamo dentro questo segreto,
proibito e clandestino d’essere amanti, consapevoli che
mai la nostra condizione di vetri appannati si sarebbe
trasformata in una casa con ampie finestre, in un parco
alla luce del giorno dove baciarci liberamente. Per la
prima volta dopo anni di missioni eravamo capitati nello
stesso progetto, in mezzo a questi canali che ti
riempiono di magia e potere, come se tutto fosse stato
possibile compreso il desiderio di girare da soli al
riparo da sguardi indiscreti. Compreso il sogno, tante
volte sognato, di fare l’amore dove ci colpiva la
voglia, in mezzo alla strada o sopra una panchina di
pietra guardando l’acqua arrossire al tramonto. A breve
saremmo andati a cena, a breve m’avrebbe sfiorata sotto
il tavolo con la sua impazienza di ritrovarci in un
letto, il primo letto per la prima notte insieme, per il
primo risveglio dentro i miei occhi assonnati, dentro le
sue mani capienti che finora mai avevano stretto la mia
faccia struccata in un’alba qualunque.
Sentivo la
sua voglia schiacciata sul mio seno, la sua lingua
martellante dietro l’orecchio, che sfiorava il pensiero
di dovermi negare. “Ma io non posso!” Mi
ripetevo ad ogni vapore che m’accapponava la pelle, ad
ogni brivido di vocale strascicata che mi penetrava nel
collo. Per un attimo m’abbandonavo come se tutto ciò
fosse ancora possibile, come fare l’amore in una stanza
d’albergo mentre dalla finestra aperta entravano suoni,
e voci e odori. Ma un attimo dopo m’irrigidivo.
“Eva, ma cosa stai facendo?” Mi riprendevo, come si
riprende la testa che cade a chi dorme sopra un sedile
di treno. Mi rimproveravo come se il suo sesso
ineluttabile fosse già entrato e avesse distrutto ogni
proposito, ogni volontà che si faceva da parte facendo
gli onori all’ospite grato. Dovevo dirglielo,
assolutamente doveva sapere che la sua piccola Eva,
portava con sé la fine d’ogni gioco, la morte di quella
complice spensieratezza dove negli anni c’eravamo
rifugiati infantili e bambini. Nel mio ventre occupato
non c’era più posto per un altro coetaneo che, ora,
dentro il buio di una calle mi stava proponendo
infantile e insolente di sbottonare la camicetta, di
mettere in mostra i miei seni come tante volte avevo
ubbidito. Ripresi a camminare in cerca del
ristorante, ma la sua mano, conoscendo la strada,
s’infilava esperta sotto le pieghe della mia gonna, tra
le mie cosce che, se avessi chiuso per un attimo gli
occhi, si sarebbero date addosso a qualsiasi muro.
“Ho fame, smettila ti prego!” Ma non c’era verso, la
strada era buia, deserta, piena d’angoli scrostati, e
nemmeno un passante per prendere tempo. I suoi occhi
luccicavano da gatto, sfaccettavano la poca luce dei
lampioni, dandole intensità e calore, fino a riflettere
bollenti sulla mia paura di fargli del male. M’afferrò
come altre volte m’aveva afferrato, mi sollevò sopra i
suoi fianchi, spiaccicando le mie ultime difese contro
l’umidità di un angolo appartato, scostando le mie
mutande leggere che remissive non cercavano altro. Tutto
intorno non c’era nessuno, solo il rumore del mio
cappotto strofinato sul muro, solo il silenzio dei
nostri fiati che sincroni respiravano senza più
ossigeno. Tra meno di un istante m’avrebbe presa ed io
sentivo le mie forze affievolirsi quanto l’alito freddo
di un morente, sentivo le mie mani prive d’energia
tranne quella d’accoglierlo dove per tanto tempo s’era
accovacciato. Tra meno di un istante l’avrei sentito
farsi largo tra la mia carne, scivolare orgoglioso e
maschio tra le mie pareti, proprio nel punto dove la
terra fertile conserva caldo il segreto e difende dalle
intemperie il seme che l’ha fecondata. Se mi fossi
abbandonata, non sarebbe successo nulla, se avessi
accettato quella voglia dirompente ci saremmo amati come
ogni volta. Ma avevo giurato a me stessa che nessuno più
avrebbe contaminato quel luogo, ora purificato dai
gemiti che solo una madre sente prima del tempo.
“Stefano aspetto un figlio, e non da te!” Uscì
incontenibile come uno starnuto. Lo dissi vigliacca
sull’orlo del baratro delle mie cosce spalancate, della
mia paura di cedere ancora qualche millimetro, mentre un
anonimo passante s’era deciso a venirmi in aiuto. Ma
ormai era troppo tardi, più tardi di quanto mi fossi
arrovellata il cervello per come svelargli il segreto.
Guardò fisso la verità nei mie occhi e s’allontanò di
colpo lasciandomi rovinare a terra e sbattere i gomiti
sul selciato. Non parlò e non mi venne in soccorso.
Rimase dritto in piedi a guardarmi incredulo. Vidi
l’oscurità che s’impossessò dei suoi occhi, il dolore
correre sulle sue mani che tremanti si toccarono la
faccia, i capelli, il naso, per poi stringersi a pugno e
colpire solo aria. Avesse avuto un coltello m’avrebbe
trafitto, avesse avuto una pistola m’avrebbe colpita, ma
aveva soltanto due piedi che sperai con tutta me stessa
di sentirli violenti tra le mie gambe, contro quel peso
ingombrante che ci teneva distanti. Se in quel momento
avesse espresso un desiderio, l’avrei seguito come un
cane in qualsiasi bordello, scegliendogli la più bella
puttana che Venezia avesse mai ospitato. L’avrei io
stessa eccitato, l’avrei io stessa inumidito per paura
che qualsiasi attrito ne ritardasse l’orgasmo. Avrei
accompagnato il suo piacere con le stesse mie mani
dentro qualsiasi sesso che s’allargava a pagamento.
“Parla, picchiami, prendimi a calci!” Gridai, persa,
con quanta poca voce m’era rimasta, con quanto dolore mi
procurava la sua arrendevolezza. Ero praticamente
distesa con la testa appoggiata al muro, il gomito e la
gamba mi facevano male. Mille pensieri mi giravano
contemporaneamente, risbattendomi a terra ogni qualvolta
tentavo d’alzarmi, ogni qualvolta mi rendevo conto che
nulla m’avrebbe fatta tornare la sua piccola Eva. Avevo
rovinato tutto e scelto il momento peggiore per
rovinarlo meglio. Avrei in quel momento fatto ogni cosa
per soddisfare il suo bisogno, spogliandomi
completamente nuda e passeggiando per ponti e per calli
senza quelle mutande maledette che prima, al primo
sentore di maschio, s’erano fatte da parte. Desideravo
solo che mi venisse vicino, che chiedesse qualsiasi
prezzo per farmi sentire il sapore intenso del suo sesso
tra le mie labbra socchiuse a dovere. Ma il suo bisogno
aveva cambiato piacere! Chissà ora a quale vendetta si
stava aggrappando per poter proseguire da solo. Come uno
sfrattato s’allontanò qualche altro passo senza nessuna
considerazione, come se più nulla esistesse di me, come
se il profumo di voglia dei miei seni, delle mie gambe,
avessero perso di colpo l’odore di femmina. S’allontanò.
Lo chiamai, lo pregai di tornare. Rimasi lì
aggrappandomi ad una stella, illudendomi di vederla a
breve precipitare nell’acqua. Ora ero sola. Sola con la
tristezza d’aver irrimediabilmente perso una parte di
me, sola con l’effimero orgoglio di non aver ceduto a
quel piacere per un attimo prossimo, a me, a mio figlio.
Volai lungo i canali alla ricerca del mio unico
uomo, unico maschio che giorno dopo giorno m’aveva
fecondata nel cervello, nell’anima, in ogni parte di me,
che solo gli eventi non lo facevano padre. Entrai in
bettole malfamate e ristoranti di lusso, addirittura in
portoni di case private che davano sulla strada, ma
niente, il mio uomo, l’unico uomo, che la vita generosa
m’aveva regalato, era svanito insieme a questa nebbia
che dava alla mia ricerca affannata un attimo di tregua.
Arrivai fino alla stazione, per calli, per ponti, per
scale, per muri, per poi costeggiare stanca i canali
scandagliandone con lo sguardo l’acqua torbida e il
maledetto sospetto di vederlo affiorare. Ero pazza,
sentivo nelle mie vene fredde scorrere la paura,
convinta che qualcosa di irrimediabile fosse accaduto,
qualcosa che una nuova vita nascente non avrebbe mai
potuto consolare. Ero persa, scalza e quasi nuda. Avevo
buttato ogni ingombro nell’acqua assieme al cappotto e
ad ogni riserva mentale che passo dopo passo stavo
pagando con le pene dell’anima. Mi sentivo cattiva, come
quando ti sembra d’aver fatto volontariamente del male,
provocato dolore gratuito ed intenso. La penombra nei
suoi occhi, le mani tremanti, tutto questo per il mio
disagio di non accettarlo addosso a quel muro, per la
mia fragilità di non tenermi un segreto.
Continuai a camminare senza meta, senza un minimo punto
che da lontano mi facesse vedere la luce, la ragione.
Finalmente lo intravidi da lontano dopo ore, seduto sul
selciato umido con le gambe pendenti ed i piedi che
sfioravano l’acqua. Lo chiamai, lo amai per tutti quei
passi ancora distanti, per quelle scuse e perdoni che
stavano esplodendo nel mio corpo. Mi guardò inanimato
come se attraverso il mio corpo vedesse solo strada e
lampioni e nebbia. Lo abbracciai con quanta forza m’era
rimasta, ma strinsi solo carne, ossa e muscoli inerti.
Gli parlai, lo picchiai, gli giurai disperazione, lo
supplicai col pianto che abbondante bagnava le mie
labbra scomposte dall’angoscia. Mi rotolai a terra
colpendo ripetutamente la parte che finora avevo
preservato persino al piacere, persi il vestito senza
darmene cura. “Stefano, dimmi qualcosa, fammi sentire
almeno una puttana qualunque, ti prego picchiami, cerca
il tuo lutto dentro la mia fica e svuotami il ventre dal
male!” Si voltò aggrinzendo la faccia come per sputare
disprezzo, per colpirmi con tutta la rabbia che
s’addensava nella sua bocca.
“Fallo Stefano!
Fammi abortire!” Spalancai le mie cosce con tutte e due
le mani, invitandolo come un’invasata ad estirparmi il
peccato che ci divideva. Senza risposta continuai a
battermi cercando di soffrire almeno una parte del
dolore che avevo creato. “Non è cambiato niente, non
cambierà nulla!” Ma oramai erano parole vane. Tentai
ancora ingiuriandomi come una cagna ingravidata da un
banale piacere. Sconnessa, cercai d’agire avvicinandomi
a carponi sul suo sesso. Come se la mia bocca potesse
fare miracoli, lo inumidii per prepararlo ad entrare, ma
era molle, gelatinoso e inconsistente come un verme di
sabbia. Cercai per minuti e minuti di farlo reagire, di
sentirlo vivo tra le mie labbra che l’avvolgevano come
un involtino. Volevo con tutta me stessa sentirlo
imperioso, di nuovo maschio, di colpo dirompente che,
come poco prima addosso a quel muro, m’entrasse nella
carne sbaragliando ogni remora, ogni preoccupazione. Non
pensavo ad altro, come se dentro la mia pancia ci fosse
solo il piacere di dare piacere, solo la brama d’essere
presa, solo la pazzia d’essere incinta. Solo una grande
bugia che purtroppo era vera.
L’alba ci sorprese
con la tristezza di fianco, seduti a guardare l’acqua e
freddando le ultime emozioni di una notte troppo lunga.
Ora era tutto più chiaro, mi teneva per mano e sentivo
il suo sangue scorrere regolare. I suoi occhi verde
laguna guardavano oltre. I miei sbarrati fissavano
l’acqua increduli di aver pensato, anche per un solo
attimo, di fare a meno di questo meraviglioso ingombro.
Guardavano il mio corpo di madre, deformato e pentito
dal rimorso per aver rincorso quest’uomo al punto di
aver creduto di mangiare la polpa e sputare, dentro un
cerchio d’acqua, questo nocciolo di pesca.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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