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ADULTO

LIBERAEVA
La tela di ragno
"Potessi ancora adesso averne la forza,
potessi ancora adesso sbucciarmi il ginocchio, risentire identico
quell’odore di erba, sentire la bocca che succhiava il mio sangue,
che sapeva di ferro, di caldo metallo misto al fiatone che inumidiva
la parte."

Photo David Delabarre
Potessi rincorrere la mia
ombra che sola si muove e si curva su questa terrazza ed
io ci faccio figure di continenti e nazioni con le
nuvole alte rarefatte nell’aria, che sono tutto il mio
mondo, la mia vita di sempre, compagne di giochi, di
futuro e d’attese. Ne scelgo poi una, quella meglio
venuta per farci due passi e camminare all’aperto come
quando bambina giocavo d’estate, scivolando sull’erba
per arrivare per prima a scavalcare la siepe e varcare
il sentiero e correvo più forte fino ad inciampare sui
sassi e cadevo giù a terra e mi sbucciavo la pelle e di
rose e di croste erano piene le gambe.
Potessi
ancora adesso averne la forza, potessi ancora adesso
sbucciarmi il ginocchio, risentire identico quell’odore
di erba, sentire la bocca che succhiava il mio sangue,
che sapeva di ferro, di caldo metallo misto al fiatone
che inumidiva la parte. Potessi ancora adesso averne la
forza, rialzarmi bagnata di sudore e saliva sotto un
sole cocente che mi scaldava la faccia che picchiava la
testa e maturava le more. Potessi ancora adesso
infangarmi le scarpe, affondarle tra la melma molle del
fiume e sporgermi dalla sponda per catturare le rane con
il timore e la gioia di cadere nell’acqua.
Potessi davvero risentire la voce, di mia madre
apprensiva quando chiudevo la porta, e gridavo “Io vado”
e non importava per dove, e gridavo “Poi torno” senza
chiedere aiuto, perché comunque io andavo ed ero felice,
con il cappello di tela per il sole e la pioggia, senza
che lei sentisse il dovere, d’uscire con me e darmi una
mano, senza che lei come ora mi spinge, e mi dà quel
coraggio stupido e sciocco che domani “Vedrai sarà un
giorno diverso”, che domani sarà se ci credo davvero.
Ma io ci credo, ci credo davvero, che se non è oggi
comunque succeda, scendere di corsa le scale di casa,
insieme a Fulmine il mio pastore tedesco, aprire la
porta e bagnarmi di sole, ed a pieni polmoni respirare
l’azzurro, attraversare la strada guardando prima a
sinistra, per poi liberare Fulmine nel giardino di
fronte, ed io che lo guardo e leggo il mio libro, ed
aspetto paziente che faccia i bisogni.
Lo spero
e lo voglio, e ne sono sicura che senza mia madre o
senza la sedia potrò andare a comprare il pane ed il
latte, poi fino all’edicola o addirittura nel parco,
lungo la fila di pini e d’abeti, attraversando il ponte
di corda e di legno, sopra il ruscello e le papere nane.
Non chiedo poi molto, non chiedo la luna, perché so come
quando da bimba, non potrò più correre al fiume e
scorticarmi le gambe, se proprio non posso ora da grande
tuffarmi nei rovi e graffiami la faccia.
Eppure
un ricordo mi torna ogni giorno senza che i dubbi ne
facciano un sogno, più intenso e più vero dà forza e
dolore a queste stupide gambe che vanno da sole e per un
attimo solo mi alzo e cammino, sopra quei ciuffi d’erba
più verde che al mio passaggio rimangono in piedi, come
se leggera non pesassi che etti, come se leggera non
lasciassi le orme o i segni delle ruote netti e
profondi. Ma resisto e mi vedo più bella, dentro il
ricordo che indelebile resta e torna ogni volta quando
dietro le foglie mi trucco la faccia con i gusci di noci
e mi sdraio sul prato mentre il cielo m’avvolge, e mi
faccio un vestito con le foglie di fico, mentre un vento
leggero mi sparecchia e m’imbroglia.
Che c’è di
male se ancora oggi ci penso e la mia mano si perde
pensando a quell’uomo che puntuale m’aspetta seduto sul
ciglio e m’alza la gonna senza nessuna fatica. Tra i
capelli mi spunta una spiga di grano, tra le labbra mi
spinge un seme sgusciato ed io m’annerisco le guance e
la faccia e mi marco la bocca con le penne e i lamponi.
Mi chiama bambina, mi chiama tesoro, perché mai mi ha
chiesto di sapere il mio nome, mi chiama farfalla perché
lo faccio volare e perde il suo dito tra la mia carne
smarrita. Ed io che scappo, fuggo e corro veloce lo
sento il fiatone di lui che m’insegue e mi cinge la
testa con le foglie d’alloro mi lega le dita con le tele
di ragno.
Mi chiama bambina, mi chiama tesoro mi
regala per caso un nido d’uccello come dietro ogni
foglia uno spicchio di cielo, come dietro ogni voglia un
leggero rossore. Sto ferma, non parlo e serro le
orecchie come più bimba ad un passaggio di treno, come
più grande a un rimbombo di tuono quando il cielo già
basso s’era tinto di nero. Il primo bacio lo sento
m’accappona la pelle, il secondo mi bagna l’incavo del
seno e senza parlare mi offre la lingua che grassa
s’infiamma tra i miei cerchi più scuri. Il sole che
muore ci trova sotto la vite e lui che mi ciancica le
labbra del cuore, mi confonde il dolore con una specie
di voglia, m’arroventa le gambe come petali schiusi che
fremono al fiato d’un discreto piacere.
Da allora
ogni sera mi viene a trovare e giochiamo a Mondo
giochiamo all’amore e m’annerisco come un tempo la
faccia, con i gusci di noci con l’uva e le more mentre
il vento che soffia m’asciuga le voglie e bacio la mano
e bacio quel dito che tinto di rosso mi sporca la
faccia. Come ora qui su questa terrazza guardo ammirata
l’orizzonte infinito, che per quanto sterminato lo
conosco a memoria e ci navigo a vista e m’oriento nei
luoghi che si fanno vicoli, e scale e certezze, si fanno
sentieri di montagna scoscesi e poi viottoli e
mulattiere di roccia, e calli tortuose a picco sul mare.
Guardo quell’infinito e lo sento nel cuore, come se
davvero muovessi le gambe, come se da qualche parte ci
fossi pur stata, da sola e turista o insieme a
quell’uomo che ogni volta la sera mi riempie d’amore.
Lui sì che mi guarda dritto negli occhi, lui sì che
mi guarda intera ed in piedi, con in dosso un vestito di
tela a fiori, e mi vede grande più degli anni che porto,
più di quelli di allora che non ho mai vissuto, più di
quelli di oggi che mi fanno più donna, mi guarda e mi
dice soltanto che m’ama, e nessun altro destino gli ha
mai regalato questa rosa che sboccia indorata dal sole.
Sussurra parole, parole d’amore, ne sento il velluto, la
sostanza, il vapore e sento il mio sangue che pulsa e fa
male, lo sento che scorre leggero controcorrente, come
un tumulto di tremiti e spilli, come un carica di
brividi a pelle, sento la forza, la potenza e l’amore,
lungo le salite delle mie gambe che vive rimangono in
piedi senza il minimo appoggio e lui che mi segue
soltanto con gli occhi, perché sa che aveva ragione mia
madre, perché sa che ora posso camminare da sola, e se
solo volessi potrei correre al fiume e sentirmi in gola
il cuore che batte, scivolare sull’erba e rialzarmi
all’istante, attraversare il ponte con le papere nane e
impigliarmi la gonna tra le spine dei rovi, lungo il
sentiero d’umido e bosco quando un raggio di sole debole
filtra tra le foglie d’autunno e le tele di ragno.
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Questo racconto
è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
luoghi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore e non sono da considerarsi reali.
Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
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