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ADATTO AD UN PUBBLICO ADULTO
I DIARI
LICENZIOSI DI VIOLETTE BERTIN
Il regista dei
miei desideri
L’interno 5 al
secondo piano era l’unico appartamento vuoto dello stabile, sfitto
da mesi. Una sera decisi di sfruttarlo a mio modo. Dissi a mia madre
che sarei uscita con una mia amica, ma in realtà salii solo due
piani di scale
Photo © Ivan Gorokhov
L’interno 5 al secondo piano era l’unico
appartamento vuoto dello stabile, sfitto da mesi. Era di
proprietà di uno studio legale che aveva deciso di
trasferire la propria attività nella zona est di Parigi.
Mia madre aveva le chiavi ed ogni settimana andavamo a
fare le pulizie. L’appartamento era molto grande e
oltre alle stanze adibite a studi aveva una grande sala
all’ingresso con divani, fioriere, bellissimi tendaggi,
quadri e un tavolo centrale. Una sera decisi di
sfruttarlo a mio modo. Dissi a mia madre che sarei
uscita con una mia amica, ma in realtà salii solo due
piani di scale.
Fuori pioveva, le gocce d’acqua
bagnavano i vetri, nella luce in penombra della casa mi
perdevo oltre le fessure delle tapparelle abbassate, i
miei pensieri riempivano l’attesa. No, no, non ero
andata lì per rimanere da sola! Tramite una chat avevo
conosciuto, tempo prima, Oliver Parker, un regista
londinese abbastanza famoso nel suo genere. Iniziammo a
parlare col mio stentato inglese e tra noi nacque subito
una certa sintonia. M interessavano i suoi punti di
vista dissacranti da poeta maledetto. Vidi alcuni
trailer dei suoi cortometraggi, che giudicai oscuri ed
inquietanti, ma giorno dopo giorno mi interessai
comunque a lui. Ovvio non lo avevo mai visto di persona,
ma alcune foto su internet mi avevano già fatto
impazzire: capelli lunghi biondi, pelle bianca, sguardo
profondo, barba incolta e lineamenti spigolosi. Sembrava
essere uscito da qualche concerto symphonic rock degli
anni settanta.
Dopo alcune sera facemmo l’amore
al telefono. Fu molto intenso e direi particolare, sin
dalla prima volta mi disse che avrebbe voluto stare con
me, penetrarmi il cervello, legarmi, possedermi, ma non
lo sentii mai fantasticare su un amplesso vero e
proprio, come se avesse timore di arrivare al dunque, o
meglio, gli piacesse lasciare alle nostre intimità
personali l’affondo finale. Quando alcune settimane dopo
mi disse che sarebbe venuto a Parigi per lavoro,
accettai volentieri l’invito. Sarebbe rimasto a Parigi
solo per tre giorni, ma l’unico problema, mi disse, che
essendo abbastanza conosciuto e sposato, non avrebbe
potuto invitarmi nel suo albergo né tanto meno portarmi
in qualche ristorante. Così mi venne in mente
l’appartamento sfitto del secondo piano, lui accettò.
Per ingannare l’attesa decisi di farmi un bagno e
m’immersi nella vasca da bagno, il mio corpo fremeva ed
iniziai ad accarezzarmi con spugna e sapone alla
vaniglia immaginando cosa sarebbe successo di lì a poco.
L’appuntamento col regista maledetto era previsto per le
11 di sera, per cui avevo tutto il tempo per dedicarmi a
me stessa.
Appoggiato ad una spalliera della
sedia in sala mi aspettava un lungo abito nero da sera
che avevo acquistato il giorno prima ed una grande
scatola che lui mi aveva fatto recapitare il giorno
prima. Dentro c’erano i vestiti da scena che di solito
lui utilizzava nei suoi film dark: un cappello a falde
larghe, un paio di calze a rete nere, un reggicalze con
dei grandi anelli metallici, una giarrettiera, un
bocchino e dei guanti di raso lunghi. Ovvio non era il
mio stile, ma più volte Oliver, nelle nostre intimità,
mi aveva detto che avrebbe voluto vedermi vestita come
le protagoniste dei suoi film di atmosfera decisamente
noir e al limite di un soft bondage.
Non avevo
mai praticato il genere, ma qualcosa mi diceva che avrei
comunque passato una serata diversa. Iniziai a vestirmi
guardando ogni cinque minuti l’orologio. Ripensavo ai
suoi discorsi e soprattutto quando durante l’amore mi
diceva esplicitamente che amava far l’amore
esclusivamente con i suoi personaggi femminili
immaginari. Mi guardai allo specchio cercando di
assomigliare il più possibile al suo sogno erotico.
Ripassai più volte il rossetto scuro cercando di
ingrandire esageratamente le mie labbra, finché lo
squillo del telefono mi destò dal mio sogno. Era lui. Il
taxi lo aveva portato in Rue Jacob. Con la voce tremante
dall’emozione gli diedi le indicazioni necessarie.
Velocemente infilai le calze allacciandole al
reggicalze, misi il cappello cercando di sistemarmi i
capelli. Il vestito di un leggero latex nero aderiva
perfettamente al mio piccolo seno e ai fianchi.
Suonò il campanello. “Entra dai.” Gli dissi con tutta la
disinvoltura possibile. Ai miei occhi apparve un
bellissimo uomo di circa 40 anni, alto, con gli occhiali
da sole, i capelli lunghi che arrivavano alle spalle e
un foulard di seta intorno al collo. Aveva con sé una
borsa di pelle nera. Vedendola, una strana ansia si
impossessò di me. Non ero sicuramente alla mia prima
esperienza, ma qualcosa mi diceva che mi ero spinta
oltre e non avrei potuto tenere il confronto con le sue
fantasie e soprattutto con lei sue eroine. Ero curiosa,
ma non esperta.
Lui si accorse immediatamente
della mia agitazione e cercò di sciogliermi, ci mettemmo
seduti sul divano e non disse nulla del mio aspetto e di
come e quanto avevo esaudito il suo desiderio. Per più
di un’ora parlammo di Parigi, del tempo, di Londra, del
tassista e poi dei suoi nuovi progetti e dei miei studi
all’università, ma nulla del motivo del nostro incontro
anche se entrambi sapevamo come sarebbe finita quella
serata.
Gli offrii del vino rosso, lui mi aiutò a
stappare la bottiglia e lo versò nei calici che avevo
portato da casa. Quando brindammo alla nostra serata
sentii le sue mani calde e ferme cingermi i fianchi,
sorrisi, ma ero in imbarazzo e in quel momento avrei
voluto con una bacchetta magica saltare tutti i
preliminari e soprattutto sapere cosa contenesse quella
borsa. Insomma avrei voluto trovarmi già nuda su quel
divano offrendogli quello che ritenevo la mia parte
migliore.
Ma lui col suo calice in mano si
accomodò sulla poltrona, mi chiese di accendermi una
sigaretta, indossare quanti e cappello, poi mi invitò ad
andare lentamente fino alla finestra e scomparire dietro
la tenda. Insomma adorava immaginarmi calandomi nella
parte dei suoi film. Era diverso, lui faceva l’amore con
gli occhi e la mente, più che godersi il presente si
eccitava immaginandomi con quei tacchi altissimi che
passeggiavo per qualche strada buia e malfamata di
Parigi. Chissà se prima o poi avrei incontrato l’uomo
delle corde, mi chiesi, mentre lui mi diceva di guardare
fuori dalla finestra e muovere il mio di dietro come
fosse un richiamo, un’esortazione o meglio una supplica,
un chiaro invito ad invogliarlo ed essere presa.
Quando mi voltai lo vidi più interessato e in un certo
qual modo mi rilassai. Mi sussurrò: “Vieni qui,
siediti!” Ma non mi toccò, non mi saltò addosso. Non mi
strinse i seni o le cosce, ma rimase semplicemente
impassibile col suo calice e la sua sigaretta ad
estasiarsi delle piccole pieghe di quel latex che
magicamente riflettevano alla luce. Solo dopo una decina
di minuti mi chiese di sollevare il vestito aiutandomi
con il leggero movimento delle gambe accavallate.
Magicamente la stoffa salì, i suoi occhi rimasero
incollati per svariati minuti sulla rete della calza.
Vidi chiaramente le sue dita tremare e resistere. Come
se il toccarmi avrebbe vanificato il suo sogno
rendendolo piatto, evidente e troppo reale. Quell’uomo
stava distruggendo ogni mia barriera, mi intrigava
quello strano modo di fare l’amore e in quel momento
avevo solo voglia di entrare nel suo mondo.
Parlava sussurrando, quella voce iniziò a darmi
sicurezza, era così bello sentirmi attrice del suo
desiderio. Prese una spallina del vestito e senza
toccarmi la pelle scoprì il mio seno. Era esperto sapeva
come fare, ogni sua mossa era studiata, come se facesse
parte di una sceneggiatura già scritta. Avvertì la mia
eccitazione e mi disse di toccarmi il seno. La sentii
come una concessione e non me lo feci ripetere due
volte. Lui si alzò, si accese un’altra sigaretta e mi
guardò da lontano, mi ordinò di socchiudere leggermente
le gambe in modo che potesse immaginare, ma non vedere
la mia eccitazione. Tutto doveva avvenire come nei film,
dove il dunque deve essere solo immaginato dallo
spettatore e non visto.
Conosceva i tempi e
sapeva che quell’umidità sarebbe diventata ben presto un
torrente di nettare e miele. Mi chiamò Margot, il nome
di un suo personaggio che più lo aveva intrigato. Lei,
mi disse, era una donna viziosa e indipendente, una
donna spietata, ufficiale dell’esercito tedesco, che
nella vita reale sottometteva gli uomini umiliandoli e
rendendoli ridicoli, ma poi nel segreto della sua
intimità le piaceva, soggiogata dai sensi, essere
dominata, bendata e legata.
Così fece. Tornò
vicino e finalmente tirò fuori dalla borsa di pelle una
benda, delle corde e delle fasce di cuoio. Senza dire
nulla mi bendò, poi avvicinò le fasce di pelle al mio
naso facendomi sentire l’odore del cuoio, l’odore del
potere! Non mi baciò, ma con un dito schiuse le mie
labbra inzuppandolo della mia saliva. Poi con una grazia
estrema fece scivolare il mio vestito e mi fece voltare.
Mi ritrovai col viso appoggiato contro il cuscino mentre
sentivo le sue mani d’acciaio legarmi prima i polsi e
poi le caviglie. Poi passò alle cosce e con meticolosa
cura le legò strette in modo che non ci fosse spazio.
Voglio che tu trattenga tutto il piacere, mi disse con
voce decisa. Ero praticamente immobilizzata alla mercé
di uno sconosciuto che avevo incontrato in chat. Per un
attimo dubitai che fosse un regista, gli chiesi chi
fosse veramente e lui mi rispose che era il regista dei
miei desideri.
Percepivo il tutto senza vedere,
le sue mani, le corde, la sua voce. Poi riprese a
parlarmi di Margot di quando nel film si fece rapire da
tre ufficiali nazisti per poi farsi umiliare per una
notte intera descrivendomi i dettagli di quell’anima
offesa e piena di desiderio. Era vero! Sentii
improvviso, come lui aveva previsto, il mio nettare
colare. Mi disse che era un classico per una donna
eccitarsi sentendosi chiamare col nome di un’altra
perché subentrava in lei una specie di competizione
desiderando di essere migliore dell’altra, più bella,
più vogliosa, più troia. Aveva ragione anche se in quel
momento sentivo forte il desiderio di essere Margot,
annullata e cercata nell’essenza del proprio bisogno. A
quel punto lui tirò fuori dalla sua borsa magica una
specie di frustino nero e incredibilmente ogni suo
desiderio fu il mio, ogni singolo tocco sulla mia pelle
mi provocò brividi al limite della sopportabilità che
correvano impazziti per tutto il mio corpo.
D’improvviso le sue mani si insinuarono tra le mie
cosce, ma più che dita d’amante sembravano quelle fredde
di un ginecologo oppure quelle sadiche di un nazista.
Quell’effetto così chirurgico provocò involontariamente
il mio primo orgasmo. Ero sua, mentalmente e
fisicamente. Intinse di nuovo il dito e poi lo portò
nella sua bocca. Sentii chiaramente il rumore delle sue
labbra. Mi disse: “Sai di buono, di fragola matura!” A
quel punto con lo stesso dito mi penetrò, lo sentii
salire, finché incredibilmente ebbi la sensazione di
essere sazia, come se il mio piacere fosse rimasto tutto
concentrato dento di me. Lui cambiò dito. Non avevo mai
fatto l’amore in quel modo, ma le sue dita s’infilarono
direttamente nella mia parte più profonda, non saprei
dire se testa o anima, o entrambe, perché in quel
momento stavo letteralmente impazzendo! Ero cosciente
che sarei venuta di nuovo, non resistevo più, ma lui
questa volta mi disse di aspettare.
Non riuscivo
a pensare ad altro che all’abbandono che mi aveva
provocato, al cambiamento repentino da donna seducente,
provocante ed attiva, a oggetto legato, passivo e
completamente in balia della voglia perversa di
quell’uomo. Mi sentivo leggera, senza peso, trasparente,
come se fossi uscita dal mio corpo e mi vedessi in
quella posizione, mi giudicassi per i soli sensi che
stavo provando, mentre un uomo mi stava scopando con il
solo movimento della mano alternando le proprie dita.
Non so cosa uscì dalla mia bocca, ma era evidente che
contemporaneamente mi sentivo sfamata e affamata in un
continuo vortice di sensazioni che durarono ore e ore.
Piansi lacrime di piacere quando iniziò ad allentare le
corde che stringevano le mie cosce. Forse mi dispiaceva,
forse ero contenta, iniziai a pensare come e dove mi
avrebbe presa, ma solo dopo capii il significato, lo
faceva non tanto per il desiderio di crearsi lo spazio e
farmi sua, ma semplicemente perché io credessi che
quello sarebbe stato l’epilogo finale e inevitabile.
Dalla sua borsa tirò fuori dell’olio essenziale ed
iniziò a massaggiarmi prima l’interno delle mie cosce e
poi il mio piacere. Oh sì mi stava preparando ad
accoglierlo ed io m’abbandonai a quell’attesa, lui mi
disse di fare la brava, poi di colpo sentii qualcosa di
duro penetrarmi. Sorpresa, non resistetti all’idea che
non fosse il suo sesso e che mi stava scopando
unicamente con la sua mente! Venni ancora. Spalancai le
labbra e urlai così forte che ebbi il timore che mia
madre avesse potuto sentito. Lui lentamente avvicinò la
sua bocca e quel bacio che avevo sognato in chat e per
tutte quelle ore divenne reale.
Ma fu un attimo,
forse una debolezza, pensai che fosse il massimo della
sua possessione, perché tutto il resto rimase ben chiuso
nella sua fantasia e nei suoi pantaloni. La sua bocca
scese sul collo e da lì al seno. Non lo vedevo, ma lo
sentivo succhiare alternando il seno destro a quello
sinistro. Risaliva cercando le mie labbra, scendeva fino
al mio piacere. Mi disse che adorava quei residui densi.
La passione mi aveva travolta e speravo ancora che
quello fosse il momento magico per unirci, ma non fu
così, lui continuò a penetrarmi tre, quattro volte e
ogni volta mi procurava un orgasmo sempre più intenso.
Alle prime luci dell’alba gli chiesi di andare
oltre, di raccontarmi per filo e per segno la fine di
quel film. Incredibilmente avevo ancora voglia di lui,
ma Oliver Parker, il regista dei miei desideri, non
parlò. Mi tolse la benda, mi slegò, si alzò, si sistemò
i capelli allo specchio e poi mi disse: “Margot, è stato
davvero piacevole far l’amore con te!” Solo a quel punto
vidi con chi quella sera avevo fatto l’amore. Lui prese
quell’arnese, lo pulì dei miei residui con un fazzoletto
di seta, poi prese il resto e mise il tutto con estrema
cura nella sua borsa di pelle. Poi mi salutò, non mi
disse arrivederci, non mi baciò. Chiamò un taxi e dopo
aver chiuso la porta, sentii i suoi passi scendere
lentamente le scale. Lui non aveva goduto o forse
sì, pensai rimanendo nel dubbio.
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TUTTI I RACCONTI DI
VIOLETTE BERTIN
Il racconto è frutto di fantasia. Ogni riferimento a
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