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I DIARI
LICENZIOSI DI VIOLETTE BERTIN
L’amore in treno
Il treno partì e
le nostre bocche si dischiusero in un bacio umido, lungo e pieno di
desiderio. Lui mi sussurrò di rilassarmi e di mettermi più comoda
scivolando lungo lo schienale di pelle. Obbedii, chiusi gli occhi e
lui insinuò la sua mano possente dentro la mia camicetta...
Photo © Georgy Chernyadyev
Percorsi velocemente a piedi Boulevard
Sanit-Germain, avevo il fiato grosso e respiravo a
fatica, oltrepassai velocemente l’università per
ritrovarmi lungo la Senna. Quando attraversai il fiume
sul Ponte di Austerlitz mi resi conto di essere in
estremo ritardo e i tacchi alti e la gonna stretta mi
impedivano di camminare più in fretta.
“Ci
mancava solo la pioggia!” Maledissi il cielo e tutte le
previsioni del tempo, comunque aprii l’ombrello facendo
attenzione a non scivolare. Avevo passato ore a
prepararmi, truccarmi e scegliere il vestito più adatto,
insomma farmi decentemente bella e a quel punto sarebbe
stato davvero un peccato se la mia goffaggine avesse
rovinato tutto. Ero uscita di casa di fretta dicendo a
mia madre che sarei andata a seguire una lezione sulla
Critica della ragion pura di Kant, ma ovviamente lei
guardandomi con quale e quanta cura mi ero preparata non
ci aveva creduto neanche un po’. “Pazienza.” Mi ero
detta. “Forse crederà a qualche incontro galante con
qualche mio coetaneo.” Ma in realtà non era così.
Finalmente mi ritrovai davanti alla Gare de Lyon. Lì
avevo l’appuntamento. Entrai in stazione ed a mente mi
ripetevo: “Giacca blu, camicia bianca, barba, Libération
sotto il braccio, moro, quarantadue anni appena
compiuti…” Dentro di me sentivo di averlo sempre
conosciuto, forse in un’altra vita, in un’altra
dimensione, in un mondo libero senza costrizioni, o più
terra terra da “Le Piston Pelican” il locale che insieme
a Caroline frequentavo spesso. Lui mi aveva detto che
era riuscito a risalire al mio numero telefonico tramite
un amico in comune, ma non mi aveva detto il nome.
Comunque mi aveva ripetuto per giorni che doveva
assolutamente conoscermi, che ero bella, che ero la sua
donna ideale, quella del suo sogno erotico più
ricorrente.
Eravamo andati avanti per una
settimana, mi aveva scritto frasi succose, parole di una
sensibilità estrema, peccaminose e lussureggianti al
limite del proibito. Certo a suo modo era un’artista, un
creativo che sbarcava il lunario scrivendo slogan per
campagne pubblicitarie. Ovviamente rispondevo a mezza
bocca, piccole frasi di assenso, tanto per non farlo
desistere, ma poi le nostre conversazioni notturne si
erano fatte via via sempre più bollenti, tanto che la
notte precedente avevo ceduto ed avevamo fatto l’amore
immaginandoci appunto quello che sarebbe successo il
giorno dopo, ovvero oggi, ovvero in quel momento esatto
che attraversavo il lungo corridoio.
Mi aveva
dato precise istruzioni, alla biglietteria comprai il
ticket per Fontainebleau, andata e ritorno, lui mi
avrebbe aspettata al binario dodici. Mentre ero in coda
sentii il telefono squillare, era lui, notai nella sua
voce una velatura di impazienza. Si certo ero in
ritardo, come al solito, ma pensai che non fosse il caso
di giustificarmi, in fin dei conti ero lì alla stazione,
in carne ed ossa, ero stata ai patti ed insieme stavamo
per realizzare un desiderio che entrambi avevamo
sognato.
Mi disse di percorrere tutto l’androne,
poi svoltare a destra e proseguire lungo il marciapiede.
Lui mi stava aspettando all’altezza del vagone 18,
l’ultimo, il meno affollato. Sentii la sua presenza
prima di vederlo. Certo lui aveva un vantaggio su di me,
mi aveva già vista, mentre io non conoscevo nulla di
lui. Ero curiosa e su di giri, sentivo il mio cuore
battere, soprattutto perché, per la mia prima volta in
assoluto, andavo incontro ad una situazione che sì,
faceva parte del mio inventario erotico, ma che
coscientemente ritenevo assurda e pericolosa.
Per stare nella parte mi ero vestita esattamente come mi
aveva chiesto, ovvero cappello, tailleur con la gonna
corta e la giacchina scollata, calza nera e tacco alto.
“Devi sentirti come dentro un film di Truffaut!” Mi
avevo ripetuto la sera precedente. Ed io in quel momento
mi sentivo davvero la protagonista di una pellicola in
bianco e nero. Non so una giovane Fanny Ardant che
andava incontro al suo bel quarantenne Gerard Depardieu.
Nonostante questo, percorrendo quel lungo
marciapiede mi chiedevo se e quanto le fossi piaciuta,
se davvero vestita così rispecchiavo quel tocco elegante
di femminilità che a suo dire era una componente
essenziale per il nostro gioco. Avevo il cuore in gola e
fissando ogni viso che incontravo speravo delusa che non
fosse lui finché vidi un uomo vestito elegante con un
giornale sotto il braccio che mi salutava da lontano.
Era lui! Per il timore di perdere il treno si era
avvicinato confidando a quel punto che qualsiasi vagone,
pur di non perdermi, avrebbe fatto al nostro caso.
Sorrisi, ma ero visibilmente impacciata, avevo
timore che il sudore misto a quella pioggia sottile
avessero sciolto inevitabilmente il mio trucco. Arrivai
sotto la pensilina e chiusi l’ombrello. Ci salutammo
formalmente stringendoci la mano, da perfetti
sconosciuti, come se non ci fossimo mai sentiti e le
nostre intimità del giorno prima fossero rimaste
incollate in un mondo virtuale che ora non ci
apparteneva più. Ora non eravamo più voci, non ero
Violette e lui David, non ero la sua fanciulla
desiderosa di bruciare le tappe per sentirsi donna, ma
due visi veri e anonimi.
Dopo un attimo di
smarrimento, lui mi abbracciò, avvicinò le sue labbra al
mio orecchio e mi disse che ero incantevole e perfetta.
Mi calmai. Lui di contro era davvero come si era
descritto, alto, moro, occhi profondi e scuri, con un
volto regolare che sorrideva senza muovere le labbra.
Camminammo fianco a fianco in direzione del vagone 18,
l’ultimo, il più tranquillo, poi lui mi prese la mano e
mi aiutò a salire sul treno. Quel gesto mi fece sentire
leggera e nel contempo un prezioso monile da proteggere
con cura.
Ci accomodammo negli ultimi posti al
riparo da occhi indiscreti, lui si tolse la giacca ed io
mi guardai intorno. Poca gente, qualche viso stanco che
guardava oltre il finestrino, altri adagiati nei loro
sedili erano già caduti in un sonno profondo. Noi lì
invece perfettamente svegli e in piena fibrillazione
pregustavamo i nostri istanti di vera enfasi e follia.
Lui senza parlare mi sorrise di nuovo, poi adagiò le sue
labbra calde sulla mia bocca. Schiusi leggermente la
bocca e chiusi gli occhi. Fu un bacio senza fine,
intenso e complice. Così senza parlare. Sapevamo
entrambi che ogni parola sarebbe stata di troppo e non
parlammo, anzi lo abbracciai e gli sfiorai il volto con
il mio dito indice seguendo il profilo della sua
guancia. Era davvero un bell’uomo e ringraziai il mio
intuito che mi aveva permesso di scegliere quell’uomo
per quel gioco così particolare.
I nostri sguardi
si incrociarono nuovamente, un brivido percorse la mia
schiena, sì sì ero pazza, avevo accettato quell’incontro
al buio per provare davvero quelle emozioni intense che
leggevo nei racconti online ed emulare quelle donne che
per amore del proibito esaltavano le loro performance
segrete. Erano signore per la maggior parte sposate che
accettavano quegli inviti estemporanei da uomini
sconosciuti nei posti più impensabili per dare una
scossa alle loro giornate noiose.
Ecco ora io
ero lì, insieme al mio uomo sconosciuto che mi aveva
detto di chiamarsi David, sposato con una sua vecchia
compagna di scuola, che faceva il creativo ed abitava in
una graziosa villetta di Fontainebleau. Sinceramente non
mi chiesi quanto quelle informazioni fossero vere, non
era quello il punto, lui era solo il tramite per le mie
emozioni, una persona che in quel momento concretizzava
il mio sogno proibito e il mio senso innato alla
disubbidienza di qualsiasi regola.
Il treno
partì e le nostre bocche si dischiusero in un bacio
umido, lungo e pieno di desiderio. Lui mi sussurrò di
rilassarmi e di mettermi più comoda scivolando lungo lo
schienale di pelle. Obbedii, chiusi gli occhi e al
riparo dai sedili alti lui insinuò la sua mano possente
dentro la mia camicetta. Iniziò dapprima ad accarezzarmi
il seno esplorando lentamente ogni centimetro di pelle,
ogni brivido, ogni mia minima sensazione.
Lo
lasciai fare e lui slacciò la camicetta e scoprì il mio
seno. Qualunque persona in quel momento che fosse
passata lungo lo stretto corridoio lo avrebbe visto. La
cosa mi piacque, ma poi, forse per timidezza o forse per
esclusivo piacere coprii il seno accompagnando la sua
mano e indirizzandola sui miei capezzoli pieni di
desiderio.
Sentii le sue dita stringere il mio
piacere e pensai che se anche fosse finita lì, se per
qualche motivo improbabile saremmo stati costretti ad
interrompere quelle effusioni, sarebbe stata comunque
una giornata da ricordare. Pensai a sua moglie, al
bigliettaio, pensai ad un guasto improvviso del treno e
più quei timori si facevano reali e più aumentava la mia
eccitazione. Poi le sue carezze divennero più intense,
sentii le sue mani più decise scorrere lungo il mio
corpo, più in basso, sotto la gonna, tra le mie intimità
ormai calde.
Lui sollevò leggermente la gonna,
fissai il suo sguardo avido e affamato di femminilità,
ero la sua donna disponibile, la sua femmina reale dei
suoi sogni, la regina indiscussa delle sue voglie
perverse. Lentamente alzò l’orlo della gonna nello
stesso modo che un giocatore di poker scopre le sue
cinque carte in mano. Non disse nulla perché così ci
eravamo imposti, ma percepii ugualmente le sue parole
quando scoprì il bordo più scuro delle mie calze e
subito dopo i fiocchetti bianchi del mio reggicalze.
Sì, lui lo sapeva, sapeva perfettamente cosa
indossassi sotto la gonna e cosa adornasse le mie grazie
perché così mi aveva detto di vestirmi, ma ugualmente
percepii un leggero tremore delle sue dita. Stava
impazzendo ed io con lui. Mi resi conto di godere del
suo piacere riflesso che aggiunto al mio mi faceva
sentire bella, anzi lui mi faceva bella, pur non
parlando.
Risalì lungo le mie cosce fino alla
mia parte più calda, la sentì umida e sorrise. Ero sua,
vogliosa di quelle dita, eccitata per quella situazione
sicuramente più appagante rispetto a qualsiasi altra
circostanza in qualsiasi alto posto più comodo al mondo.
Lui divaricò leggermente i petali del mio fiore smanioso
e mi penetrò con estrema cura e delicatezza, forse meno
di quanto possa essere lunga un’unghia, ma io lo sentii
lungo come un sesso voglioso di maschio che arriva nel
profondo dell’anima.
Ansimai, ero in estasi,
aperta e compiaciuta come una cassaforte in attesa di
essere violata davanti al suo ladro che dopo vari
tentativi aveva indovinato la combinazione. Sì esatto
lui era il mio ladro, l’uomo che dalle prime telefonate
aveva trafugato i miei segreti e letto il mio bisogno di
essere esattamente come avrei voluto essere ovvero una
donna spogliata nell’anima e svelata dei miei desideri
più intimi.
Non dissi nulla ma le sue mani
esperte e chirurgiche sapevano esattamente come
procedere. Prese la mia mano e la dirottò sui suoi
pantaloni. Sentii il maschio voglioso, fiero della sua
durezza ed io altrettanto orgogliosa di esserne stata la
causa e la colpa, tirai giù la lampo e lo presi in mano.
Sentii dettagliatamente i tendini e le nervature del mio
oggetto di desiderio e nel contempo il suo respiro denso
che immediatamente si fece più pesante ed affannoso.
Mi guardai intorno, quasi tutti dormivano e nessun
uomo col cappello da bigliettaio si intravvedeva
all’orizzonte. Mentre lui continuava a penetrarmi con le
dita scesi con la bocca verso quello scettro imperioso,
lui adagiò l’altra mano sulla mia testa, i nostri
movimenti si fecero armonici in un trovarsi cadenzato e
in una perfetta sintonia erotica e musicale.
Non
so quanto rimasi in quella posizione, non so per quanto
tempo, chilometri e fermate continuai a dargli piacere
scivolando le mie labbra umide su quel velluto. Furono
istanti senza fine, uno dopo l’altro, uno sopra l’altro.
Lui l’uomo ed io la donna! Nel mio picco di piacere e di
perdizione avvertii una strana sensazione di
ineluttabilità come se il destino mi avesse offerto
un’ultima occasione che non avrei mai più vissuto e per
questo motivo dovevo dare tutta me stessa per il piacere
reciproco oppure più poeticamente, ripensando a
Truffaut, come se fosse stato l’ultimo saluto di due
amanti alla stazione che non si sarebbero mai più visti.
Sentivo il suo desiderio scivolarmi tra le
labbra mentre lui continuava a penetrarmi con le dita,
pigiando tasti che emettevano note così sconosciute e
liquide che non riuscii a trattenere il mio piacere. Fu
un urlo interiore e silenzioso, un letto di fiume
travolgente che svuotò la parte più intima della mia
anima. Lui esplose subito dopo inondandomi la bocca del
suo piacere denso e bollente.
Ci rilassammo
senza parlare finché l’altoparlante del treno annunciò
la fermata di Fontainebleau. Ecco eravamo arrivati. E
tutto ciò era stato perfetto e nei tempi che lui aveva
previsto. Esattamente 58 minuti come avevo letto sul
tabellone delle partenze dei treni. Non gli chiesi come
avesse fatto, ma sapevo bene che non ero stata né la
prima e né l’unica ad accompagnarlo nel suo viaggio
verso casa dalla Gare de Lyon a Fontainebleau.
Scendemmo dal treno sempre senza parlare. Sul
marciapiede mi strinse la mano, accennò ad un leggero
sorriso e poi lo vidi allontanarsi di spalle verso
l’uscita. Come previsto aspettai cinque minuti o poco
meno e salii sul treno che mi avrebbe riportata a
Parigi. Sul vagone mi chiesi se mai lo avessi rivisto,
ma conoscevo già la risposta.
FINE
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TUTTI I RACCONTI DI
VIOLETTE BERTIN
Il racconto è frutto di fantasia. Ogni riferimento a
persone e fatti realmente accaduti è puramente casuale.
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