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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
La piccola orientale




  
Photo Bee Nguyen
  

 


 
 


... 
.Conobbi mio marito durante una settimana bianca a Cortina. Al tempo abitavo da sola in una mansarda a Roma e seppure gli anni correvano veloci non avevo nessuna urgenza di cambiare la mia vita. Lui abitava e lavorava a Padova e per incontrarci aspettavamo il weekend, vedendoci alternativamente a Padova e Roma. Andammo avanti così per circa un anno poi decisi di sposarmi e unicamente per amore lasciai il mio lavoro, i miei affetti e mi traferii tra la nebbia del nord.

Eravamo innamorati come due ragazzini e nei primi tempi tutto andò per il meglio. Il circolo del tennis il giovedì sera, le serate a teatro, le cene con i colleghi di mio marito e le loro mogli sempre impeccabili. Insomma vivevamo una vita agiata e felice finché, dopo circa due anni, iniziai a notare uno strano cambiamento da parte sua, era diventato freddo e scostante e il sabato sera trovava sempre qualche scusa per non onorare più la tavola che mi ostinavo a preparare con cura e nei minimi dettagli. Un leggero dubbio di quelli dove trovi tanti tarli e poche giustificazioni iniziò ad arrovellarmi il cervello. Beh sì ovvio che ci fosse un problema, ma mai avrei creduto che la realtà superasse i miei più lugubri sospetti.

Un venerdì sera, mentre la colf filippina portava un piatto di spaghetti in tavola, lo incalzai a bruciapelo. Mio marito dapprima sorrise dandomi della pazza, poi alla fine spazientito si alzò di scatto e mi diede la triste notizia. Si scopava praticamente tutti i santi giorni la figlia di un noto magistrato di Padova. Lei bionda, alta e con la faccia da modella, si erano conosciuti qualche mese prima per caso nel bar sotto il suo studio. Insomma mio marito aveva un’amante!

Ancora innamorata di lui, non credevo alle mie orecchie e diedi la colpa al destino e come il caso avesse potuto cambiare totalmente la nostra vita. Mi ripetevo che sarebbe bastato che lui entrasse nel bar un attimo prima o un attimo perché nulla sarebbe accaduto, ovvio, credendolo ancora mio, mi illudevo, non accettando il fatto che comunque sarebbe accaduto.
Da quel giorno cambiò tutto, la tranquillità, i soldi, le serate mondane che cadenzavano i giorni della settimana, le passeggiate in montagna, il sacchetto dell’immondizia chiuso prima di andare a dormire, la filippina licenziata per vergogna, i week-end nella nostra casa al mare dalle parti di Jesolo.

Con la testa piena e confusa passavo le mie giornate alla ricerca di qualcosa che le riempisse, ma più che altro cercavo di dare ai miei giorni un ritmo cadenzato, metodico, per non crearmi vuoti e quindi pensare. Aspettavo solo che quell’infatuazione si spegnesse senza lasciare traccia, ma mi sentivo comunque inutile e depressa e seppure mio marito non perdeva giorno per rassicurarmi, ovviamente non rinunciando alla sua amante, mi sentivo ancora più sola circondata da un mare di ipocrisia. Bastò una minima confessione ad un’amica che la notizia si propagò nella nostra cerchia di amici. L’unico amico che ritenevo tale mi invitò a cena e con la scusa del chiodo schiaccia chiodo capii in realtà che aveva un solo scopo nella testa ovvero quello di farmi vedere la sua bella collezione di farfalle! Gli altri, gli amici delle domeniche al mare o del sabato sera, erano e rimasero amici di mio marito, pronti in qualsiasi momento a giustificare e perdonare. Vivevo il trauma del cambiamento interiore e mi sentivo alla ricerca di un punto fermo, sballottata tra le sponde di un fiume in piena, e per di più relegata in quella città del profondo Nord, dove anche i cestini della spazzatura erano di un colore diverso.

Ero confusa e devastata nell’orgoglio al punto di non pretendere da mio marito di separarci definitivamente. Forse perché non avevo perso tutte le speranze o forse, come al solito, perché attiravo su di me tutti i sensi di colpa e non ultimo quello di essere stata parte della causa del tradimento. Avevamo solo separato i letti, lui dormiva sul divano nello studio, e facevamo due vite completamente diverse, tanto che molte sere non rincasava ed io naturalmente non gliene chiedevo la ragione.

Lo smarrimento durò mesi e mesi, vivevo in una specie di trance e anche ricordarsi di comprare il latte o annaffiare le piante o, che so io, spegnere lo scaldabagno diventavano grossi sforzi quotidiani ai quali mi sarei sottratta volentieri. Ero vissuta per molto tempo nella più ingenua incoscienza e per prima cosa m'impegnai ad avere tutto sotto controllo. Cercai di analizzare le ragioni e soprattutto le colpe che mi avevano portato a trascurare ogni cosa della vita di coppia e finalmente maturai l’idea che fosse sopraggiunto il momento di pensare a me stessa.

Per tenermi occupata cominciai ad uscire tutti i pomeriggi senza concedere agli altri un attimo di più della mia vita. Ma poi non facevo assolutamente nulla, passavo ore intere in giro per negozi senza nemmeno acquistare la minima stupidaggine. Tutti i giorni seguendo lo stesso itinerario facevo il giro delle pasticcerie del centro, in poco tempo avevo imparato a conoscere tutte le specialità di ogni singolo negozio. Non contenta cercavo di non farmi mai mancare nella dispensa di casa ogni tipo di cioccolata compresa la vecchia e cara Nutella.

E proprio in una pasticceria all’angolo con Piazza dei Signori incontrai Maddalene. Di madre cinese e di padre europeo faceva la cameriera per sbarcare il lunario. “Signora, i suoi occhi sono tristi.” Mi disse in un italiano incerto e vellutato mentre mi serviva una fetta di Sacher e una tazza bollente di thè indiano. Rimasi sorpresa, era la prima persona dopo mesi che un essere umano mi rivolgeva una domanda così diretta indovinando, senza ombre di dubbio, il mio stato d’animo. Non potevo negare, ma non ero ancora pronta per cui le sorrisi in cerca di parole che in qualche modo camuffassero il mio stato interiore. Era giovane, il suo viso orientale non poteva avere che vent’anni o giù di lì. Le sue dita magre, perfette e delicate, si muovevano innocenti e incontaminate. “Io vedo dolore nei tuoi pensieri.” Disse ancora, quasi malinconica, scuotendo i suoi capelli lisci e neri. Sorrisi di nuovo imbarazzata soprattutto per quel tono confidenziale di quel piccolo esserino senza alcuna autorità.

Gelosa dei miei pensieri più intimi, purtroppo così evidenti, pagai il conto e me ne andai. Ma la sera non feci altro che pensare a quella ragazzina, per cui il giorno dopo tornai, ma lei non mi chiese nulla ed io non parlai. Il giorno dopo però mi servì un ragazzo suo collega, smarrita domandai di lei e avvertii dentro di me una particolare agitazione. Il ragazzo mi disse che per quel giorno si erano scambiati di turno. Rassicurata consumai in fretta, ma il giorno dopo tornai, come il giorno dopo ancora finché un pomeriggio di un qualunque venerdì lei, con la sua dolcezza disarmante, mi chiese di uscire. Rispetto alle prime volte aveva notato la mia nuova disponibilità e intuito quelle sfaccettature di soggezione che immancabilmente comunicavano quello che le mie parole non avrebbero mai detto. Era vero, avevo solo bisogno di parlare con chi, forse illudendomi, avrebbe potuto capire il mio stato d’animo.

Davanti ad una pizza in un ristorante orientale mi decisi a raccontarle la mia storia confessandole situazioni e sentimenti, persone e stati d’animo mescolando tempi, luoghi e la sua stupefacente pazienza ad ascoltare. Non espresse giudizi, non rincuorò la mia sofferenza, ma per la prima volta mi sentii più leggera, perfino allegra quando passeggiammo piacevolmente per le vie del centro. Uscimmo ancora e dopo una settimana mi accorsi che non conoscevo ancora niente di lei, mentre io ormai nuda mi sorprendevo a pensare come fosse possibile che una piccola ventenne mezza orientale e mezza cameriera potesse riempire fino all’orlo la mia esigenza di compagnia.

Durante la giornata non mi riusciva altro che pensare a lei. Non dissi una parola quando una mattina al telefono mi sussurrò delicatamente: “Io potrei venire a stare con te.” In effetti avevo bisogno di lei, ma accolsi freddamente la sua richiesta. Non so, forse la mia condizione di donna benestante non considerava affatto l’amicizia con una cameriera o forse il mio spirito di rivincita nei confronti di mio marito avrebbe desiderato, più che una piccola e minuta ragazza, farmi vedere affianco ad un uomo stupendo, magari un avvocato suo collega o un ricco benestante separato.
Così le dissi: “Maddalene ci devo pensare” Presi tempo a malincuore. Ma quando la sera la chiamai per chiederle scusa e ancora scusa mi disse che era già pronta sulla porta e che mi stava aspettando con la valigia già fatta. “Io capisco sai, tu hai paura d’innamorarti di me.” Considerandola solo un’amica non l’avevo mai vista sotto questo aspetto anche perché, a parte una situazione ambigua con la mia amica Silvia al liceo, non avevo mai avvertito attrazioni verso il mio stesso sesso. Sottolineai la sua ingenua tenerezza prendendola sottobraccio e quando le proposi di spacciarsi come cameriera davanti a mio marito, lei candidamente mi rispose: “Io non avere problemi.” Quella sera ridemmo di cuore.

In effetti dopo la colf licenziata non avevamo avuto più domestiche in casa e dopo solo qualche giorno la mia casa sembrò come nuova. Sotto i colpi di quella grazia orientale tutto riacquistò dignità e splendore compreso il mio stato d’animo. Maddalene si era calata perfettamente nella parte. Faceva la spesa, ci faceva trovare la cena pronta e la sera non smetteva mai di rigovernare. Ero quasi felice, la sua presenza mi inorgogliva e allo stesso tempo mi spazzava via il miele appiccicoso e malinconico della solitudine interiore. Dopo cena mentre mio marito si perdeva nel suo lavoro nello studio, noi rimanevamo in sala sedute sul divano a conversare e lei non mancava di riempirmi d’attenzione. Confesso che mi faceva enorme piacere anche quando spiando i suoi occhi pieni di emozione mi rendevo conto con quanta brama e dedizione mi guardasse segretamente.

Trascorse altro tempo e inevitabilmente una notte, dopo esserci augurate la buonanotte, la sentii scivolare dentro le mie lenzuola. Il mio primo pensiero andò a mio marito e mi irrigidii, il cuore mi batteva e rimasi ferma nella posizione facendo finta di dormire. Mai avrei voluto che lui mi vedesse a letto con quell’esserino. Lei intuì i miei timori e mi sussurrò: “Non preoccuparti, ho chiuso la porta a chiave.” E dopo meno di un attimo sentii inconfondibilmente l’umidità della sua lingua incunearsi tra le mie gambe fino a centrare senza esitazione il mio piacere per poi proseguire tra le mucose ansiose del mio ventre ormai in balia della sua tenacia.

Era la prima volta e in quel preciso istante pregai Dio che non fosse l’ultima! Sentivo la sua bocca remissiva, fedele e piena di abnegazione continuare a baciarmi per minuti e minuti, succhiando quel liquido di passione che sgorgava copioso fino ad orlare le linee della sua bocca. Compiuto quello che lei riteneva essere il suo dovere se ne andò in punta di piedi come era venuta senza nessuna pretesa di compiacenza o ringraziamento. La mattina mi svegliai confusa e nonostante lei si comportava come se nulla fosse successo, per vergogna non la guardai negli occhi per tutto il giorno. Non volevo confessare a me stessa quanto fossi stata bene e quanto quella piccola donna fosse stata più abile di tutti gli uomini che avevano avuto la fortuna di entrare nel mio letto, compreso mio marito.

Conoscevo la sua ostinazione e sapevo benissimo che non avrei fatto più a meno di quell’attenzioni tanto che da quella notte, ogni notte non aspettavo altro che si aprisse quella porta. Mi coricavo sempre più tardi per abbreviare il tempo dell’attesa e la mia piccola orientale, puntuale come una disgrazia, entrava nella mia stanza, chiudeva accuratamente la porta preservando il nostro segreto. Poi scivolava come un aliante nelle mie lenzuola e immancabilmente respirava il mio calore senza avere in cambio niente. “Tu, signora, non parlare, tu essere felice e ok così.” Diventammo inseparabili, lei nel frattempo si era licenziata dalla pasticceria per dedicarmi interamente le sue giornate. Eravamo di fatto amanti, anche se dentro di me avevo il terrore di pronunciare quella parola.

Passarono altri giorni e soprattutto altre notti finché quando, a suo insindacabile giudizio, mi ero liberata definitivamente dalla tenia della malinconia, lei iniziò magicamente ad accettare le mie carezze. Dapprima imbarazzate ed inesperte quelle carezze divennero in poco tempo avide, audaci e possessive. Mi resi conto di non poter fare a meno di lei, del suo corpo, della sua grazia, di quel mistero orientale intriso di calma e benessere. Mi sorpresi ad essere più protettiva di un uomo e più indifesa di una donna. Anticipava ogni mio desiderio e ci amavamo ovunque e ovunque sentivo la mia pelle fremere. Durante il giorno mi riempiva di coccole smisurate e la notte di ogni tipo di sesso e non c’era ora e luogo inadatto per accogliere i suoi baci, tanto che, in poco tempo, simile ad una mappa, il mio corpo divenne terra di conquista, deserto per i predoni e mare per i pirati. Ero consapevole e felice e non chiedevo altro.

E come quando tocchi il cielo con un dito nel mio animo cominciò a covare la paura di perdere quello che lo stesso cielo mi aveva donato. Mi resi conto di non sapere ancora nulla di lei e non dormivo la notte per assicurarmi che non fuggisse, di giorno ero sempre all’erta, quando tornava dalla spesa la sottoponevo ad un vero e proprio interrogatorio, mi divorava il dubbio che potesse incontrare altre persone, magari ragazzi e ragazze del suo stesso paese.
Un giorno rimase l’intera mattinata fuori casa, quando tornò le feci una scenata senza precedenti. Lei dolcemente mi disse: “Tu non devi preoccuparti, io amo solo te!” La baciai, ma ero devastata dalla gelosia. Successe ancora e le mie insicurezze vennero di nuovo prepotentemente fuori e allora per lenire la mia angoscia le proposi di incatenarla. “Se questo serve, signora, nessun problema.” E così scesi dal ferramenta sotto casa e comprai una corda, dei lacci e un lucchetto.
Contenta tornai a casa e la incatenai. Ora la sentivo veramente mia. La notte mi dormiva accanto legata e nonostante le stringessi le corde fino a segarle i polsi, mi sorrideva, senza mai avere un attimo di risentimento. Avrei benissimo potuto giurare che fosse felice, perché io lo ero. Non avevo mai conosciuto un essere così disponibile come mai mi ero scoperta possessiva e ladra di fronte a tanta bellezza.

Mio marito nel frattempo viveva la sua vita come se nulla fosse cambiato. Immerso totalmente nel lavoro dedicava il poco tempo libero agli amici ed ai suoi hobby preferiti. La presenza di Maddalene sembrava non interessarlo e lei lo ignorava totalmente, finché una maledetta domenica pomeriggio vidi nei loro sguardi un inconfondibile cenno d’intesa. Mi crollò il mondo addosso, mai avrei creduto che quell’uomo interessato solo alle appariscenti modelle patinate potesse interessarsi ad uno scricciolo di pelle, ossa e per giunta senza tette.

Aspettai che mio marito uscisse per la solita cena con gli amici e per la notte chissà dove poi mi avventai contro di lei. La insultai, le dissi puttana, troia e una serie di parole irripetibili che uscirono come lingue di fuoco dalla mia bocca. Piansi disperata e quella sera non la volli vicino nel mio letto. Accecata dalla gelosia la legai alla gamba del tavolo della cucina. Lei non si oppose, anzi rimase lì in silenzio e distesa sul pavimento senza il minimo cenno di reazione.

Passai una notte agitata e piena di incubi, poi verso le due del mattino nel dormiveglia sentii chiaramente i suoi gemiti. Credendo che si sentisse male mi alzai di scatto per slegarla, ma dal fondo del corridoio vidi mio marito, appena rientrato, in ginocchio sul pavimento della cucina. Lei era ancora legata e lui la stava baciando avidamente tra le cosce. Mi tuffai invasata e urlandogli contro cercai di strapparlo da quel paradiso che consideravo solo mio! E mentre la ragazzina sorrideva maliziosamente, io e mio marito ci ritrovammo inginocchiati lottando con le nostre lingue, per conquistare qualche centimetro in più del suo sesso.

Ingoiavamo alternativamente peli, saliva e il suo umore con la sola ostinazione di non recedere preziosi centimetri di quella pelle morbida. Finché dopo tanto lottare riuscimmo contemporaneamente ad entrare nel suo piacere, umido ed eccitato da tanto possesso, rivendicando ognuno, per la sua parte, la responsabilità di tanto godere. E in quella posizione a carponi, come mucche al mattatoio in attesa del colpo di grazia, succhiavamo succhiavamo, sbavando su quel sesso frustrazioni, insicurezze e voglia di riscatto. E succhiavamo Cortina e la nostra storia d’amore fallita, Jesolo e gli amici di sempre, le feste e i compleanni, i suoi amici che ci avevano provato con me e la sua amante modella e tettona.

Succhiavamo e succhiavamo la nostra rivincita, le nostre ipocrisie e il nostro perbenismo misto a colate di piacere di quell’extra comunitaria dagli occhi a mandorla. Aspiravamo boccate di nettare e miele incuneandoci nelle pieghe della sua carne più intima con la pretesa di essere ognuno di noi due l’amante perfetto di quella piccola donna. E succhiavamo la sua energia vitale, la sua pazienza, la sua apparente sottomissione, la finta soggezione, il suo Dio più solido del nostro, i suoi valori incontaminati dall’Occidente. E indecenti ci contendevamo pelo su pelo a colpi di lingua e saliva rifilandoci colpi bassi e mosse sleali, succhiandoci il nostro matrimonio con trecento invitati, i parenti venuti da Roma, l’album con le foto, la sua carriera, la bella macchina tedesca, l’abbonamento a Sky, la nostra serie preferita, le sue partite a tennis, le mie borse di Fendi, quel paio di Louboutin riposte con cura nell’armadio, il suo Rolex d’oro e il ritratto di suo nonno generale.

Lei rideva, anzi ci incitava a fare meglio, ed io impazzivo per la paura di perderla urlandole contro tutte le notti passate insieme, le sere sul divano e i nostri baci avidi e segreti. Lei rideva e gemeva mentre mio marito cercava di darmi testate per conquistarsi il Paradiso, per essere più bravo di me, e lei rideva ed io succhiavo nettare denso dal sapore esotico con la maledetta paura di non essere all’altezza, certo sì, succhiavo, eh sì succhiavamo e succhiavamo il mio cappotto d’Armani, le fedi antiche dei trisavoli, le mie calze di seta nere, le sue camicie di Trussardi, il viaggio di nozze nello Yemen, il filmino visto e rivisto con gli amici del sabato sera. E succhiavamo le vacanze estive al Club Med, il nostro ristorante preferito in collina, sua madre morta di cancro, l’eredità di suo padre da oltre un milione di euro.

E succhiavamo senza contegno e decoro fino a logorarci le lingue ed essiccarci le ghiandole puntando in quel gioco la sua segretaria bionda amante per una notte, le partite a padel, i compleanni a Sirmione, i weekend a Parigi, il suo iPhone 12, le mie ricette vegetariane e i tanti pomeriggi di massaggi e abbronzature. E succhiavamo succhiavamo, con i nostri sederi in alto e la ragione dentro le cosce, i nostri fallimenti, il suo navigatore satellitare e i nostri sentimenti anoressici, il quadro di Cascella in sala da pranzo e l’amore insulso del sabato sera, la porta blindata e gli SMS inviati di nascosto. E già, succhiavamo succhiavamo …………………………………………









 









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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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