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STORIE DI ROMA
 

Roma, 41 d.C.

La Notte della Suburra
La Suburra pulsava con i suoi odori soffocati dal fango e dai
desideri, io, Lucius Scribonius, scribacchino, avanzavo in quel
caos di sporcizia e davanti a una taverna incontrai avvolta
in un mantello Licisca, ovvero l'imperatrice Messalina
 





 
La Suburra pulsava con i suoi vicoli soffocati dal fango e dai desideri come un cuore oscuro. Il crepuscolo aveva drappeggiato Roma di ombre, e l’aria era un vortice di fumo, vino rancido e sudore.

Io, Lucius Scribonius, scribacchino con un’ossessione per i segreti che scottano, avanzavo in quel caos, il papiro nascosto sotto la tunica, il calamo pronto a catturare una storia capace di scuotere il Palatino. Ogni passo era un rischio: prostitute dai volti truccati pesantemente mi invitavano nei loro angoli d’amore, gladiatori dalle cicatrici profonde mi fissavano come predatori, e poi mercanti che urlavano per vendere olive ammuffite, ubriachi che cantavano strofe sconnesse, tra il tintinnio di coltelli e ladri che sfrecciavano con mani invisibili. Colpito da quel caos mi muovevo solo per uno scopo: trovare uno scoop che facesse tremare i patrizi del Palatino.

Le insulae torreggiavano come mostri di mattoni, con balconi che sembravano sul punto di crollare. Dalle finestre aperte uscivano pianti di neonati, gemiti di piacere, insulti gridati a squarciagola. Le strade erano un mosaico di miseria e vitalità ed io mi rendevo conto di quel pericolo, ogni passo era un azzardo, ogni ombra poteva nascondere un pugnale. Con la tunica tirata sul viso e un rotolo di papiro nascosto sotto la cintura, avanzavo, pronto a catturare il prossimo segreto.

In uno di quei vicoli la vidi. Camminava come se il fango della Suburra non potesse sporcarla. Era alta, con un portamento che gridava nobiltà anche sotto un mantello logoro che non poteva nascondere la sua grazia. Una parrucca rossa, vistosa come un falò, le copriva il capo, e un velo leggero che celava a malapena e per vezzo femminile il suo viso.

Diversamente dalle altre donne camminava con l’eleganza di chi comanda, non di chi si nasconde. Davanti a una taverna, un branco di ubriachi l’accolse con fischi e versi crudi e volgari: “Rossa, mostraci il paradiso! Quanto per un giro di giostra?” Lei rise, scivolando dentro il locale. Convinto che non fosse una meretrice qualunque, il mio istinto mi spinse a seguirla.

L’interno della taverna era un antro pieno di fumo e lussuria. Corpi accalcati, risate sguaiate, prostitute che mostravano i loro seni opulenti e tutto intorno il puzzo di vino e carne bruciata. La donna con la parrucca rossa si era sistemata in un angolo, accolta da tre colossi che sembravano gladiatori con le mani callose strette intorno a coppe di terracotta. Mi avvicinai, fingendo di ordinare vino, e ascoltai.

Si faceva chiamare “Licisca”. Quel nome mi colpì come un fulmine: Licisca, la leggenda della Suburra, capace di piegare re e ladri con un solo sguardo. La meretrice leggendaria, quella che si diceva potesse sedurre anche un Dio. Ma c’era altro: il suo portamento, la voce, tradivano un mondo lontano da quei vicoli.

Mi sedetti vicino scribacchiando sul papiro. I suoi occhi, verdi come smeraldi e affilati come lame, si poggiarono su di me. Con un cenno che non ammetteva repliche, mi chiamò indicandomi la panca vicino a lei. I gladiatori si dissolsero come ombre. Ancor prima di sedermi, mi disse: “Sei uno scribacchino, vero? Ti ho riconosciuto, sai? Con quegli occhi che divorano tutto, quella mano che danza sul papiro. Dimmi, Lucius Scribonius, cosa cerchi in questo nido di vipere?”
Deglutii, il suo sguardo mi inchiodava. “Una storia, Domina. Una che valga il rischio.”
Le sue labbra si curvarono in un sorriso che prometteva rovina. “Una storia? E se ti dessi un fuoco che potrebbe bruciarti vivo? Hai il coraggio di scriverlo, mio dolce scribacchino?”

Annuii, anche se in quel momento avrei solo voluto fuggire via. Lei si sporse, il velo scivolò sulle sue spalle rivelando un viso che avrebbe fatto piangere tutti gli Dei dell’Olimpo. Zigomi scolpiti, labbra piene, occhi che rubavano il respiro. “Io sono Valeria Messalina. Imperatrice di Roma. E Licisca, quando la notte mi reclama...”

Rimasi senza fiato. Messalina! La moglie di Claudio. La donna che si diceva si prostituisse per puro piacere e trasformasse palazzi in veri bordelli e templi di lussuria. Uno scoop che poteva costarmi la testa, ma preso dalla curiosità chiesi: “Perché qui?” Balbettai. “Il Palatino è tuo. Perché questa… fogna?”

Rise sguaiatamente. “Il Palatino? Una prigione di marmo, piena di vecchi che puzzano di ambizione e tradimento. Un covo di serpenti incipriati che si inchinano a Claudio mentre affilano i coltelli.” Poi pensando al marito aggiunse: “Claudio, mio marito, è un brav’uomo, ma un guscio vuoto. Zoppo, balbuziente, vecchio, un corpo che offende la bellezza. L’ho sposato a sedici anni, io, una fiamma che incendiava ogni sguardo e faceva girare la testa a mezza Roma. Lui ne aveva quasi cinquanta. Credi che il suo tocco mi bastasse? Credi che mi scaldasse il letto?”

Scossi la testa, scribacchiando freneticamente. Lei continuò, gli occhi che ardevano. “Non lo odio, sai. Claudio mi lascia vagare, sa che sono un falco, non una colomba. Ma io ho fame, Lucius. Una fame che mi divora dentro come una sacerdotessa greca e la Suburra è il mio altare. Qui, come Licisca, ogni uomo che mi desidera mi ricorda che sono viva.”

“E gli amanti? Dicono che tu…”
“Che abbia più amanti delle stelle?” Mi interruppe. Le sue labbra si incresparono in un ghigno malizioso. “Oh, dolcezza, è vero. Non li conto più. Gladiatori con corpi che sembrano scolpiti nel bronzo, le loro mani ruvide che mi stringono fino a farmi gemere. Attori con voci che sciolgono l’anima, ladri che rubano il mio respiro prima del mio oro...”

Poi si lasciò andare a qualche ricordo. “Una volta mi sono persa per un attore, Mnestere. Bello come un sogno, con occhi che promettevano l’eternità. Ma lui, figurati, non mi voleva. Rifiutava l’imperatrice, capisci?”
“Incredibile!” Mormorai appena per non interromperla.
“Ero furiosa, fuori di me! Così, per farlo crollare, ho preso cento giovani del mio seguito. Cento! Uno dopo l’altro, sotto i suoi occhi, in una sala del palazzo. I loro corpi, il loro sudore, i loro sospiri… ma non ha funzionato. Mnestere mi guardava come si guarda un cane ferito, non una donna. Non c’era alcun desiderio nei suoi occhi e alla fine è stato Claudio a ordinargli di prendermi e quindi l’ho avuto, ma era cenere. Il piacere, quando lo strappi, perde il suo sapore, è come vino annacquato.”

Le sue parole mi travolgevano, il papiro che tremava nella mia mano. “E le orge?” sussurrai. “Si dice che tu…”
“Che io faccia arrossire gli Dei?” Rise con la voce che scivolava come vino caldo. “Gli Dei sono i primi a unirsi al banchetto, tesoro. Le orge sono un’estasi. Il vino ti brucia il sangue, la musica ti strappa l’anima e ti entra nelle viscere, e di colpo non sei più un uomo, una donna, un imperatore. Sei solo desiderio e carne. Ed io sono lì, al centro, sempre. Ogni corpo è mio, ogni gemito mi appartiene. Ma non è solo lussuria. È fame, Lucius. Una fame che mi lacera e mi mangia viva.”

“E qui nella Suburra, cosa fai?” Insistetti con il cuore in gola. “Mi prostituisco!” Poi aggiunse anticipando il mio perché: “Perché qui sono nuda. Nel palazzo, ogni amante è una pedina, un patto, un gioco di potere. Qui, sono Licisca. Cammino per questi vicoli, sento gli uomini che mi chiamano – ‘Rossa, sei un fuoco!’ – e il mio corpo canta. Una notte ho battuto una cortigiana. Venticinque amanti in un giorno, Lucius. Non per oro. Non per denaro! Non per l’ambizione di potere, ma solo per il brivido ed essere una dea tra i mortali.”

Il suo sguardo tornò su di me, e il calore del suo corpo mi avvolse. La sua mano sfiorò la mia, le dita che danzavano sulla mia pelle come fiamme. Poi decisa afferrò la mia mano e la portò sul suo seno. “Scrivere di me non basta Lucius! Per conoscermi a fondo devi sentire, devi sapere cosa si prova ad essere desiderato e divorato da una dea…”
Il mio cuore si fermò. “Domina, io… sono solo uno scribacchino.” Balbettai. “Non sono degno.”
“Degno? Non si tratta di essere degni, amore. Si tratta di bruciare. Vieni con me. Ti mostro il vero fuoco della Suburra.”
Esitai. Accettare significava rischiare tutto: la vita, la ragione, la dignità. Rifiutare significava perdere la storia più grande di Roma e forse qualcosa di più, qualcosa che mi chiamava dal fondo di quell’anima inquieta.

Messalina sorrise, un sorriso da lupa che aveva trovato la sua preda. Mi prese per mano e mi guidò attraverso vicoli sempre più stretti, maleodoranti di piscio, di incesto e sporcizia. Ci inoltrammo in una stradina così stretta che le insulae sembravano toccarsi sopra le nostre teste, fino a una porta nascosta in un angolo dimenticato. Bussò tre volte, e la porta si aprì. Una figura incappucciata ci fece entrare, e ci ritrovammo in una piccola domus, un’oasi in quel mare di miseria. Le pareti erano affrescate di ninfe e satiri, il pavimento un mosaico sbiadito. Un braciere sputava fumo profumato di resine sui cuscini di seta sparsi su un triclinio.

Messalina si tolse il velo: “Benvenuto nel mio santuario, Lucius. Non è il Palatino, ma qui sono regina.”
Subito dopo una donna emerse dall’ombra. Alta, con i capelli neri e un viso con un trucco da Cleopatra che avrebbe potuto spezzare il cuore di qualsiasi notabile romano. La sua tunica trasparente accendeva l’immaginazione. “Valeria, sempre in ritardo.” Disse con la voce morbida come velluto. “E questo chi è? Un nuovo giocattolo?”

Messalina rise, sdraiandosi sul triclinio. “Cornelia Livia, ti presento Lucius Scribonius, scribacchino con un debole per i segreti. Lucius, questa è Cornelia. Patrizia di giorno e mignotta di sera… Si fa chiamare Silvia, la sirena della Suburra.”
Cornelia mi studiò, un sorriso lento che mi fece tremare. “Uno scribacchino? Speriamo sappia tacere, o finirà con la lingua tagliata.”
“Non tradisco segreti.” Dissi: “Voglio solo… capire.”
Cornelia rise, versando vino in coppe d’argento. “Capire Valeria? Oh, dolce ragazzo, nessuno ci è mai riuscito. Nemmeno Claudio.”

Messalina mi fece cenno di sedermi accanto a lei. “Vieni, Lucius. Non mordo… non troppo.” I suoi occhi promettevano tempesta. Mi sedetti, il cuore mi batteva come un tamburo da guerra.
Cornelia si accomodò dall’altro lato, accarezzando il braccio di Messalina. “Allora, Valeria, hai raccontato al nostro cucciolo delle tue conquiste? O hai tenuto i bocconi più succosi per me?”
Messalina bevve un sorso di vino, le labbra che brillavano. “Gli ho detto di Mnestere, l’attore che mi ha fatto sanguinare il cuore. E dei cento giovani che ho preso per spezzarlo. Ma non gli ho detto di noi, mia adorata.”
Cornelia inarcò un sopracciglio, il suo sorriso diventò immediatamente più caldo. “Noi? Oh, quella è una storia che brucia più di tutti i tuoi gladiatori.”

“Voi… siete amiche?” chiesi, scribacchiando nervosamente.
Messalina rise, posando la coppa. “Amiche? Oh, Lucius, sei così innocente. Cornelia è il mio specchio, la mia fiamma gemella, la vulva che nessun membro maschile potrebbe mai saziare il mio piacere. Di giorno è la moglie impeccabile di un senatore che russa come un maiale. Di notte, diventa Silvia, e i lupanari della Suburra si inchinano a lei. Non è vero, tesoro?”

Cornelia annuì, le sue dita iniziarono a sfiorare le trasparenze di Messalina all’altezza del suo seno. “Vero. Mio marito pensa che preghi Vesta. Invece, vengo qui, mi dipingo il viso, e mi prendo ciò che voglio. La Suburra non giudica. E nemmeno Valeria.”
“E tu?” Chiese Messalina con la voce che si abbassava in un sussurro vellutato: “Sei l’unica che placa questa fame, anche solo per un istante.” I suoi occhi si velarono, ma il sorriso tornò, più affilato.

Messalina si voltò verso di me: “Vedi, Lucius? Questo è il nostro tempio. Qui, siamo dee. E stanotte, voglio che tu entri nel nostro altare.”
Il mio stomaco si strinse. “Cosa… intendi?”
Lei si avvicinò, le sue labbra a un soffio dalle mie, il suo respiro caldo che mi faceva tremare. “Intendo che puoi essere nostro. O, se il tuo cuore è troppo timido, puoi guardare. Cornelia e io sappiamo come rendere la notte eterna.”

Cornelia si sporse, la sua mano scivolò sulla coscia di Messalina salendo fino al paradiso. Con movimenti lenti ma decisi iniziò ad accarezzare quel piacere. Poi rivolta verso di me disse: “Sappi, scribacchino, che nessuno lascia questa casa senza un segreto che arderà nella sua anima per molto tempo…”

Messalina gemette fino a quando, al culmine, trattenne il suo orgasmo e da vera femmina esperta si alzò, tirando a sé la sua amante. Le due donne si avvicinarono, i loro corpi si sfioravano come in una danza. Messalina slacciò la tunica di Cornelia con una lentezza che era pura tortura, lasciando che il tessuto scivolasse a terra. “Guardaci, Lucius…” Sussurrò, la voce come un canto di sirena. “Scrivi di questo, se osi. Scrivi di come due donne possono incendiare il mondo e darsi piacere senza l’aiuto di un uomo.”

Cornelia si voltò verso di me, il sorriso che prometteva paradiso e dannazione. “O unisciti a noi…” Mormorò accarezzando i fianchi di Messalina. “Non c’è vergogna nel desiderare. Non qui.”

Le loro labbra si incontrarono in un bacio lento e profondo, che sembrava succhiare l’aria dalla stanza. I loro corpi si muovevano come onde, ogni gesto un invito, ogni tocco una promessa. Si distesero sul tappeto, Messalina allargò delicatamente le sue gambe e la bocca di Cornelia scomparì dentro quel lago umido e dorato regalando alla sua imperatrice un piacere immenso.

Messalina tra un gemito e l’altro mi guardò piena di desiderio con gli occhi che bruciavano lussuria. “Scegli, mio dolce scribacchino. Scrivi, guarda, o brucia con noi.”
Il papiro cadde a terra. La Suburra, fuori, ruggiva, ma in quella stanza c’eravamo solo noi. Sapevo che qualunque scelta avessi scelto, qualsiasi come che di lì a poco avessi fatto, mi avrebbe consumato l’anima per sempre.


 






ARTICOLO DI ADAMO BENCIVENGA
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