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I RACCONTI DI ARTE PASSIONE


La Sfida di Olympia
Victorine Meurent e Edouard Manet
Parigi, 1863. La città ribolle di vita, tra i boulevard illuminati a gas e i vicoli dove il desiderio si compra e si vende. Edouard Manet è seduto in uno dei tanti bistrot ed è qui che Victorine lo incontra per la prima volta, si avvicina e gli chiede: “Cosa disegnate, monsieur?”




 

 
Parigi, 1863. La città ribolle di vita, tra i boulevard illuminati a gas e i vicoli dove il desiderio si compra e si vende. In quel mondo di luci e ombre, Victorine Meurent è una presenza che non passa inosservata. Minuta, con la pelle di porcellana e un’espressione che mescola sfacciataggine e mistero, Victorine è una delle modelle più conosciute della capitale.

Nata a Parigi in una famiglia modesta, il padre è un incisore e la madre una sarta, è cresciuta in un ambiente operaio, lontano dai lussi della borghesia. Fin da giovane, mostra un carattere indomito e una personalità che sfida le rigide convenzioni sociali dell’epoca. A 16 anni, inizia a lavorare come modella per artisti. La sua bellezza non convenzionale, magra, con la pelle chiara, capelli rossastri e un’espressione audace, la rende perfetta per i pittori d’avanguardia che cercavano di rompere con l’accademismo.

La sua vita è un vortice di piaceri fugaci e notti senza fine. Frequenta i café-concert, danza nei locali di Montmartre, e si muove tra i letti di ricchi borghesi e artisti squattrinati con la stessa disinvoltura. Non ha pudore, né rimpianti. Il fiore che porta tra i capelli e il nastrino di raso nero al collo sono il suo marchio, un segnale per chi sa coglierlo. Victorine, o “Olympia” come la chiamano i suoi amici, vive per sé stessa, libera da ogni catena, come il gatto nero che si struscia contro le sue gambe nella sua stanza disordinata.

La sua esistenza è un atto di ribellione contro una società che pretende virtù dalle donne ma le spinge ai margini. Di giorno, posa per artisti nei loro atelier polverosi, trasformandosi in muse o dee per pochi franchi. Di notte invece fa un altro mestiere, accogliendo uomini che pagano per il suo corpo e per il suo sguardo, quello sguardo diretto e impudente che sembra dire: “Guardami, ma non mi possiederai mai.”

Una sera d’autunno del 1862, Victorine entra in un caffè di Montparnasse, avvolta in un mantello logoro, ma con l’aria di una regina. Édouard Manet è seduto a un tavolo, intento a disegnare schizzi su un taccuino. Lui ha 30 anni, un’eleganza trasandata e un’irrequietezza che lo distingue dagli altri pittori. Lei lo nota subito: non è come i soliti clienti, c’è qualcosa di magnetico nei suoi occhi, una curiosità che va oltre il desiderio fisico. Si avvicina e posando la mano sul tavolo con un gesto provocatorio dice: “Cosa disegnate, monsieur?”

Manet alza lo sguardo, sorpreso, ma intrigato. “Sto cercando la verità.” Risponde, mostrando uno schizzo di una donna nuda, senza veli. “Ma Parigi sembra preferire le bugie.”
Victorine ride divertita. “La verità? Io la vivo ogni giorno, e non piace a nessuno.” A quel punto si siede senza chiedere il permesso, e tra un bicchiere di assenzio e una conversazione che si fa sempre più intima, i due riconoscono l’uno nell’altra uno spirito affine. Manet vede in lei non solo una modella, ma una complice, una donna capace di incarnare la sua sfida all’ipocrisia del tempo. Lei invece vede nei suoi pennelli e nella sua arte ciò che la farà diventare famosa.

E così è stato. Le prime pose nell’atelier del maestro danno vita ad uno dei più famosi dipinti di Manet: “Le Déjeuner sur l’herbe”, una tela che già aveva fatto gridare allo scandalo. Con quel quadro Victorine diventa famosa, per strada tutti la riconoscono e allora prega il pittore di ritratta ancora. E così nel 1863 Victorine torna nello studio del pittore.

L’atelier è un caos di tele, pennelli e tende pesanti che lasciano filtrare una luce cruda. Manet le mostra uno schizzo: una donna nuda, sdraiata su un letto, con una serva di colore accanto e un gatto ai piedi. “Voglio dipingerti così, non come una Venere, ma come sei. Olympia, la regina di questa città corrotta.”
Victorine sorride, intrigata. “Vuoi scandalizzarli tutti, vero?” Chiede, mentre si sfila il mantello. “Fallo, Édouard. Mostrami come mi vedi, ma sappi che non mi nasconderò, né per te né per loro.” Il suo desiderio non è solo di essere ritratta, ma di essere vista, di gridare al mondo la sua esistenza senza filtri. Sa che quel dipinto sarà una provocazione, un pugno in faccia alla morale borghese, e questo la eccita più di qualsiasi cliente.

Le sessioni di posa per Olympia diventano un rituale. Manet lavora con una concentrazione febbrile, mentre Victorine si sdraia sul letto disfatto, il corpo illuminato da una luce spietata che non nasconde nulla: il doppio mento, le gambe corte, la pelle segnata dalla vita, il suo sesso in bella mostra. Lei lo provoca assumendo pose sensuali e sussurrando battute volgari. “Se dipingi così male, Édouard, dovrai pagarmi il doppio.”
Tra loro si instaura una complicità che va oltre il rapporto tra pittore e modella. Parlano di tutto: della Parigi che li disgusta e li affascina, delle ipocrisie dei ricchi, della libertà che entrambi inseguono a modo loro. Manet è attratto dalla sua sfrontatezza, dalla sua capacità di essere sé stessa senza scuse. Victorine, a sua volta, vede in lui un uomo che non la giudica, che celebra la sua crudezza invece di volerla addolcire.

L’atmosfera si fa carica di tensione erotica. Quando Manet le chiede di coprirsi il pube con la mano, lei lo fa con un gesto lento, quasi beffardo, sapendo di turbarlo. “Attento, pittore…” Gli dice ridendo, “O finirai per innamorarti della tua Olympia.” Lui non risponde, ma il modo in cui la guarda, con un misto di desiderio e ammirazione, parla per lui. Il loro legame diventa più stretto ed ogni pennellata di Olympia è un atto di intimità, un dialogo tra due ribelli.

Durante le pause, si siedono insieme, condividendo un bicchiere di vino e una sigaretta. Lei gli racconta delle notti nei café-concert, degli uomini che la desiderano, ma non la capiscono. Lui le confida i suoi dubbi, la paura che Olympia sia troppo, anche per un pubblico abituato alle provocazioni.
“Scandalizzeremo tutti.” Dice Victorine, avvolta in un lenzuolo che non copre niente. “E tu, Édouard, sei pronto a essere odiato?”
“Se significa dipingere la verità, che mi odino pure.” Risponde lui.
In quei momenti, il loro legame si rafforza. Non è solo attrazione fisica ma una connessione profonda, fatta di una visione condivisa. Victorine si fida di Manet, sa che non la dipingerà come un oggetto, ma come una forza. Manet, a sua volta, vede in lei non solo una musa, ma una donna che incarna il coraggio che lui cerca di esprimere sulla tela.

Mentre Olympia prende forma, ogni pennellata diventa un dialogo silenzioso tra loro. Manet non cerca di idealizzarla: dipinge le sue imperfezioni con una devozione che è quasi un atto d’amore. Victorine, dal canto suo, si offre senza riserve, mostrando le sue intimità che vanno oltre la carne. Quando Manet dipinge il nastrino nero al collo di Victorine è come se stesse accarezzando quella sensualità con le sue stesse mani, quando aggiunge il gatto nero ai piedi del letto, simbolo della sua libertà selvaggia, è un omaggio alla sua essenza indomabile.

Olympia non è solo un dipinto, ma un manifesto della loro ribellione. Quando il dipinto è completato, si guardano in silenzio. “È perfetta,” dice Manet, ma nei suoi occhi c’è qualcosa di più: gratitudine, forse, per aver trovato in Victorine la musa che poteva incarnare la sua visione. “No,” risponde lei, con un sorriso malizioso. “Sono io.”

Quando Olympia viene esposta al Salon del 1865, Parigi esplode. La tela, di grandi dimensioni, domina la sala, ma non per la sua bellezza: è un affronto, una sfida. La nudità di Victorine, illuminata da una luce violenta che la rende quasi merce in vetrina, è lontana dalle Veneri idealizzate di Tiziano. Il suo sguardo diretto, limpido e senza vergogna, sembra accusare ogni spettatore. La serva di colore con i fiori, il gatto nero, il nastrino al collo: ogni dettaglio urla che Olympia è una prostituta, e che non ha intenzione di nasconderlo.

Il pubblico è furioso. Le critiche piovono come grandine: “Indecente”, “volgare”, “un insulto alla morale”. Una donna tenta di colpire la tela con un ombrello, mentre gli uomini sussurrano indignati, incapaci di accettare che una prostituta reale, riconoscibile come Victorine Meurent, sia esposta come un’opera d’arte. La direzione del Salon, sopraffatta, sposta il dipinto in un angolo seminascosto, poi lo relega al Salon des Refusés, dove i “rifiutati” trovano rifugio. Ma lo scandalo non si placa. Manet, che aveva previsto le reazioni ma forse non la loro ferocia, è scosso, ma Victorine no. “Lascia che strillino,” gli dice, ridendo. “Hanno paura di guardarsi allo specchio.”

Victorine continua la sua vita dissoluta, posando per Manet in altre opere come La cantante di strada, ma Olympia rimane il loro capolavoro condiviso, un grido di libertà che sfida il tempo. Non cerca redenzione, né approvazione. Vive come vuole, senza rimorsi, fino a quando la sua storia si perde nei vicoli di Parigi.
Manet, segnato dallo scandalo ma rafforzato dalla sua visione, porta con sé il ricordo di Victorine, la musa che ha incarnato la sua rivolta. Olympia, oggi al Musée d’Orsay, continua a fissare gli spettatori con quello sguardo impudente, un’icona di provocazione e verità. E in ogni pennellata, si sente ancora l’eco di un legame che ha sfidato le convenzioni, tra una donna che non si è mai piegata e un pittore che ha saputo vederla per ciò che era: non una dea, ma una regina.


 



ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
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