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STORIE VERE


IL REGGICALZE, LA MIA OSSESSIONE
Ludovico si racconta
"Questa è la storia di come ho cercato di rendere vivo il mio feticcio. Per anni, ho creduto fosse tutto: la mia ossessione, la mia religione, la mia vita. Ha distrutto il mio matrimonio, ha spezzato ogni relazione, lasciandomi solo l'odore del pizzo e i suoi fiocchetti. Ma stasera, qualcosa è diverso..."



 

 
Mi chiamo Ludovico, ho passato i cinquanta, e vivo da solo in un appartamento silenzioso in una via tranquilla di Milano. Sono un restauratore d’arte, ma non è il mio lavoro a definirmi, ma la mia ossessione per il reggicalze, un feticcio che mi divora, un fuoco che mi accende e mi tormenta. Il reggicalze è il mio idolo, la mia salvezza, nonché la mia condanna. Nel tempo ha distrutto il mio matrimonio, ha soffocato ogni relazione, e mi ha trascinato in un abisso dove mi chiedo chi sono davvero.

Dicevo, la mia mania ha spezzato anche il mio matrimonio. Vanessa era una donna concreta, una manager in carriera, distante dal mio mondo romantico di pizzi e fantasie. Ho provato a coinvolgerla, regalandole reggicalze di pizzo nero, con fiocchetti di seta e ganci scintillanti, comprati in boutique esclusive o sbocciati nelle mani di sarte esperte. Ma lei li trovava scomodi, li chiamava “ossessioni da pervertiti” non sapendo che involontariamente mi procurava ferite sanguinose.

Una sera, in un’esplosione di frustrazione, le ho confidato che non riuscivo a desiderarla senza quel dettaglio. Ho provato a spiegarle quanto quel semplice accessorio fosse l’essenza della mia passione. Lei però mi ha guardato come se fossi un estraneo, gli occhi pieni di lacrime e disgusto. “Non sono il tuo giocattolo! Quando lo indosso mi sento un oggetto!” Ha sibilato. Pochi mesi dopo, era finita e mi sono ritrovato solo, con il mio culto come unica compagnia, e un senso di colpa che mi stritolava: Perché non potevo essere normale?

Dopo la separazione, ho provato a ricostruire la mia vita, ma il reggicalze era sempre lì nella mia mente come un demone che mi possedeva. Incontravo donne, belle, sensuali, donne che qualsiasi uomo avrebbe desiderato, ma il mio sguardo cadeva sempre sulle loro gonne, cercando di indovinare, cercando disperatamente un luccichio di ganci, un segno del mio feticcio. Nei momenti intimi, la verità mi colpiva come un coltello: un banale collant, una dozzinale autoreggente e mai una calza velata appesa a un reggicalze. E il mio desiderio svaniva, lasciandomi vuoto, impotente non solo nel corpo, ma soprattutto nell’anima.

Con Elena, una collega restauratrice, pensavo di aver trovato un’ancora su cui aggrapparmi. Era elegante, il suo corpo una promessa di piacere, le sue cosce un abisso nelle quali sprofondare. Ma una sera, a casa mia, quando ha sollevato la gonna, davanti a me si è materializzato un collant nero, banale, senza vita, erotismo e lussuria. Il mio cuore si è fermato, la stanza si è ristretta, il sangue si è condensato in infiniti stallatiti. Ho provato comunque a proseguire, mi sono detto che non potevo perderla, ma in realtà non sentivo niente.

Elena era lì, nuda, bellissima, ma senza il reggicalze era come un quadro senza luce, una crosta d’autore di un falsario. “Cosa c’è che non va?” Mi ha chiesto. Non potevo dirle la verità. Dentro di me, una voce urlava: “Perché non riesco a desiderarti? Perché sono così sbagliato?” Alcuni giorni dopo mi ha mandato un messaggio con scritto che non si sentiva desiderata come donna. Mi ha lasciato, convinta di non essere abbastanza, e io mi sono odiato per averla ferita.

Poi c’è stata Martina, incontrata per caso in un bar. Gonne a tubino aderenti, tacchi alti, un’eleganza che mi faceva tremare. L’ho corteggiata con un’urgenza disperata, come se potesse redimermi. Non le ho confidato della mia mania, certo che questa volta davanti a quella femminilità ne avrei potuto fare a meno. Mi ripetevo: “Claudio, non fallire, è la tua ultima possibilità.”

Una sera, a tavola in un ristorante intimo, seduti uno a fianco a l’altra ho intravisto il bordo della sua calza nera. Il mio cuore è esploso, e nonostante fossi sicuro che non portasse il reggicalze, non ho resistito. La mia mano, nella remota speranza di un miracolo, è salita lungo la trama di quel nylon, ma si è ritratta subito dopo. Erano autoreggenti, fredde, senza pizzo, senza ganci, senza poesia e sensualità! Il desiderio si è spento, e con lui la mia capacità di soddisfarla. A casa ho provato a fingere, ma il mio corpo mi ha tradito. “Non mi vuoi?” Ha chiesto Martina con gli occhi pieni di apprensione. “Sei perfetta!” Ho mentito, ma dentro di me infuriava una tempesta: “Perché non posso essere normale? Perché questo feticcio mi controlla?” Dopo quella sera non l’ho più cercata.

Ogni volta, il conflitto interiore mi dilaniava. Quelle donne erano splendide, ma senza il reggicalze non erano niente per me. Non erano femmine! Mi odiavo per questo, per non riuscire a desiderarle, per vedere nei loro occhi la confusione, il rifiuto. “Cosa ti manca?” Mi chiedevano, e l’altro me taceva, soffocando una verità che mi strangolava. Mi chiedevo se fossi malato, se fossi destinato a rimanere solo, prigioniero di un’ossessione che mi rendeva alieno ed estraneo a me stesso.

L’unico sollievo lo trovavo girando per vetrine e negozi. Entrare in una boutique di lingerie era come rifugiarmi in un tempio. Camminavo davanti alle vetrine, come su un sagrato di una chiesa, il respiro corto, gli occhi che divoravano il pizzo di Cantù, i fiocchetti di seta, i ganci dorati che promettevano salvezza.

Una volta, in via Montenapoleone, ho fissato un reggicalze nero con ricami floreali per così tanto tempo che la commessa si è sentita in dovere di chiedermi se stessi bene. Per l’imbarazzo l’ho comprato pregandola di farmi un pacco regalo per non destare ulteriori sospetti. L’ho portato a casa come fosse una reliquia. Ogni acquisto era una tregua, un momento in cui il mio feticcio era mio, senza delusioni, senza giudizi. Ma anche lì, il conflitto mi seguiva: “Perché ne ho bisogno? Perché non posso liberarmi?”

Ricordo il mio primo reggicalze, comprato vent’anni prima a Firenze. Avevo venticinque anni, ferito da una relazione finita male. Ero in quella città per un convegno ed anche per disintossicarmi, ma una vetrina di lingerie, come uno spacciatore che ti vende droga, ha richiamato la mia attenzione. Sono entrato e con il cuore in gola ho scelto la mia dose, un modello rosso, intrigante, con i nastri di velluto e sei gancetti dorati. La commessa lo ha avvolto in carta velina ed ero estasiato dalla grazia con cui le sue unghie smaltate di rosso accarezzavano quell’ostia sacra.

In albergo l’ho guardato per ore, accarezzando i dettagli con le dita tremanti. Non avevo nessuno a cui regalarlo, ma non importava: era perfetto, un oggetto di bellezza che esisteva per se stesso e soprattutto era tutto mio! Eppure, anche allora, sentivo una voce dentro di me: “È sbagliato? È troppo?”

Le delusioni si accumulavano, e mi sentivo sempre più estraneo al mondo, certo che donne e uomini mai avrebbero compreso. Insomma una specie di amore ed odio verso quell’oggetto tanto desiderato ma che inesorabilmente mi allontanava da tutto il resto. Così, una sera, ho fatto qualcosa di impensabile. Nel silenzio della mia ossessione ho aperto il cassetto della mia collezione di decine di reggicalze, di cui alcuni ancora nelle confezioni.

Ho scelto un modello vintage, pizzo nero con ganci d’argento, formato da una fascia di seta nera, morbida come un sussurro, che si adagiava liquida tra le mie dita. La superficie interna era foderata con un sottile strato di cotone nero e sulla parte esterna, la seta era impreziosita da un pizzo Chantilly nero. Il pizzo era un intricato intreccio di motivi floreali, con rose stilizzate in un disegno barocco. Al centro della fascia, un piccolo fiocchetto di raso nero aggiungeva un tocco di civetteria femminile.

Con le dita tremanti seguivo l’andamento sinuoso dei nastri che terminavano in ganci di metallo placcati in argento e coperti ognuno da un fiocchetto di seta lucida.
Ogni gancio era decorato con un minuscolo cristallo Swarovski, incastonato come un gioiello, che scintillava appena nella penombra della mia stanza da letto.

Con le mani ancora tremanti l’ho indossato, avvertendo una sensazione unica con la seta che scivolava sulla mia pelle come una carezza, fresca e liscia, mentre il pizzo leggermente ruvido, amplificava il contrasto e la consapevolezza di ogni movimento. I nastri, con il loro lieve peso, oscillavano appena, e i ganci tintinnavano debolmente, un suono che per me era una melodia segreta.

Non ero una donna ovvio, ma il reggicalze mi trasformava, mi faceva sentire parte di quel culto che veneravo. Era una liberazione certo, ma anche un nuovo tormento. “Chi sono diventato?” Mi chiedevo. “È questo ciò che voglio?” Eppure, in quel momento, il reggicalze era tutto: la mia identità, il mio desiderio assoluto, la mia verità.

Ma la mia ossessione non si è fermata e tantomeno placata davanti a quello specchio. Una sera, invitato al vernissage di un amico artista, ho deciso di spingermi oltre. Ho scelto un reggicalze discreto, nero, con pizzo sottile e ganci minimali, e l’ho indossato sotto i pantaloni di un completo scuro. Non so cosa mi abbia spinto: forse il bisogno di portare il mio segreto nel mondo, di sentirlo vivo ed animato sulla la mia pelle in mezzo alla gente.

Ovvio non era solo una sensazione fisica, ma anche mentale. Ogni passo era un rischio, il pizzo che sfiorava la mia pelle, i ganci che premevano leggermente. Il cuore mi martellava, la paura mi stringeva la gola: “E se qualcuno lo avesse notato? E se i pantaloni avessero tradito il mio segreto?” Ma c’era anche un’eccitazione, una sfida a me stesso, una voce che sussurrava: “Questo sei tu. Non nasconderti.”

Tra calici di Prosecco e chiacchiere sull’arte moderna e surrealista, ho visto Sophie, una vecchia amica francese che non incontravo da anni. Sophie era sempre stata una donna magnetica e pure in quel momento non smentiva la sua essenza femminile. Gonna longuette, tacchi alti, una camicetta leggera da cui traspariva la sua prima sensuale, un sorriso che catturava ogni sguardo.

Abbiamo iniziato a parlare, rievocando i vecchi tempi. Rideva, mi sfiorava il braccio, e io sentivo il reggicalze sotto i pantaloni, un segreto che mi rendeva audace e in un certo senso rivale e competitivo, ma allo stesso tempo mi inchiodava a un terrore paralizzante. Dentro di me, due voci si scontravano: una mi spingeva a seguire Sophie, a vivere il momento, l’altra invece mi urlava di fuggire. Quando mi ha invitato a casa sua per continuare la serata, ho accettato, ma il mio stomaco era un nodo di angoscia.

A casa di Sophie, l’atmosfera si è fatta subito densa, carica di tensione. Luci soffuse, un bicchiere di Bordeaux, la sua voce che scivolava come seta. Ma io ero un relitto dilaniato dal conflitto interiore. Sapevo cosa sarebbe successo: lei si sarebbe avvicinata e io avrei dovuto affrontare e svelare la mia ossessione. Quando mi ha preso la mano e mi ha guidato verso la sua alcova, il mio cuore era un tamburo, la mente un caos. “Scappa!” Urlava una voce. “Non puoi darle ciò che vuole.” Ma un’altra voce, più oscura, mi tratteneva: “E se fosse diverso? E se potessi sentirmi normale, per una volta?”

Sophie ha iniziato a spogliarsi, la stanza girava, il mio petto era stretto in una morsa, ma poi, seduto sul letto, in un momento di follia, ho deciso di non nascondermi più. Se dovevo crollare, che fosse con la verità. Se dovevo essere rifiutato, che fosse per ciò che ero.

Appoggiato alla spalliera del letto, con le mani che tremavano e il sangue che mi pulsava nelle tempie, mi sono tolto i pantaloni. Il reggicalze, nero e discreto, era lì, esposto. L’imbarazzo mi ha travolto come un’onda, il volto in fiamme, il respiro corto. Non riuscivo a guardarla, temevo il suo giudizio, la sua risata, il suo disgusto. Dentro di me, il conflitto infuriava tra la paura di essere giudicato e l’apparire come realmente fossi.

Sophie è rimasta immobile, il suo sguardo fisso su di me. “Claudio…” ha detto in un misto di sorpresa e incertezza. Il silenzio che è seguito è stato un coltello, ogni secondo un’agonia. Mi aspettavo che mi cacciasse, che mi chiamasse folle. Invece, dopo un’eternità, si è avvicinata. “Non capisco,” Ha detto. “Ma… è interessante, non so...” Non trovava le parole, ma nel contempo non c’era condanna nei suoi occhi, solo una curiosità che mi ha spiazzato.

Ho balbettato, la voce rotta: “È ciò che sono, Sophie. Non so spiegartelo, ma… è la mia vita.” Lei portava un banale collant, ma è successo lo stesso, anche se con poco trasporto nei suoi confronti. Per mantenere accesa la passione ogni tanto mi guardavo e alla fine mi sono reso conto di aver fatto l’amore con me stesso.

Quella notte per la prima volta mi sono sentito me stesso, non come un pervertito, ma come un uomo con un segreto che, forse, non era così terribile. Eppure, dentro di me, il conflitto non si è spento: “È abbastanza? Sarò mai libero da questa ossessione?”

Non ho più rivisto Sophie. Ma quella notte mi ha segnato. Ho smesso di cercare relazioni, di inseguire donne che non potevano capire. Vivo per il mio feticcio, per le serate davanti allo specchio, per i nuovi pezzi che arricchiscono la mia collezione. Ogni tanto, indosso calze e reggicalze sotto i pantaloni, esco di casa, mi siedo in un bar e mi sento vivo sentendo la trama velata sulla mia pelle e i ganci del reggicalze che mi ricordano ad ogni passo la mia unicità.

Mi ripeto che non è solo un indumento: è un simbolo di seduzione, un’icona di eleganza e trasgressione che non tutte le donne possono provare. Ogni dettaglio è un richiamo alla femminilità che venero, ma anche un riflesso della mia identità, un ponte tra ciò che desidero e ciò che sono. Insomma un mio segreto che porto con me come un talismano. La seta e il pizzo sono un promemoria della mia solitudine e della mia devozione, un simbolo che incarna il mio conflitto interiore: bellezza e isolamento, desiderio e rifiuto, libertà e prigione.

Ma la verità è che non sono in pace. Passo davanti alle boutique, sorrido, ma dentro di me la lotta continua: il reggicalze è il mio amante, il mio compagno, il mio tutto, ma è anche la mia prigione, il mio conflitto interiore. Una parte di me si chiede se potrò mai essere altro, se potrò mai desiderare senza condizioni, senza pizzo, senza ganci. Mi rispondo che non sarà mai possibile e che l’unica via è impersonarmi in ciò che rappresenta quel feticcio, ossia la femminilità, cosciente del fatto che forse mai, per nessuna donna, possa rappresentare la stessa immagine sacra, l’unica religione a cui sono devoto.


 



Questo racconto pur basato su fatti di
cronaca è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e
qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.


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