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REPORTAGE
 
Waria, i transgender indonesiani
In una tasca il Corano nell'altra il rossetto
Giacarta. Nei bassifondi della vita, c’è un quartiere povero, una strada sporca, un odore nauseante, ai lati scorrono case di legno marcio, biciclette arrugginite e motorini rumorosi. C’è un piccolo fiume che scola silenzioso pieno di melma e rottami, c’è una casa dalle pareti rosa dietro un cosiddetto salone di bellezza.
 
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Dalla parte di Dio
Giacarta. Nei bassifondi della vita, c’è un quartiere povero, una strada sporca, un odore nauseante, ai lati scorrono case di legno marcio, biciclette arrugginite e motorini rumorosi. C’è un piccolo fiume che scola silenzioso pieno di melma e rottami, c’è una casa dalle pareti rosa dietro un cosiddetto salone di bellezza.
Qui ci vivono alcune donne, insieme cuciono vestiti coloratissimi, fanno dolci smielati, inventano nuove acconciature, nuovi trucchi e parlano. A prima vista sembrano donne mature riunite in un pensionato, ma in realtà sono dei “waria” (parola composta da wanita/donna e pria/uomo) che sta ad indicare i transgender indonesiani.

Certo che una casa per travestiti a Jakarta è qualcosa di strano se si pensa che fino a pochi anni fa i transgender era considerati malati mentali. Certo qui non si vive affatto in condizioni ideali, la casa non è affatto accogliente, sulla parete uno scatto glamour e una fotografia gigante raffigurante La Mecca. Dietro la stanza principale c’è una piccola cucina, un bagno e parecchi topi che corrono avanti e indietro.
La decina di residenti stabili fanno fatica a mettere insieme due pasti al giorno, non hanno finanziamenti e periodicamente devono organizzare delle manifestazioni chiassose e variopinte per le vie del centro. Lungo i marciapiedi cantano e ballano come dentro i locali, tra i quali il jalan Malioboro uno dei ristoranti più affollati della capitale, e danno vita a veri e propri spettacoli.
Il loro progetto o meglio il loro sogno sarebbe un giorno dare ricovero ai circa mille anziani waria della città, ma non è affatto facile se non si hanno sostegni economici.

Il loro aspetto, per i canoni di bellezza occidentali è a dir poco spaventoso, la maggior parte di loro mantiene gli organi riproduttivi maschili, visti i costi inavvicinabili dell’operazione, non consentita nelle strutture pubbliche.
Guadagnarsi da vivere rimane il loro principale problema. Alcune lavorano come pettinatrici nei matrimoni, altre vendono pollo fritto per strada, oppure ortaggi, oppure sono occupate nei saloni di bellezza o recitano la caricatura di loro stesse in televisione, ma la maggior parte si prostituisce clandestinamente lungo i binari della stazione ferroviaria. Qualcuno è morto travolto dal treno mentre faceva l’amore clandestinamente.
Yogyakarta comprende circa 3 milioni di persone. Se la giornata è fortunata, guadagnano circa 80000 rupie (7 euro) nel giro di 10 ore. Nei weekend si arriva anche a 100000 quando da queste parti si riversano i clienti dei paesi vicini, specie da isole come Sumatra e Lombok dove i dettami dell’Islam sono più rigidi.

Benché da queste parti la prostituzione sia illegale, la stessa legge indonesiana si dimostra però ben più accondiscendete su altri aspetti che regolano la vita dei travestiti del Paese. E così si scopre che nel paese musulmano più grande, popolato e bizzarro del mondo, dove l’aborto è vietato per legge, una waria ha diritto ad adottare una bambina e crescerla con sé!

Quasi tutti i waria sono religiosi. Organizzano settimanalmente (e quotidianamente durante il ramadan) incontri e preghiere. Nascosta nel retro di un salone di bellezza c’è una scuola fatta su misura per loro. La scuola Senin-Kamis (“Lunedì-Giovedì” in indonesiano, che poi sta a indicare i due giorni in cui è aperta) nasce nel 2008 come luogo sicuro in cui i transgender musulmani possono raccogliersi, conoscere il Corano sotto la guida dell’imam e praticare la loro fede senza essere giudicati o ridicolizzati.

L’Islam è stato introdotto in Indonesia nel tredicesimo secolo e in breve tempo è diventato la religione dominante del paese (l’88 percento professa la fede musulmana). Si stima che i transgender siano circa 35 mila e, benché siano considerati sacri da alcuni gruppi etnici, i waria sono oggetto di violenze e intimidazioni. La legge islamica vieta agli uomini di vestirsi da donna o adottare atteggiamenti femminili, e viceversa. Riconosce due soli sessi, maschile e femminile, che si separano durante il momento della preghiera. I waria hanno scelto un terzo orientamento, e in teoria possono partecipare alla preghiera sia come uomini che come donne, ma nei fatti non è così semplice. La discriminazione quindi costringe loro a lavorare esclusivamente con il sesso, alimentando una crescita di casi di HIV. Si calcola che il 35% abbia contratto la malattia e la maggior parte muore di HIV, che continua a devastare la comunità waria anche a causa della scarsa educazione riguardo all’uso del preservativo e della mancanza di farmaci necessari a contrastare il virus.

Dicevamo il loro aspetto estetico è a dir poco spaventoso, ma loro sono convinte che il silicone concorra nel creare un aspetto femminile, più morbido e accattivante. Il silicone si compra al mercato nero e può essere acquistato spesso dopo anni di sacrifici e risparmi. Non ci sono protesi contenenti silicone, viene iniettato direttamente sotto pelle.

Ecco i waria, che nonostante tutto, il silicone a buon mercato, le ascelle pelose, l’HIV, i topi, la prostituzione, i motorini rumorosi, i sorrisi sdentati, gli ombretti scintillanti e le parrucche economiche, camminano lungo questa strada sporca di Jakarta con un rossetto in tasca e Dio dalla loro parte.
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ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
FOTO GOOGLE IMAGE


 

















 
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