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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
AISHA
 


 

 
Un sorriso e una carezza, è quello che offre, come piccola onda che infrange la riva, sciacquettando la strofa di un’antica canzone, strascicando la rima se a volte le viene, come fosse un velluto di lana e di seta, una nenia da zingara appena accennata. La ragazza ha un nome, ma non è quello vero, nel circo ambulante la chiamano Aisha, e non conosce suo padre, e sua madre l’ha vista, appena una volta in un filo di fumo.

Perché Aisha sciacquetta e ricama la strofa, di un’antica canzone che parla di un mago, di una lampada ad olio da cui esce del fumo, che disegna nell'aria figure a vapore. Ed il mago è buono e le ha promesso che un giorno, la porta nel posto dove riposa sua madre, perché è molto stanca, perché è molto bella, quasi come sua figlia quando scioglie i capelli.

Quasi come Aisha che si chiede da sempre, quanto somigli allo specchio sua madre, e quanto la fronte, le guance, la bocca, che morde e tormenta perché sia più gonfia. Come sua madre diafana e bionda, morta di parto in una tenda in disparte, quasi come Aisha che non lo deve sapere, e al mago domanda e muta poi attende, quale mestiere facesse sua madre, in questo circo ambulante che di paesi e villaggi porta a spasso la gioia di adulti e bambini.

Tra i fili di fumo lei l’ha vista volare, con le ali di un angelo che galleggiava nell’aria, come un’acrobata, un’equilibrista, un uccello, che spicca e poi vola per terre lontane. Aisha ci pensa ma non ha visto mai il mare, lo immagina denso di melma e di fango, chissà quanto è grande, se quanto la fossa, dove al tramonto ci vanno a bere i cavalli.

Ha una gonna fiorata lunga gitana, un paio di sandali dorati da schiava, un seno d’ovatta che timido spunta come gemma d’inverno da un ramo di pesco. Scioglie i capelli e li raccoglie di nuovo, li gira tre volte dietro la nuca, si lecca le dita intinte nel miele, si secca le labbra per poi cominciare.

Davanti alla tenda si lascia guardare, con la donna cannone in volo per sempre, il lanciatore di lame che colpisce il bersaglio, la ballerina che ammicca, l’orchestra che suona, gli amanti impazienti al di là delle dune, il mangiatore di fuoco che si pulisce la bocca.

Ora Aisha è seduta dentro la tenda, e la nenia che canta parla di un uomo, disteso sul letto di ferro battuto, tututatatà mentre si specchia allo sguardo, e la brama dell’uomo che aspetta un cenno, un volteggio frusciante di seta leggera, un sibilo lieve d’odore di spezie, di stive strapiene d’incenso e di mirra, d’aromi più intensi di sudore e di colla.

Tututatatà lei gioca con l’ombra, d’un lume che avaro la riflette alla tenda, tututatatà lui si lascia saziare, da quel suono di mani, d’anche e di forme, da quei giochi di bimba, di zingara esperta, che svasa la gonna e intossica il sangue. Sono spine e tormenti di rose d'inverno, sono vuote parole che la pioggia riempie, petali secchi friabili ai venti, e un soffio li sparge e non rimane che niente.

La canzone prosegue ed Aisha l’ammalia, schiude le labbra di porpora e pepe, e sospira le rime di fiato e vapore, scaldando le voglie di saliva abbondante. E’ tecnica, regola, maniera e mestiere, è un volo pindarico per lidi lontani, Aisha si muove e tintinna i suoi cerchi ed incanta la preda per mondi fiabeschi. Ogni tanto si chiede dove abbia imparato, da dove provengano quelle parole, quell’arte da scaltra, d’indole innata, ogni tanto ci pensa e dubbiosa sospira, ogni tanto ci pensa ma non arriva alla fine, perché il mago non parla e lei più non domanda, quale mestiere facesse sua madre...

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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.
Photo KemalKamilAKCA
Il testo in corsivo è tratto dal brano: "Il suono" di Amedeo Minghi


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