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Adamo Bencivenga
CABARET
...
Sta piovendo tutto intorno oltre il fiume di parole, sta
avvolgendo di cielo grigio le luci e le persone, i fili
di ferro arrugginiti, le case in fila indiana, il ponte
che attraverso, le macerie dentro il cuore. Vorrei
sentirmi anima leggera, scivolare sull’asfalto, come
fossi un uccello che ha bisogno del suo pane, vorrei
sentirmi ma non sento nemmeno il battito del cuore, per
questo agito l’ombrello, per questo soffio fiato denso,
ma tutto mi commuove, la mia faccia cupa appesa,
riflessa dentro i vetri d’insegne spente misteriose,
sapendo che ti voglio, sapendo che ti cerco. Sta
piovendo sopra la mia pelle, sopra il mio cappello nero,
Dio come sono invecchiato, non c’è vetro che m’inganni,
e sta piovendo sulla mia storia, l’unica del mio
passato, sulle vetture ferme, di polizia militare, sulle
parrucche nere, come io ti sto cercando, famosa
ballerina di una Berlino d’altri tempi.
Cammino e
ti cerco in un’insegna colorata: Cabaret, mi hai
scritto, solo una parola: “Sai che ci lavoro, mi ci
guadagno il pane, ogni sera due o tre pezzi ed il
pubblico in delirio!” Ogni sera due o tre pezzi dentro
un camerino, oppure in un angusto, buco di Berlino. E'
inevitabile pensarlo, scusa se l'ho fatto, scusa se mi
viene… immaginare anche altro! Sarà più roca la tua
voce? Saranno veri i tuoi baci? Ma cosa sto pensando… E’
stupido pensare, salgono all'orizzonte cumuli bluastri,
salgono le mie pene, umide a dirotto, sembra fumo e
ciminiere ma piove veramente.
Lampioni battuti in
ferro, in fila lungo il viale, suonano nel freddo i
tacchi del richiamo, bionde come la Germania ai margini
del Reno, more come la Francia ai confini dell'Alsazia,
le vedo e sono belle, tra le mani qualche Marco, tra le
labbra il dai e dai di rossetti scoloriti. S’addensano
rovine dentro le mie vene, s’aggrumano detriti come
trombi nel mio sangue. “Taci, non parlare.” Questo mi
dicevi. “Taccio, ma a che serve, se il pensiero ci
ritorna?" Distante un punto nero, la sagoma del treno,
distante un fischio muto, vuoto all’orizzonte. Un altro
al mio posto, biondo, poi mi hai scritto. "A volte i
sentimenti ..." Ma cosa sto dicendo?
Zoccoli e
carrozze scivolano sul bagnato, e piove, piove ancora,
sul governo e l’ingiustizia, sui loro tacchi rossi che
strusciano sull’asfalto, e sono tante e sono grasse come
querce lungo i viali, mi offrono un viaggio tra le
labbra insaporite, i fianchi appesantiti al prezzo di
una birra, un ricovero senza luce, all’alba un brodo
caldo, al riparo dai poliziotti, dai loro manganelli. Mi
dicono che fanno male, che servono per altro, mi dico
che l’amore non si compra con i marchi.
Sta
piovendo tutto intorno, sta piovendo veramente, cammino
addosso ai muri e cerco tra le insegne, poi salto senza
pensare su una carrozza sgangherata, il cocchiere che mi
dice non c’è scelta questa sera. Lui conosce la più
brava, ma qualunque a quest’ora, dà riparo e un pasto
caldo, e pure un letto per dormire. "Già, il governo e
l'ingiustizia." Dico tanto per ridire... Capisco che non
ha capito, ma io tento ugualmente. Sto cercando un
locale! Lui si volta senza dire, mi indica un ombrello a
scacchi rosso antico, che ripara carne e forme: “Col
seno ci sa fare!” Che importa se non è bella? Se non
ha più i suoi vent’anni? “Di notte sono tutte uguali!
Paradisi a poco prezzo. E le puttane sono belle…” A
prescindere, mi dice. Mi confida che è sua moglie e
la sua bocca sa di more, e le sue gambe una prosa per
palati sopraffini, “E’ la più richiesta, ma stanotte non
si lavora, per la polizia che ci spreme... malattie e
delinquenti... per questa pioggia che non smette, per la
tanta concorrenza, e sono bulgare e rumene, russe
bianche come il latte.”
Lui parla ma non sento,
guardo e scovo altrove, ho il cuore in gola che non
smette. Cabaret! Ecco l’insegna. Il petto batte forte.
Gli ordino di fermarsi... Incredulo scuote il capo,
incredulo m'accontenta. Per sua moglie un altro giorno,
come il seno e il brodo caldo, come l’alba ed il
riparo... "Già, una vale un'altra..." Ti ritrovo tra
la nebbia fitta di un boccale, trabocca il locale
d’ufficiali in divisa, svastiche dorate sui colli di
pelliccia, qui è un altro ambiente, non si bada a spese,
marchi nei reggiseni, pistole nelle giacche, diffidenza
dentro il cuore e donne d’alto bordo, qualcuna sui
divani seduta nell’attesa, che accavalla seta pura
fasciata per mestiere. Ti vedo da lontano sul palco
che ti muovi, la tua parrucca nera, le labbra rosso
fuoco, cilindro e calze a rete, una cravatta che sa di
uomo, parole americane con l’accento in italiano. “Start
spreading the news, I’m leaving today…” Mi vedi e mi
sorridi, mi fai cenno di aspettarti. “I want to be a
part of it New York, New York…”
Sei bella e lo
sapevo, ma è forte l’emozione. Scatto qualche foto è
roca la tua voce, le tue gambe disinvolte, “Troppo!” Ho
pensato. Hai un trucco troppo forte, da scena mi
convinco, le luci, il personaggio… “A volte i
sentimenti…” Finisci tra gli applausi e mi dici di
seguirti. Mi indichi un camerino, fiori dappertutto. Mi
dici che le rose, profumano per mestiere. Ridi e poi mi
tocchi, mi spettini i capelli. “Che gioia rivederti, sai
non credevo…..” Mi emoziona il tuo calore, mi
commuove la tua voce, mi chiedi come ho fatto, a
ritrovarti qui a Berlino, la tua faccia poi s’increspa e
guarda tutto intorno, poi il tuo viso che ritorna di
colpo nella scena... il prossimo vestito, tre minuti per
cambiarti. Ti spogli in penombra, sai non ti resisto.
M'avvicino e ti respiro, faccio per baciarti… Ah già,
biondo, mi avevi scritto! “Un ufficiale in carriera, ma
non c'è nulla tra di noi, mi protegge solamente."
Tre anni sono lunghi, troppi per le parole! Vorrei
sapere altro ancora, ma mi basta respirarti. Vorrei
sapere quante volte, i tanti letti sfatti, e quante albe
e tramonti, e quanti ti hanno detto... ma mi chiedi di
mia madre, come passa i suoi giorni. Dirti ora che è
morta cosa cambierebbe? Già, stringo le miei labbra, è
patetico ricordare. Dentro il buio di uno specchio,
ostenti il tuo seno, per gioco e per mestiere come la
volta per amore, in una stanza a Barcellona, le ramblas,
El Cortes Ingles, il tuo cappello bianco, i tacchi
troppo alti, la tua fretta di tornare, il mio dolore al
ginocchio. Mi guardi senza tempo, come fosse un’altra
vita, troppo acerba a quest’ora, già è patetico
ricordare. Ti rivesti e già sei pronta, due minuti per
risalire. Il palco che ti aspetta. Bussano e ti
chiamano… Due minuti per un bacio, sfiorato per via del
trucco, due minuti non servirebbero nemmeno per morire,
per dirti che il tuo cane ha avuto un altro attacco, che
Clara aspetta un bimbo, che sarai presto zia.
Ti
confondi a fosche tinte come un cielo che ripiove, cerco
di aggrapparmi sui fili della rete, mi s'intrecciano le
voci è difficile capire, come se non fosse amore, ma
ancora qualcos’altro. Sento i tuoi tacchi che danzano
sicuri, il palco, la tua voce, l’accento italiano. “I
wanna wake up in that city, that doesn’t sleep...”
Vorrei ancora rimanere, sentire la tua voce, magari un
dopo cena, ma non t’ho chiesto dove alloggi, magari poi
insieme, “ma che vado a pensare!", sentire ed annusarti,
vorrei e non vorrei, ma non sarebbe il tuo odore, ma
ancora qualcos’altro. Già, le rose, mi hai detto,
profumano per mestiere!
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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