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Adamo Bencivenga
CALZE NERE
Indossava da sempre calze
nere, di quelle che a vista accendono il dubbio, che il
bordo finisca molto prima dei fianchi, lasciando
scoperta la parte importante. Le aveva scovate fin
quando bambina, frugava curiosa nei cassetti di mamma e
s’immergeva da sola nei colori e fiocchetti, e giocando
alla donna s’ammirava allo specchio. E contro corrente
rispetto alla moda, col passare del tempo ne aveva
capito, l’essenza, l’arte e l’intrigo, la seduzione
evidente quando la trama, le velava le gambe
d’impalpabile nylon, di leggerissima seta che sfumava
alla luce, tra il vedo e non vedo come una bambola
antica, che muoveva le gambe per essere certa, d’essere
unica, originale e superba, con un’arma in più rispetto
alle altre.
Indossava da sempre calze nere e ne
comprava tante, ma tante davvero, perché le piaceva
veder lo stupore, di chi accarezzandola sotto la gonna,
risaliva la mano vigorosa e impaziente, fino a quando la
calza diventava più scura, poi bordo velato come se
iniziasse la notte, poi pizzi e ricami come fossero un
circo, e la pelle più chiara spalancasse alla luce, quel
mistero svelato di malizia e richiamo, di segreto e
d’arcano solo a pochi concesso.
Col passare
degli anni nulla era cambiato, chiudeva gli occhi ogni
volta in attesa, come se fosse un rito sacro e solenne,
una sacerdotessa del bene che dispensa bellezza e
conserva intatta la grazia del gesto, emblema e figura
di donna diversa, d’una mano tremante, d’un respiro più
gonfio, d’uno sguardo che fissa la pieghe più scure, ed
esperto le nota alla caviglia o il ginocchio, e le
chiede discreto se davvero le porti.
Quel venerdì
pomeriggio si stava vestendo, in penombra tra il letto,
la tenda e l’armadio, quando scorse nel buio suo marito
nell’ombra, che furtivo sbirciava da dietro la porta.
Con indubbia maestria recitò la sua scena, srotolando le
calze lungo le gambe, addrizzando la riga davanti allo
specchio, e con fare da esperta curò i dettagli,
ostentando quei gesti così femminili, slacciando i
gancetti riallacciandone in parte, alzando la gonna quel
tanto e quel niente, per poi riguardarsi e vedere
l’effetto, di una voglia che nasce nell’ombra a due
passi, d’una riga che muore sotto la gonna.
"Dove
stai andando?" lui le chiese in ingresso. "Dal
dentista." Rispose con voce sicura, ma le dava fastidio
quel suo incerto indagare, così ipocrita e falso, così
mai diretto. "Se vuoi ti accompagno?" Lui le disse
geloso, lei lo guardò e sapendo il motivo, sospirò un
“Va bene” per non lasciare sospetti. Poco dopo in
macchina forse per caso o forse perché si era sollevata
la gonna, la mano iniziò ad accarezzarle le gambe mentre
con l’altra teneva il volante. Poi senza fermarsi seguì
il suo capriccio, lungo il percorso oltre la calza, con
un impeto maschio di voglia e piacere, finché sussurrò,
sicuro di averla, che se non fosse stato per quel mal di
denti, sarebbero tornati a casa di fretta.
Lei
sentì quella mano bollente, che premeva la pelle dove si
sentiva già pronta e con un gesto violento scostò la sua
voglia, che obbediente riprese a guidare il volante. "Ma
non sai pensare ad altro?" Gli disse stizzita serrando
le gambe. "Guarda, mi hai pure smagliato la calza!"
Sulla gamba sinistra dove il bordo è più scuro, un filo
tirato interrompeva la trama. Un attimo dopo davanti
allo studio, lui era avvilito e lei arrabbiata, scese di
fretta baciandolo in fronte, come per dire che le
sarebbe passata. “T’aspetto.” Lui disse, non guardandola
in faccia. “C’è sempre fila qui dal dentista!” Sorpresa
cercò uno straccio di scusa. “Non importa, non ho niente
da fare.” Replicò lui prendendo il giornale.
Rassegnata e delusa lei scese di fretta e quando entrò
nel portone, avvertì il suo sguardo, sulla riga perfetta
dritta e insolente, che chiedeva soltanto di farsi
sgualcire, assaporando l’intrigo, la passione e la
smania di una mano diversa da quella di prima. Salì di
corsa le scale nonostante i suoi tacchi, sentì il suo
fiatone nella gola e le gambe, giurò a se stessa di fare
in un lampo, nonostante l’imprevisto che leggeva il
giornale. Entrò nello studio fingendo un’urgenza,
passando davanti alle persone in attesa, un dolore di
denti, forte e improvviso, forse un ascesso e non poteva
aspettare.
Il suo bell’amante in camice bianco,
non aspettava che lei, non aspettava nient’altro, quando
lei accennò al suo contrattempo e lui la spogliò senza
battere ciglio, adagiandola sopra la sedia di pelle, che
ogni venerdì ospitava da sempre, quell’amore segreto
breve ed intenso, con la gente in attesa che cadenzava
gli orgasmi. Afferrò le sue stringhe scoperchiando la
gonna, s’immerse nel circo di pizzi e merletti, segno e
feticcio ed oggetto di culto, venerò quell’altare come
fosse una Dea e baciò la seta, e baciò la sua pelle,
infine trovò l’ispirazione più calda, saziandola tutta
fino all’ultima smania, bisognosa e impellente dopo
giorni d’attesa.
Ma nella foga dell’atto lui le
chiese dell’altro, perché alle volte, si sa, basta una
variazione del tema, e l’attesa di un marito a poca
distanza ingigantì il desiderio di possederla di nuovo.
Con fare deciso la spogliò d’ogni cosa, prima la gonna,
poi le scarpe e le calze, dietro quei vetri che davano
in strada, proprio dove un qualcuno leggeva il giornale.
Fece l’amore come mai aveva fatto, facendola sentire
avida e persa, mogliettina affettuosa in preda agli
istinti, d’amore e passione e sesso di fretta, mentre
l’ignaro premuroso aspettava, in apprensione sincera per
quel mal di denti.
Lei si rivestì tra quei baci
di corsa, che insistenti l’avrebbero ancora voluta, uscì
di fretta portandosi appresso, gli sguardi curiosi dei
pazienti in attesa e i segni evidenti della sua sbadata
imprudenza. Salì in macchina cercando una faccia, quella
appropriata di sofferenza e dolore, coprendo a malapena
l’ultimo impulso, dietro quella tenda tornata al suo
posto, che ora davvero nascondeva un dentista ed un vero
paziente bisognoso di cure, diverse da quelle che
l’avevano accolta.
Suo marito le chiese se
avesse sentito dolore, lei dentro di sé sorrise pensando
che ne avrebbe voluti di canini e molari, di denti e
gengive infiammati ogni giorno, se questo era il male e
la cura più adatta. Lui non chiese altro e posò il suo
giornale, ripartì ammiccando i suoi occhi vogliosi, come
per dire che quel pensiero di prima, li avrebbe condotti
fino a casa diretti, e seguendo la sua maledetta mania,
le mise una mano sotto la gonna, scoprendola in parte,
scoprendola tutta, comprese le calze fino al bordo più
scuro.
Chissà quante volte lei le aveva
indossate, chissà quante volte lui le aveva ammirate,
eppure eccolo lì, con la sua voglia di maschio, che
frugava eccitato tra la seta e i fiocchetti, come fosse
un’amante al primo giorno da soli, come fosse un marito
che viveva distante. Lei sentì il suo fiato che
s’addensava bollente, la sua voce più roca che le diceva
amore, e parole piccanti e parole da letto, e nonostante
da poco avesse fatto l’amore, fu contenta e felice
d’essere oggetto, d’attenzione e di brama, come oggetto
di culto, da quel desiderio che non ricordava da tanto e
appagata apprezzava quell’impeto nuovo, pensando che il
tutto era iniziato in penombra, quando maliziosa
indossava le calze, a modo e con classe come una donna
sa fare...
Al semaforo rosso lui la guardò
nuovamente, la mano estasiata ripeteva il percorso, per
centinaia di volte fino alla parte più calda, per
migliaia di volte fino al primo gancetto, fino a quando
inatteso, in uno scatto improvviso, lui ingranò la
marcia e ripartì come un razzo. Prese velocità nel giro
di un niente, prima, seconda fino alla quinta, guidato e
sospinto dalla sua voglia di maschio, passò rasente
lungo le auto in sosta, sfiorò una fila di tronchi di
pini, lei chiese il motivo di perché tanta fretta, anche
se immaginava dove stessero andando, anche se muto lui
non dava risposta.
Ma ad un tratto girò a destra
e sinistra, poi un rettilineo con i lavori in corso, poi
prese una strada che non era quella di casa, una strada
diversa che lei ignorava, e sul cartello era scritto
“via senza uscita”. Evitarono appena una coppia a
passeggio, un bimbo per mano che attraversava la strada,
mentre all’incrocio una macchina scura, inchiodò
attaccando le gomme all’asfalto. Schiacciava con forza
il pedale del gas e senza parlare guardava fisso la
strada, il sudore imperlava la fronte bollente, un
ghigno, una ruga, un taglio sul viso, aveva
un’espressione da mostro e da alieno, le mani due morse
strette al volante, con due occhi sbarrati come lingue
di fuoco, col rumore assordante di motore e pistoni, di
cilindri e ferraglia al massimo sforzo, accelerava,
premeva, spingeva e schiacciava, senza che lei si
rendesse più conto, che ormai non c’era più spazio e né
tempo, e un muro di cinta li stava aspettando, perché in
un nonnulla lui s’era accorto, che sotto la gonna c’era
qualcosa di nuovo e quella stupida smagliatura sulla
calza sinistra, si era maledettamente spostata sulla sua
gamba destra... .. |
Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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