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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
Ci sono dei giorni




 


 Ci sono dei giorni che hanno un sapore dolciastro, come lo sterco di storni quando fa buio, come le parole di un indelebile addio, quando t'affidi all'odore che senti e ti lasci guidare nonostante tu sappia, da dove provenga e dove stia andando, perché è solo melma che ti riempie la bocca, perché è solo odore di bagni per strada e lo ripeti ossessiva per assaporarne il disgusto.
Sai che il tuo vestito a fiori è solo apparenza, che il giorno che lento s’oscura si fa poesia per chi non ci vede null'altro, si fa nettare d'api per chi non vuole succhiare nient'altro e cola come i giorni che passano opachi nelle sfumature di verde in un paesaggio autunnale e ti chiedi dove sia finito il tuo ardore, in quale buco la voglia di non essere sola, come ora che nitido senti il tonfo d'una pigna che cade distante.

Ci sono dei giorni che paiono un sogno e stai lì a cercare i contorni, come un'ombra che a fatica ne assembli i tasselli, ne tiri fuori una faccia identica all'uomo, che ora dorme e respira tra le braccia di un'altra. E lui diventa evanescente come l’acqua del mare che resta in un pugno, lontano come un treno che hai appena perso, silente come due lacrime sporche di rimmel che non sei riuscita a fermare. Di notte ti viene vicino, s’infila incorporeo tra le lenzuola bagnate, emanando un calore che t’incatena leggero, come la tela d’un paracadute che atterra, che soffice ti copre e ti toglie il respiro e insolente, come gli capitava di rado, scivola nelle pareti del tuo corpo infiacchito, simile ad un aliante tra i versanti rocciosi, un gabbiano che plana attraverso la nebbia.

Poi ti scorrono gli anni senza che nessuno abbia preso il suo posto, senza che uno straccio di occhi, di mani, si soffermino sul tuo decolté mai troppo scollato, mai troppo audace alla voglia d’affetto, ai tanti difetti che ti scopri allo specchio, perche da quando è successo non c’è stato uomo che t’abbia rapita, non c’è stato delirio che t’abbia annegata dentro due occhi di mare e carezze. E vai incontro ai tuoi giorni perché tutto ciò non accada, perché solo nella mente degli altri s’allochi la certezza d'essere amata. Se sapessero invece quante ore passi da sola e quante ne sgrani e quante ne aggrumi ed uniche scorrono senza appaiarsi, ed ammassate le lasci fuori di casa perché a nulla ti servono quando chiudi la porta.

Non fai altro che distruggerti la ragione, massacrarti le unghie da ciò che hai perso, per tutte le volte che non hai dato abbastanza, compresa quella volta, che non lo sei stata a sentire, che ti sei negata al momento, per sempre. E lui bruciante e distruttivo come la pipì sulla neve, ti ha lasciato dietro una voragine fonda, un vuoto d’aria al decollo, e poi salite a pendio e discese a dirupo, elastiche come molla, appiccicose come la gomma o il tappo dello sciroppo per la tosse sul comodino.

Intenso e sfibrato come avviene nei sogni, altero e spaurito come una mamma che ha salvato i suoi cuccioli, dilata il tuo cuore e s’allunga nel tempo simile al miele che cola dal cucchiaio, come lo sputo quando sei raffreddata, ma ormai sono solo parole che inappagate cercano il loro contrario, cercano tra i chiaroscuri quell'ombra, o chiunque stasera le faccia diventare poesia. Ti lasci nel sonno suoni felpati di scarpette da sposa, uno strascico bianco che raccoglie polvere ed anni, un velo inutile che mai è servito, tutti riposti negli abissi slabbrati del tuo cuore ferito, solo ricordi incorporei che si fanno bolle come smorfie dentro un bicchiere, si fanno rami secchi di rose senza più spine, un calpestio distante di corse di bimbi su foglie bagnate.

Ci sono dei giorni che finiscono all'alba e quel chiarore che sfarfalla lontano è ancora l'inizio d'una lunga giornata. Una di quelle che non ci dormi la notte e t'alzi prima che suoni la sveglia, per poi goderti l'idea così come t'è venuta. Perché ci sono dei giorni che vorresti reagire, e indossi in segreto un vestito a fiori, e t’illudi che lui ti veda e t’apprezzi per tutto l’amore che gli hai saputo donare. La notte ci parli e t’approva, lo sogni e ti convince che quel letto è troppo grande per rifarlo al mattino, che quel fascio di luna che filtra deciso è troppo incalzante per non rimanerne aggrappata. Vorresti avere i suoi occhi per vederti più bella, vorresti avere le sue mani piene di calli per toccarti le tette e vorresti sentirtele addosso appiccicose ed impazienti che indugiano sfacciate lungo i bordi che fanno schiava di quell'ombra, come questo giorno che cala lentamente sopra parabole e tetti di una città che conosci a memoria.
Ci sono dei giorni che ti culli per ore, come un bambino nel ventre d'una gestante immobile a letto, e ti guardi allo specchio ogni qualvolta s'affloscia un capello e sfiori con un soffio la fronte, perché torni al suo posto mentre agiti le dita ancora fresche di smalto. Perché ti stai truccando vero? Convinta che nei momenti importanti sia d'obbligo offrire la parte migliore!

Guardi di fuori ad intervalli precisi e preghi perché quelle nuvole non diventino basse, non diventino rosse perché solo domani sarebbe bel tempo.
"Se piove dovrò portare un ombrello!"
Se piove… pensi e ridi di gusto, perché mai domani ci sarà un raffreddore, un colpo di tosse di grasso e catarro, un’aspirina a portata di mano, un qualcuno che ti accarezzi la fronte, e ti porga la guancia per sentire se scotti.
Se piove sarà grandine, saranno chicchi di riso, che mai hai sentito contro la faccia, saranno cappelli che danzano al vento, ma non ci sarà nessuna vergine e sposa, ma solo mani che salutano la nuova arrivata, saranno occhi che penetrano nei tuoi spacchi di stoffa e sguardi invidiosi che ti fanno regina sopra un viadotto.
"Perché mai quella sensazione bizzarra m'è arrivata fin sotto i capelli?"

Perché mai l'hai lasciata ingrossarsi come tette fresche a corto d'amore di fronte a due mani insecchite che non servono ad altro? Covata ogni notte tra il sogno e le gambe, stretta nel grembo quando una voce giurava che non sarebbe accaduto, mai t'avrebbe costretta a finire in questo ventre bollente, per sentirti più viva mentre obbedisci, per sentirti più donna mentre ti cerchi in quel fondo, nel quale si spezza quel fragile stelo, come una rosa in sala da pranzo.
Perché mai queste ore che passano non corrono in fretta? A meno che tu ora non stia confondendo l'alba e il tramonto, la vita e la morte, e la luce con l'ombra. Ne senti il fiatone come se fossero stanche, come se si rifiutassero di far venire la notte e s'adagiassero stipate sull'orlo d'un buco di culo.

E perché mai questa notte è stipata di sogni? E perché, perché, perché? Dio, se le domande avessero un senso, non ci sarebbe bisogno di tante risposte, perché ci sono dei giorni uguali a quelli di prima, che si squagliano come orologi visti in un quadro, e di colpo rimangono immobili in un muto silenzio, come un uovo spiaccicato sul pavimento in cucina. E pensi di uscire con il cuore annodato alla gola, sperando che i vicini non stiano dietro alla porta, a spiarti più bella come mai t'hanno vista, a domandarsi dove cavolo esci a quest'ora di notte, dipinta con i colori dei tuoi occhi profondi, senza un uomo che ti copra le spalle o dia un senso al rumore di due tacchi di fretta.

Dove diavolo vai avvolta in una mantella? Dove diavolo esci a quest’ora di sera? Con due seni che danzano ancora senza saliva, ancora indecisi se riempire un qualsiasi sogno o fare a gara con la luna che invidiosa li guarda, che l'illumina belli a quest'ora per strada dove nessun altro ne ricorda il sapore, ne ricorda la forma, la voglia, l'odore, tranne quei cani senza padrone che aspettano il turno con le bocche fumanti.
Se sapessero dove stai andando, se sapessero cosa c’è in fondo a quel buio! Perché ci sono dei giorni in cui ti tieni in disparte, e le emozioni dentro t'arrotolano il ventre, ti gonfiano il petto e t'invadono il cuore, senza che un respiro profondo ti lasci una tregua, e sola in quel posto dove mastichi nebbia sia tutto il tuo mondo, e rade paure ti volteggiano intorno, e tu leggera ti rimetti al destino, che invisibile ti chiama e t'invita, ti ristora con i suoi simboli ignoti, fino a farti sentire piatta e banale, perché mai avevi previsto di finire in culo al tramonto, che giustifica gli anni sfilacciati nel cuore, che giustifica il senso perché non hanno più senso, tutti quei giorni dove hai prosciugato le vene, quando ancora cretina appiccicavi l'amore, come figurine nella pagina giusta.

Ci sono dei giorni che hanno un indizio, una prova schiacciante che ti rende colpevole, come una lampada in faccia che ti fa confessare, come una luna infuocata ti fa sembrare più audace. Potresti raggiungerla a piedi se solo non portassi quei tacchi, se solo ne avessi il coraggio, potresti correre altrove, lungo figure perfette di siepi, distante da questa miseria, dentro labirinti dove giocano i ricchi, e tu porti una maschera perché chiunque ti prenda non abbia domani nessuna pretesa.
"Sarò bella davvero per pretendere amore?" Vorresti avere almeno uno specchio per guardare il tuo seno, per vederti più identica a quella che hai lasciato nel bagno, per vederti più bella di quella che ora s'affanna, che cerca un qualsiasi posto dove gli altri potranno ricamarci una storia, scattare una foto dello stesso formato di un riquadro domani in cronaca nera.

Ci sono dei giorni che non hanno un inizio, come se l’alba non si fosse mai rischiarata e la notte che l’ha preceduta fosse rimasta a dormire dall’altra parte del mondo. Avanzano scompagnati perché non hanno bisogno di ieri o domani, perché soli bastano a giustificare interi anni di giorni che passano anonimi senza sussulto. Spezzano a metà esistenze, come reti da pesca dividono mari, dove il prima s’affoga in un solo ricordo e subito dopo tu ricominci a contare.
Di colpo ti senti straniera, non c’è nulla che ti tenga e t’appartenga, nemmeno l’amore segreto che ti aspetta a casa avvolto in un fazzoletto di stoffa. Non c’è nulla che senti tuo, che ti faccia sentire inamovibile ed eterna, come sassi dentro un letto di fiume senz’acqua, come disgrazie che il tempo incolla per sempre nella memoria.
Perché ci sono dei giorni dove la tua auto si blocca, proprio sopra il viadotto e scendi e ti sporgi per vedere le case immerse nel fango, per sentire il fetore che viene dal basso e pensi come diavolo avresti fatto a camminarci sicura, ammirandoti i tacchi che scintillano al buio. Se fossi un uomo li leccheresti fino alla punta, essiccheresti la lingua per ricominciare daccapo fino ad essere convinta che valgono più di due labbra, di qualsiasi bocca che ti offre un amore. Se fossi una puttana basterebbe un niente davvero, scoprirti il seno e sentirtelo umido della prima saliva che tra poco si ferma, per poi dirgli che stasera l'hai scampata più bella e ringraziarlo senza che lui sappia il motivo d'aver rinunciato alla tua prima notte di quiete.

Ma non è così, non sarà così, perché ci sono dei giorni che ti marcano a fuoco come vitelli neonati, che danno un senso ai porti tra le nebbie dove non sei mai approdata e stanno lì come segnalibro tra le pagine dei ricordi, simile ad una colpa mai confessata o a sogni spezzati a cui nessun'alba ha dato decoro. Se fossi puttana davvero? Magari di quelle che battono asfalto, che si erigono regine sui rifiuti di notte, che curano il dettaglio marcato di labbra, come porte d'Oriente ricche di sfarzi. Allora sì che ti sentiresti importante, allora sì che stanotte avrebbe il suo senso ed eccola la porta della natura che si fa penetrare da cose, da oggetti sparpagliati come uno scrupolo che entra senza permesso, come un desiderio represso che non vuole andare più via. Ma ormai non sono più uomini, zingari negri o principi azzurri, ma è la tua vita o meglio il suo contrario che ti trova spalancata e indifesa, e ti penetra addobbata di stoffa e merletti come se il meglio rimanesse di fuori.

Vai, senza qualcuno che ti dica di andare, cercando i buchi più asciutti dove l’acqua piovana si snoda in tanti rigagnoli e si ferma sull’orlo. Vai sospinta da questo fascio di luna che odi, ma vai lo stesso, perché dove vai non c’è amore, non c’è un giardiniere che ti offre una gardenia, non c’è legge e misura, ragione o governo, ma vai e sfidi la tua paura che cresce, vai per essere tu stessa la notte! Vai, senza che qualcuno sappia dove tu vada, senza documenti e denaro, senza padrone o poliziotto che ti possa fermare. Vai e scompari, avanzi ed arranchi perché ti pesa la pena che senti, t’appesantisce le mani e le gambe, ma cammini, seppure a fatica, incontro a questi pezzi di destino che granitici ti sbarrano la strada. Li scalci e li scavalchi, come se fossero sassi, come se non ti curassi di loro, perché stanotte hai altro da fare!

Perché ci sono dei giorni dove non ci sono altri giorni quando senti il vento che entra e ti svasa la gonna, lo senti e lo temi come un brivido di paura lungo la schiena, come se ancora fossi chiusa nel bagno a domandarti se un golfino di lana sarebbe bastato per tutta una notte. Perché ci sono dei giorni che finiscono all'alba sopra questo viadotto e ripensi a quell'uomo che t'ha lasciata incompiuta, per un’ora, una notte, un giorno, una vita, ma sei decisa a non dargliela vinta perché il rimorso lo possegga per sempre, e ti sporgi e ti cerchi immersa nel fango o sospesa sui tetti dove sei finita per sbaglio, appesa per sempre ad un cavo di luce.
 

   








Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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