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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
DAMMI LA REGOLA




 


Vorrei avere gli occhi di un uomo per vedermi più bella, per vederci le onde che fanno i capelli, il risucchio del mare ad ogni soffio di vento, che increspa la luce del sole al tramonto. Sotto questo imbrunire vorrei soltanto due mani, che sole sapessero dove andare a giocare, e correre lungo le pieghe accoglienti, cunicoli stretti ed autostrade di pelle, che le portino dove hanno bisogno d’andare.

Vorrei che non mi guardasse più in faccia, che chiaro dicesse che gli servo per altro, per consumarmi da dietro queste gambe gemelle, e l’anima tutta che risiede lì in mezzo. Che mi chiamasse con un nome che a caso pronuncia, sapendo benissimo che non mi chiamo Giuditta, perché null’altro vorrei che prestare il mio corpo, a chi sogna di stare in un altro accogliente, e scarica indomito liquido e rabbie, come fossi che sfogo della sua vita di giorno, uno sfiato che s’apre quando l’aria comprime, come ora che cerca e mi cerca davvero, nell’unico sbocco che gli offro e gli dono.

Ecco mi sento! Sono amore che bagna e vento che asciuga, seno abbondante che potrebbe sfamare, chiunque a quest’ora ha bisogno di ciuccio, zucchero e sale intinto nel miele. Ecco mi sento! Sono vacca al tramonto che urla impaziente, ad un’anima buona che la svuoti di latte, per sentirsi leggera più femmina dentro, che nutre ed allatta una parte del mondo. Ecco ti sento! Sei forza di maschio che arrossa la faccia, bocca che succhia e mi strappa le labbra, perché tu sei uomo e sai fino a dove, puoi spingerti in fondo e toccare il dolore.

Ti prego ora, non farmi aspettare, non farmi sentire ridicola e persa, perché se avessi criterio starei altrove, comunque lontano tra queste tue braccia. Porgimi quel guinzaglio che inutile giace, fammi sentire schiava di un sogno, per dare un verso a questo piacere, che cola che cala nei risvolti che stiri, e a ragione li cerchi per dargli una piega. E’ carne cruda di un’anima inquieta, polpa illibata attaccata alle ossa, è pelle che scarni con i denti e la bocca, e ne succhi la linfa il sangue la vita. Davvero vorrei trovarci un senso, l’equilibrio che manca e che sogno ogni notte, tra le corde di iuta che mi tengono ferma, ad aspettare un tuo bacio che non sappia d’affetto, ma inumidisca la parte di cui ho bisogno.

Ecco la sento, a capo d’ogni pensiero, la sento la forza che m’annienta e m’annulla, che dà consistenza a quest’anima in fiamme, di sterile brama se rimanesse che vuoto, d’urla di oca se non avesse il suo maschio. Tappami la bocca che parla, perché quello che dice non avrebbe alcun senso, vane parole che non dicono nulla, se non fosse per il fiato che caldo t’invoglia, se non fosse per quello che volgare ripeto. Tappami il resto per non sentire il risucchio, d’una risacca che strascica umido denso, ed impaziente t’aspetta come un mare di notte, nel punto preciso dove la luna si trucca.

Sarò pronta per essere il nulla? Sarò vinta per essere persa? Dammi la regola per non sentirmi più degna, il ruolo che spetta a chi cerca una guida, un angelo nero incontrato di sera, che t’invita e t’incurva nel suo mantello di seta. Dammi la regola, quel guinzaglio che giace, per essere degna per essere brava, una gatta di strada che impegna d’odore, e struscia il suo sesso ad ogni muro che incontra, davanti ad una coda che muta ed indiana, aspetta il suo turno ascoltando le urla. La vedo sai che m’assomiglia, che muovo e si muove come dentro uno specchio, quando faccio le prove e m’immagino bella, ed accorcio la gonna e scollo la maglia, e mi trucco le labbra e mi vedo di notte, che m’ingozzo d’amore con una maschera in faccia, perché quello che serve lo trovano al tatto, e non servono gli occhi per fare l’amore. Ti prego, non cercarmi domani, perché sarei come dici soltanto una madre, che porta i suoi bimbi a lezione di piano, una moglie in cucina che aspetta il suo uomo, che porge la fronte per un bacio “Tesoro”.

Adesso lo voglio davvero lo bramo, quel collare di pelle per essere docile, quel guinzaglio che guida i miei desideri profondi, la voglia di essere solo carne ai tuoi occhi, pelle alle mani che mi frugano dentro, dove sbocca l’essenza che si ramifica intorno, come corde invisibili che mi legano al letto. E non m’importa davvero se non esiste un collare, se il guinzaglio che cerco è nella mia mente, perché ti prego spogliami del ruolo ogni giorno più stretto, e dammi la regola per essere pronta, ad accettare il dolore purché abbia un senso, ad accettarmi indifesa per quella che sono, come una meta lontana dove non c’è alba domani, ma notte e che notte se sveglia t’aspetto, se stasera davvero mi vieni a cercare!
  

   






 



Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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Photo  Beatrice Morabito

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