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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
DIMENTICA




 


Vorrei che tu venissi da me senza passato, non truccarti gli occhi, il viso, le labbra, perché anche i colori hanno un ricordo, perché anche le forme riempiono un vuoto. Lascia il cappello sul tappeto all’ingresso, come fosse un cane che docile aspetta, lascia il vestito sopra il vaso di rame, come fosse un ombrello che anonimo giace.
Perché quando verrai s’alzerà il vento, e porterà pioggia come Dio la manda, e porterà una donna con l’anima accanto, pronta ad offrirla senza sapere per quanto, se cosciente non hai più misura del tempo, né ieri o domani ma solo il passaggio, d’istanti spaiati che non fanno una somma, ma nascono e muoiono senza avere ricordi.

Bussa alla porta e chiamami se non t’apro, potrei essere altrove ma giuro che vengo, bussa di nuovo nuda e impaziente, perché io sia certo che stai andando di fretta, che niente e nessuno potrà più fermarti.
Ti prego se vieni non dirmi che scappi, che stai fuggendo dall’ombra che ti segue da anni, non serve davvero se non ci sono ricordi, se dentro di te c’è soltanto rimbombo, e nel vuoto galleggi in cerca d’autore. Dimmi davvero che sei in cerca di mani, d’artista e padrone che modella la creta, d’acqua che bagna e sale che addensa, per essere vetro che prende la forma, per essere sabbia che si sgrana in un pugno.

Dimentica ogni cosa prima di dirmi che m’ami, perché l’amore non diventa ma nasce ogni volta, perché l’amore si secca tale e quale a una rosa, che vede al suo fianco un altro fiore sbocciare.
Dimentica gli uomini che t’hanno presa per sbaglio, in una spiaggia di notte accanto all’alta marea, con un fascio di luna che disegnava i contorni, d’un amore infantile che lasciava graffi sui seni.
Dimentica gli uomini, quelli più adulti, quelli convinta che t’illudevi d’amare, dentro stanze da letto ancora calde d’amore e quelle spoglie d’inverno come case di mare.

Dimentica il nome non serve se vieni, che senso avrebbe se ti chiamassi nel modo, come tanti di giorno che ti giuravano amore, come tanti di notte tra le ingiurie e le offese, che ti piaceva ridire per sentirti più persa, nelle volte da sola davanti allo specchio.
Perché tu eri bella ma bella davvero, con indosso il cappello che ricordati fuori, con indosso un vestito di fiori d’organza, che ad ogni soffio di vento faceva la ruota, e faceva le pieghe che sembravano onde, che gialle di seta le lasciavi posare, sulle tue gambe ribelli come fossero api che succhiavano nettare dalle parti del cuore.

Perché io t’ho vista che cercavi una guida, un filo di fiato che ti indicasse un verso, per asciugarti quegli occhi ancora pieni di pioggia, anche se fuori da giorni non cadevano gocce, ma scendevano secche solo code di stelle.
Mi hai chiesto un sorriso per poterti fidare, mi hai chiesto del fumo perché la notte era lunga, e perché le attese alle volte finiscono all’alba, ed era un gioco mi hai detto come fossi convinta, ma alla pioggia negli occhi non potevi mentire.
Era un gioco davvero lì seduta all’aperto, che aspettavi il destino con la faccia da uomo, e guardavi il cielo per la prossima stella, e guardavi l’asfalto con la testa pesante, di un cappello ripieno di uova ormai schiuse.

Ti ho preso la testa e guardato negli occhi, ti ho baciato la bocca per alleggerirti anche il cuore, ma dalle tue labbra usciva solo saliva, di pena e di strazio per chissà quale vuoto, per chissà quale uomo che illusa credevi, che da lì a breve l’avrebbe riempito.
Non ti ho chiesto per come, non ti ho detto per dove, ma solo che il tempo t’avrebbe permesso, di volare leggera senza pesi e zavorre, di venirmi a bussare dove ora t’aspetto. Perché l’amore che provi non ha bisogno di appigli, di reti da pesca che dividono i mari, di passati che lasciano strascichi eterni, come veli di spose gonfiati dal vento.

L'amore che provi è anima e pelle, è carne viva senza squarci e ferite, è saliva d'un bacio che non conosce lo sputo, il tuo tacco che scivola e non struscia di notte. L'amore che provi è un ventre di vacca, mammelle che danno solo latte e biscotti, e sanno di sale e le lasci leccare, come un ciuccio t'illudi intinto nel mare.

Ti prego se vieni muori e rinasci, perché non servi obbediente se ciò che poi cambia, sono solo dei fili che muovono l’anima, e la carne d’intorno sa d’odore vissuto. Anzi non dimenticare, lascia stare, non serve davvero se non ci sono ricordi, vieni e bussa forte alla porta, bussa e ribussa se per caso non sento, perché io capisca che tu sia sola, e dentro di te ci sia un ventre bambino, ancora non pronto per nutrire le uova, per essere madre di un passato che torna.

Ti prego vieni e lascia il cappello all’ingresso, come fosse un cane che docile aspetta, lascia il vestito sopra il vaso di rame, come fosse un ombrello che anonimo giace, perché non c’è altro modo per sentire l’amore, per sentire che dentro qualcosa rinasca, un anelito, un soffio che tenue spira, un effluvio di fiori come gemme di pesco, che nel gelido inverno esili stanno, ed ammiccano al sole, alla bella stagione.

Vieni ti prego bussa alla porta, lascia quei guanti sopra la porta, che neri di raso hanno raccolto il tuo pianto, asciugati al vento se per caso poi piove, lascia l’ombrello sul tappeto che scoli, e non truccarti gli occhi, il viso, le labbra, perché anche i colori hanno un ricordo, perché anche le forme riempiono un vuoto.









Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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Photo Nicolas Frenot

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