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Adamo Bencivenga
FILI DI RAFIA
Avevo un’amica che si chiamava Lucia, ornava borse di paglia ricamate con
rafia, a punti lontani ma sempre precisi, a punti vicini con metodo e
cura. Decorava corolle allungate di fiori, con le mani più stinte di
colori avvizziti, d’ossa e di vene in trasparenza alla luce, con le dita
intrecciate come fossero rafia, unite a traccia che sembrava un tuttuno.
Sento ancora l’odore intenso di rafia, simile a muffa, polveroso ed opaco,
simile a fieno fermentato di stalla, quando allargavo quei fili sottili,
che prendevo dal mazzo appeso alla sedia, e li lisciavo con cura e li
stendevo per bene, fino a farne una striscia sottile e perfetta.
E Lucia che parlava senza mai rifiatare, come fossi un’amica di cinquanta
anni più vecchia, mi raccontava le storie e i suoi vecchi vent’anni,
quando ancora ragazza era bella e regina, quanto il marito un’estate
l’avesse incantata, con un mandolino stonato sotto la luna, e una voce che
usciva dalle corde del cuore, e Lucia tra le stelle in piedi al balcone,
innamorata per sempre, strappata all’amore.
Io avevo le trecce nere fitte e lucenti, e lei denti gialli macchiati dal
tempo, e una debole crocchia infelice e sbiadita, come la rafia una volta
allargata, che odorava di stenti di miseria e di fame. Eppure parlava e
ancora sognava, di come sarebbe stata la vita, se il destino più buono
fosse stato diverso, se quello cattivo non si fosse accanito, su di lei e
il marito, tanto bravo davvero, tanto bravo a suonare, tanto bravo a far
tutto. Io la guardavo e mi chiedevo ogni volta, se era stata davvero bella
e regina, se davvero era stata un tempo bambina.
Cuoceva fagioli ed arrostiva salsicce, ricordo la stanza riempita di fumi,
ed io seduta l’ascoltavo attenta, ed allargavo la rafia e tendevo i fili,
mentre lei infilava, cuciva e parlava, ed io sognavo davanti ai suoi
occhi, mi davo da fare ed intanto crescevo.
Era lei la mia amica, Lucia la sola, perché nel paese non c’erano bimbe,
della stessa mia età o poco più grandi. E da lei correvo per trovare
rifugio, infilavo il portone nello stretto budello, che mandava miasmi
acri di fogna, quando in casa ogni volta c’era odore di botte, e ad alle
volte davvero non ce n’era il motivo, o almeno pensavo di non aver fatto
nulla di male. Così tutta di corsa facevo la strada, per rifugiarmi sicura
e trovare la tana, una culla di bimba, un buco di ragno, e far finta di
niente per non sentire i richiami, di mia madre infuriata che mi reclamava
strillando.
Mi sorrideva Lucia e mi faceva l’occhietto, sgranava i dentoni ed io mi
intrufolavo, tra le sue file di borse e i cappelli finiti, tra le sedie di
paglia e le pentole appese, a far confusione e sentirmi felice, a cantare
canzoni che non conoscevo. Crescevo ogni giorno e si rimpiccioliva la
stanza, ma le sedie spaiate erano sempre le stesse, come la rafia e i suoi
fili allungati, come l’odore acre di avanzi, come le storie sempre
diverse, per un marito che aveva creduto diverso, che tornava la sera
intorbidito di vino.
“Ah se il destino fosse stato diverso!” E lei sempre lì a cucire borse e
cappelli, a crescere figlie con fagioli e salsicce, a ripassare verdura
con aglio e cipolla. Ma a me piaceva quel cibo e lo guardavo golosa, Lucia
lo sapeva e mi faceva mangiare, e mi diceva che presto sarei diventata più
grande, e qualcuno di giorno m’avrebbe fatto la corte, e per qualcuno di
notte avrei sentito i grilli, le rane cantare fino all’alba sui colli.
Ora sono sicura che senza Lucia, tanto più lunghi sarebbero stati i miei
giorni, tanto i capelli che mi pettinava ogni giorno, la nonna ormai
morta, la mamma lontana, mio fratello per strada a giocare alla corsa, con
biglie e carretti e spade di legno. Sentivo i suoni dei giochi dei maschi,
per una bimba non c’erano giochi di strada, ma neanche nient’altro né
bambole o libri, o che so io garze e cerotti per giocare al dottore, ma
solo pensare guardando il paesaggio, o l’aratro precario tirato da buoi,
che lento e lontano risaliva al tramonto.
Ma Lucia, lei sola, era voce e sostanza, era storia e materia canzoni
intonate, nenie e lamenti già consumati dai tempi, come le sue dita con
quell’ago sicuro, fra i polpastrelli un ditale e la treccia di rafia.
Adesso ricordo come la intrecciava sicura, e come paziente m’insegnava a
forgiare, tenendo sottobraccio cannucce di paglia, e fare le trecce con
sette e più fili.
A sera quando la finestra scuriva, tornava il marito ed io fuggivo veloce,
lo vedevo salire e sapeva di fumo, tossiva catarro, sputi e bestemmie, con
il cappello sul viso e una bottiglia di vino. Non ho mai saputo cosa
facesse, ma di lui non avevo paura, neanche la volta quando da sola in
cucina, lui dava olio e coppale suoi legni tarlati. E mi ricordo la
faccia, e mi ricordo i respiri, quelle parole masticate dai denti, quando
d’un tratto abbassò i suoi occhi, tra le trecce di rafia e i cappelli già
pronti, e mi disse diretto: “Allarga le gambe!”
Io rimasi impietrita ma era un comando, e le bimbe per bene ubbidiscono
sempre. “Ah! Sei macchiata di sangue!” E si alzò dal suo posto per venirmi
vicino. D’un baleno rinserrai le mie fragili gambe, provando vergogna per
avere ubbidito, per non aver saputo con forza negarmi, ad un comando poi
strano e per giunta inatteso.
Ma quella voce diretta alle mie mutande, mi fece intuire che dovevo
scappare, e lui fece in tempo a sfiorarmi un braccio, e se non fossi stata
più lesta mi avrebbe afferrato, ma io in un lampo ero già sulle scale, con
la paura di essere grave e ferita, per via di quel dito che indicava il
mio sangue. Non dissi niente a nessuno, ma non oltrepassai più quel
portone, non dissi niente a nessuno, ma ogni sera allo specchio mi
guardavo attenta, pregando Gesù di non vedere quel sangue.
Fu così che scrissi quella cosa su un foglio, come se nel mio intimo
sentissi la colpa, ma mia zia lo trovò e lo disse a mia madre, e mia madre
a mio padre, e mio padre una sera mi chiese per quale ragione, volle
sapere ogni minimo gesto, e infuriato si mise la giacca e il cappello, e
andò in quella casa con i pugni già stretti, con il sangue negli occhi a
cantargliene quattro.
Quando infine tornò mi venne incontro, il suo viso disteso mi sorrise
persino, con quella bocca gemella che assomigliava alla mia, con quel
ghigno che ora vorrei rivedere, semmai fosse vivo, semmai mi chiamasse. Mi
prese sulle ginocchia e accarezzò i miei capelli, mi disse severo con un
filo di voce: “Bambina mia non ci proverà mai più, ma ogni cosa da oggi
dilla a tuo padre”.
Solo allora capii negli occhi di babbo, che io non avevo fatto niente di
male, che i grandi alle volte non hanno ragione, e non avevo nessuna colpa
per quelle mutande, nessuna davvero per quelle gambe aperte, quando rimasi
impietrita, ma era un comando, e le bimbe per bene ubbidiscono sempre.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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