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Adamo Bencivenga
Fuori copione
La donna è
bionda, straniera del Nord, ha l’aria smarrita, ma sta nella
parte, non conosce la lingua, non conosce quel posto, ma ha in
mano una mappa che ogni tanto consulta. La donna è in attesa,
vicino ai binari, ha un tailleur rosa antico stretto sui
fianchi, un paio di occhiali scuri da sole, sopra la testa per
fermare i capelli.
La stazione è Colonna, un paesino del Lazio, quattro case
arroccate sulla via Casilina, la stazione è un immenso prato
d’erbacce, in disuso da anni, sulla linea per Fiuggi. Distante
c’è un treno che fa anni Quaranta, distante uno scambio che
muore sul prato, un pilone e un cartello di ruggine e ferro, con
impresso un teschio e un avviso di morte.
La donna è bella, ha le mani curate, ha la pelle di chi, non
prende mai sole, ha un ombrello di tela, verde pistacchio, il
viso da russa con un ovale perfetto. Ogni tanto si ferma, ogni
tanto si volta, la borsa di pelle è stretta nel guanto, sa
d’odore lontano, di freddo incartato, di soldi stranieri a
mazzette da cento.
La donna è alta, ha il viso da spia, ogni tanto si desta, altre
si chiede, porta un anello all’anulare sinistro, della mano
scoperta che tiene l’ombrello. Lei sa perché è lì, per quale
motivo, e non è per vacanza e non è per amore, o una notte
italiana finita in un letto, ma intanto passeggia ed aspetta un
indizio.
L’uomo ha un’età all’incirca cinquanta, fa un gesto d’attore
esperto di razza, ha una ruga sul viso che pare un sorriso, ha
una voglia sul collo che pare uno sparo. Porta un cappello da
sbirro in borghese, lui sa perché è lì, per quale motivo, nella
mano sinistra ha una borsa di pelle, identica all’altra che
porta la donna.
L’uomo sa tutto e non serve parlare, la donna sa tutto e non
serve ascoltare, si salutano a gesti, camminano a fianco, tra
erba e cartacce e le borse di lato. Fanno tre passi studiati da
tempo, una striscia invisibile l’indirizza e li guida, sotto una
pensilina scura di legno, sullo sfondo quel treno fermo da anni.
Fanno tre passi fino al bar all’aperto, due sedie ed un tavolo
color giallo limone, lui sposta la sedia per farla sedere,
intanto si volta con fare sospetto. Seduti ora parlano ma non
sanno che dire, seduti ora stanno e contano il tempo, muovendo
la bocca, muovendo le mani, cercando nell’intimo l’enfasi
giusta.
Lo sbirro ha un accento stretto spagnolo, quasi argentino, quasi
cileno, la donna lo guarda, ma non conosce il suo nome, e non
serve capirlo, ma annuisce col capo. Lei muove le mani a gesti
d’attrice, raccoglie i capelli col pollice e il medio, a volte
sorride, altre gioca con l’ombra, altre lo fissa guardando nel
vuoto.
Sarà che è estate, il cinque d’agosto, con la luce bruciata
fuori dall’ombra, con un sole che spacca le traverse e le pietre
e una nube di mosche si sparge e s’addensa. Sarà che ora l’uomo
sussurra e sorride, sarà che la donna ripassa il rossetto, e
senza parlare accavalla le gambe, sembrano amanti, ma sono due
attori.
D’un tratto un rumore di ferraglia e motrice, d’un tratto un
alone di fumo bluastro, sbocca, sale e imbrunisce in una nuvola
densa, le borse gemelle appaiate nell’ombra. Lei sa che è un
segnale, che è solo finzione, indugia e ci pensa ripassando la
scena, deve alzarsi di scatto e passare ai saluti, scambiare la
borsa facendo attenzione.
Lei sa che non basta una stretta di mano, che serve un bacio
ardente di bocca, per non destare sospetti per chi ha visto la
scena, per chiunque per sbaglio sia dietro quel treno. Lo sbirro
ha intuito e si alza per primo, con fare latino la stringe e la
tocca, avvicina la bocca, ma fuori copione, tira fuori la lingua
e la bacia sul collo.
La donna ha un sussulto ma si lascia baciare, la donna ha un
singhiozzo di sorpreso stupore, poi decisa si slega
dall’abbraccio infernale, e prende la borsa facendo attenzione.
L’uomo la segue, com’era previsto, ma le parole che grida sono
ricordi sconnessi, di una notte passata, di un giorno trascorso,
di un qualcosa d’estraneo dal film e la storia.
La donna a disagio non sa cosa fare, ma lo sbirro insiste, grida
e l’afferra, poi alza le mani su quel viso da russa, e sono
insulti di promesse mancate, parole forti d’amore e di sesso,
raffiche nette che colpiscono il cuore, più di quanto possa fare
un fucile, appostato nell’ombra del treno per Fiuggi.
Perché nella trama com’era previsto, un agguato improvviso per
rubare il malloppo, da dietro quel treno spunta un sicario, che
mira a quell’uomo centrandolo al petto. Lo sbirro è spiazzato ma
alla fine decide, tra finzione e realtà di continuare la scena,
e com’era previsto per quel colpo a salve, fintamente s’accascia
sul binario ferito.
L’attrice è Agata, trent’anni a novembre, sposata al regista che
dirige la scena, e lei ora corre sul binario precaria, e si
toglie le scarpe e sfila il suo guanto… ma il regista geloso non
sta nella pelle, e d’impeto riscrive di nuovo il copione, e
riporta solerte ogni dettaglio, decidendo all’istante di
cambiare il finale.
Com’era previsto la donna si ferma, poi si volta, s’inchina e si
toglie gli occhiali, e inutilmente continua a recitare la parte,
penosamente si cala nella donna affranta, e ignara che sia
l’ultima scena com’era previsto nel vecchio copione, prende la
mano e accarezza la fronte, dell’attore che finge d’essere
morto. Ma non era previsto che un altro cecchino, spuntato dal
nulla sparasse di nuovo, e colpisse la donna e colpisse lo
sbirro, con proiettili veri diretti al cuore, e non era previsto
che su quegli occhi infedeli, si formasse una patina sottile di
ghiaccio, ed un rivolo rosso vero tingesse, a gocce il binario
morto per Fiuggi.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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