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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
Ho pensato che fosse meglio
lasciarsi senza un addio





 


Ho pensato che fosse meglio lasciarsi senza un addio. Non avrei avuto il coraggio di guardare il tuo viso e farmi vedere, di sicuro mi sarei nascosto dietro un pilastro per poi sentire il rumore del treno che parte e vederti salire aiutata dal capostazione con la gonna stretta e la valigia pesante, che smarrita domandi il posto e il vagone.

Ho pensato che fosse meglio lasciarsi senza un addio perché è triste vedere un treno che parte, è triste rimanere senza parole, ma poi quali delle tante già dette che rimangono dentro a girare nel vuoto, nell’infinita incertezza che mi lasci partendo, che ti lascio restando.

Che triste un treno che fischia, che triste un capotreno che grida, lui non sa che recide un amore, che se aspettasse ancora un secondo, magari spunterebbe un uomo col fiatone di corsa, ma poi non so se ci credi che vengo, non so se ci credo che arrivo, e vedo il tuo cappello sporgersi dal finestrino e grido più del capotreno, grido di non andare, che forse un altro giorno sarebbe bastato, per ricominciare laddove spunta un germoglio, da un ramo che secco sembrava già morto.

Ma tu lo sai che non è vero, mai lo farei… Testa dura, dicevi. Troppi giorni passati a parlare di me, di te, delle nostre distanze. Siamo stati bravi a riempire quei vuoti con le nostre incomprensioni. E poi perché dovrei vederti per l’ultima volta? A che serve, che vale? Dirti riproviamo, dirti che ti amo. E tu che fai scendi o rimani? Se scendi ci sazieremmo di promesse, vuote e vane come le nostre distanze, come le altre a chiederci scusa, a dire “Hai ragione!”

Ho pensato che fosse meglio lasciarsi senza un addio. Perché è triste una donna su un treno, è triste il suo cappello che sporge, un viso che cerca, la gonna stretta e la valigia pesante nel dubbio perenne del fare e non fare, nel dubbio insistente di aver preso ogni cosa, e non aver scordato nemmeno un indizio, già è patetico ricordare!

Chissà dove arriva quel treno, chissà se c’è una cugina ad aspettarti? Un uomo ti ho chiesto, al mare mi hai risposto, ma mi hai lasciato nel dubbio, una donna ti ho detto, ma mi hai lasciato a pensare. Già, che senso può avere saperlo nella finita certezza di averti perso per sempre. E sempre non è oggi e né domani, non è tra un mese o un anno, sempre è sempre mi hai detto. Che triste un treno che fischia, che triste una donna da sola, un uomo con gli occhi che cerca, tutta la sua vita dentro un abito scuro.

Certo che c’è stata tempesta, tuoni e lampi d’amore e follia, quante volte ho sbattuto la porta, quante altre hai aspettato il mattino, ma ora sei tu che vai e questa stanza senza il tuo odore è una stanza qualunque di muri e di crepe, d’un lavandino che goccia e spacca il secondo, d’una finestra aperta sui tetti bagnati, su una pioggia fitta e lenta che non smette da un’ora. Chissà se hai portato l’ombrello e chissà perché piove sempre in questi momenti.

Di sicuro hai dimenticato l’impermeabile, lo vedo, è lì appeso al muro. Porti il tailleur grigio fumo che abbiamo comprato l’anno scorso a Firenze, lo ricordi vero? Ho voluto che lo mettessi proprio quella sera, ricordo ancora il ristorante, una bettola d’arte a due passi dal Duomo, e gli sguardi degli uomini che ti facevano preda, ti facevano bella d’un sogno lontano, dove io non mi sono mai reso conto di stare.

Hai dimenticato il portacipria sul letto, ora è lì inutile, non ha senso e non appartiene, come me in fondo che giaccio sul letto e non t’ho voluto accompagnare. Ma ti seguo sai, passo per passo, per grate e tombini dove s’infilano i tacchi, per marciapiedi sconnessi e cornicioni bucati di questa città troppo breve per raggiungerti in fretta, prima della stazione, prima che parta, ma il rumore dei tuoi tacchi si confonde con la goccia del lavandino, con la pioggia di fuori, ti perdo e faccio fatica a inseguirti, e mi domando quanto tempo manca ancora o se hai già preso quel treno, che triste un treno che fischia, che triste una donna da sola.

Mio amore, mio dolce meraviglioso amore, dove stai fuggendo? So tutto di te, delle tue intimità, delle tue bugie, delle tue paure puntuali di notte, delle tue voglie, di come fai l’amore. So tutto di te. Delle ore nel letto quando in silenzio piangevi senza motivo, almeno pensavo, e poi ti voltavi e spegnevi la luce, che poi non erano ore né giorni ed erano mesi e mi dicevi sicura: “Tanto poi passa, certo che passa!”

Hai avuto degli amanti, hai avuto delle occasioni, e poi la notte m’abbracciavi dentro questa culla calda, questo letto mai rifatto. Hai avuto un grande amore, dove ora temo che tu vada, al mare mi hai detto, chissà se ci sei rimasta in contatto, chissà se lì ora piove, chissà se da qualche parte, in qualche straccio di biglietto hai conservato numero ed indirizzo. E’ inutile cercarlo perché se davvero ci stai andando è impresso nella tua mente, un’ancora di salvataggio, una spina dentro il cuore.

Ho avuto dei ripensamenti, delle puttane a poco prezzo per passare un po’ di tempo e sentirmi ancora vivo. Come quella volta a Parigi che passeggiavo lungo la Senna. Ero triste sai, il nostro solito litigio ed avevo sbattuto la porta.  Credevo davvero che fosse finita e vidi lei addosso ad un albero che sboccava parole miste a vapore, fumo e bestemmie in un dialetto del Sud, non mi aveva mai visto da quelle parti, e poi ero italiano, ma ammansii i suoi indugi raddoppiandole il prezzo, che il suo corpo di tisi e carta velina non avrebbe mai meritato.

Tutto compreso. Come gli occhi della padrona della camera che ne aveva viste di belle, di giorno e di notte e di tutti i colori, ma una puttana che sale seguita dal cliente lascia sempre un sapore di amore incompiuto, di dolore rappreso. Tutto compreso. Come me che volevo vendicarmi e sentirmi utile e fiero di passare una notte lontano da te.

Tutto compreso. Come i graffiti d’uccelli sulle pareti scrostate, con l’odore di muffa che corre sul muro, lungo la crepa che muore al soffitto come cipria da scena che carica il viso e segue le rughe e si spacca nei solchi. Tutto compreso con la puttana nel letto che mi domandava che c’è di bello da fare, allargare le cosce o spalancare dell’altro, o rimanere in silenzio accanto nel letto, accarezzarmi la fronte e sussurrarmi amore. Perché aveva capito sai.

Mio amore, mio dolce meraviglioso amore, ce ne vuole di coraggio a diventare adulti, ce ne vuole di paura per rimanere sempre accanto, come adesso a sperare che tu apra quella porta, e mi stringa e ti disperi ed io urlo il tuo nome come mai mi è successo. Oppure solo che ritorni per prendere l’ombrello, ma perderesti poi il treno… mio grande dolce meraviglioso amore, ma poi a cosa servirebbe, se non a calmarci per due ore, per sentire quei tuoi baci fragili e bollenti, per sentire che il mio cuore ogni tanto si riposa.

Non abbiamo mai avuto una casa, una veranda per abbracciarci quando piove, mai due stanze per chiamarti col tuo nome, un cane per asciugarlo vicino ad un camino. Solo alberghi, tanti alberghi ed ora non mi rimane che questa pensione, che tra poco dovrò lasciare. Ma se vado e tu poi ci ripensi? Lascerò alla padrona il mio nuovo indirizzo. Chissà se lo conserva e poi per quanto tempo. Ma è vecchia e se poi muore? Se tu ci ripensi tra tre anni, quattro o tutto il tempo che ti serve per dimenticare?

Mio amore, grande meraviglioso amore, mi hai chiesto scusa tante volte, t’ho chiesto amore senza motivo, per non arrenderci a noi stessi, alle miserie d’aver ragione, alle paure d’avere torto. Amore mio, mio dolce meraviglioso amore, ti amo ancora sai, ti amo tanto. Ma a cosa serve? Tanto tu non puoi sapere, se grido non t’arriva, ti rimane solo la mia faccia, quella dura prima di andare. Mi hai detto un timoroso addio, ti ho lasciato il mio silenzio, e quella foglia morta che conservi nel tuo libro.

Già, Morte a Venezia, ti ho visto sai che lo mettevi nella borsa. Morte a Venezia, così ci siamo conosciuti. Dio quanto eri bella seduta in quel bar davanti alla Fenice, portavi una gonna gialla e i sandali color corda, e poi le scale e i ponti, le tue foto ed i miei spartiti, tuo marito e le mie delusioni. Tutto quel tempo a guardarci negli occhi. Le parole sono inutili, dicevi. Che serve ora ricordare? Le tue mostre e i miei concerti, l’arte innanzitutto, letti e città sconosciuti, quel figlio mai voluto, i tuoi primi pentimenti.

E poi quelle notti passate a sfidarci, ero geloso sai, era un gioco ripetevi, ma sentivo i tuoi lamenti, ma mai l’avrei ammesso, mai avrei aperto quelle porte dei tanti, troppi treni… Ero io che volevo, eri tu che obbedivi. Già è patetico ricordare…

Ho pensato che fosse meglio lasciarsi senza un addio. Mi chiedo se faccio ancora in tempo, potrei trovare un taxi e venirti a cercare, potrei trovare una scusa, magari il portacipria, già il mio vizio di non cedere, di non ammettere a me stesso, che già mi manchi, Dio quanto mi manchi!

Mio amore, mio infinito amore, è triste un treno che fischia, una donna che parte, ma sono una testa dura, quante volte me lo hai detto? Ma sorridevi e m’abbracciavi, ora invece tu stai fuggendo. Ed è patetica una donna che parte, è più solo un uomo che arriva e davanti a sé solo un binario vuoto e un treno lontano che fischia. Che triste un treno che fischia…




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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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Photo  Natalia Ciobanu

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