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Adamo Bencivenga
Hotel Paradiso
La sera in cui ti ho chiesto di fare l'amore
La sera in cui ti ho chiesto di fare l’amore, c’era ancora un
tramonto che t’arrossava le scarpe, c’era un disco di Nada che
mi ricordava l’infanzia, e dei riflessi negli occhi che ci
accecavano entrambi, di rena e passione, di polvere e sabbia,
d’odore di pesce che arrivava dal mare. La sera in cui ti ho
chiesto di fare l’amore, sopra il soffitto un ventilatore a
pale, che lento arrancava e faceva rumore, e pigro soffiava un
alito caldo, sopra il bancone, sui bicchieri riversi, su un
panno di lino che s’arricciava a quel soffio.
La sera in cui ti ho chiesto di fare l’amore, era il trenta di
agosto, la festa del Santo, e lontano dai vetri s’intravedevano
fiochi, riverberi gialli dei fuochi sul mare. Non c’erano
clienti nella pensione, solo due inglesi già andati a dormire, e
tutto intorno si respirava la coda, della bella stagione che si
schiudeva all’autunno. Solo una lampada che faceva penombra,
sulle sedie di vimini allineate ai divani, sulla tua spilla che
ti fermava i capelli, e ti dava un sapore di amore non colto.
La sera in cui ti ho chiesto di fare l’amore, stavamo ballando e ti
stringevo le mani, e poi aspettavo la tua stretta di intesa,
come se le parole fossero state di troppo. Cercavo un contatto e
ti premevo le gambe, mi sarei accontentato di sentirti in quel
modo, fino a quando il rumore che fa solo il silenzio, m’avesse
convinto che eri già pronta. Sapevi di madre, di donna matura,
la stessa negli anni che mi era mancata, nella mia infanzia solo
un letto disfatto, che odorava di birra, di sesso e mestiere.
La sera in cui ti ho chiesto di fare l’amore, è finita la musica
senza renderci conto, e la radio ha mandato il bollettino del
mare, e le notizie del tempo e del traffico intenso. Ed io ero
lì a ringraziare il destino, per averti incontrato in quel
giorno di pioggia, e dopo due anni ci aveva permesso, di
trascorrere insieme almeno una notte. Tuo marito chiamava per
avere notizie, e tu paziente gli rispondevi ogni volta, ti
credeva affranta per una nipote lontana, morta di parto all’età
di trent’anni.
La sera in cui ti ho chiesto di fare l’amore, avevamo previsto ogni
minima cosa, compresa la scusa, il vestito, le scarpe, il tuo
trucco abbondante per colorare la notte, per sentirti un’amante,
per sentirti più bella, al mio sguardo che muto apprezzava il
dettaglio, la riga alla calza, l’altezza del tacco, la gonna
svasata sopra il ginocchio. Tu fissavi le scale che portavano ai
piani, come per dire che non mancava poi tanto, ed io ti
stringevo sussurrandoti amore, cercando in un bacio la forza e
il coraggio.
La sera in cui ti ho chiesto di fare l’amore, l’uomo in cravatta è
arrivato in orario, stringeva nella mano un mazzo di rose,
nell’altra un cappello di paglia leggera, e portava dei guanti
ed aveva la barba, molto più grigia rispetto alla foto. Sapeva
di un vago sapore d’antico, poi si è seduto ed io ho spento le
insegne, e gli ho portato un caffè corretto alla grappa, e
dell’acqua ghiacciata lievemente frizzante. Tu hai preso le rose
e le hai messe in un vaso, ringraziando quell’uomo con un
sorriso cortese, poi le hai annusate per cercare nel fondo, il
gusto dolciastro del tradimento.
La sera in cui ti ho chiesto di fare l’amore, ti ho baciato la
spalla sfiorandola appena, ma ho notato una noia o almeno mi è
parsa, come per dire che un mio bacio a quel punto, poteva
soltanto sgualcire il tuo trucco, ed invece il mio compito ora
era diverso, versare dell’acqua nel vaso cinese, in modo che le
rose rimanessero fresche. Perché tu eri oltre e ti guardavi allo
specchio, premurosa che il tutto fosse perfetto, il ciondolo
d’oro che pendeva tra il seno, la punta di rosso che vellutava
le labbra.
La sera in cui ti ho chiesto di fare l’amore, una lama di vento ha
gonfiato la tenda, e in quel soffio ho colto, distante un
presagio, come poco prima, quella noia sul viso. Ho cercato
risposte in fondo ai tuoi occhi, ho trovato la tua mano che mi
asciugava la fronte, e poi il tuo indice, che premeva il
rossetto, schiuso in un sorriso, mi hai fatto cenno di tacere.
Dio com’eri bella, fragrante come un fiore, bella come un ramo
quando gemma al primo sole, il tuo seno invitante si stagliava
in penombra, e tutto il resto un contorno di vetrate sopra il
mare.
La sera in cui ti ho chiesto di fare l’amore, l’uomo ora in piedi
aspettava paziente, di pagare il dovuto compresa la grappa e il
bicchiere dell’acqua lievemente frizzante. Ed io a torto ci ho
aggiunto la notte, il giusto compenso per mantenere distanze,
esattamente nel modo in cui era stato previsto, nel vederti
salire ondeggiando sui tacchi, nel vederti sparire dentro quel
Paradiso, aspettando quell'uomo che avrebbe cinto i tuoi
fianchi, assaporando il fruscio della seta che a spacchi,
ammiccava e scopriva le tue gambe gemelle.
La sera in cui ti ho chiesto di fare l’amore, dietro il bancone
guardavo la notte, la radio mandava la canzone di Nada, e
distante ho sentito un rumore di chiavi, la porta aprirsi della
numero sette, immaginandoti ora seduta in attesa, sulle lenzuola
di lino che avrebbero accolto, quel gioco dipinto in tanti
giorni d’attesa. Sapevamo tutti e due che sarebbe successo, dopo
anni d’amore ad immaginare quel sogno, sentendo le ossa
infiammarsi al piacere, mentre un fitto dolore nutriva la
voglia.
La sera in cui ti ho chiesto di fare l’amore, era il trenta di
agosto e respiravo la coda, della bella stagione che si
schiudeva all’autunno, del tuo profumo fruttato che aleggiava
nell’aria. L’ uomo in cravatta ha pagato il conto, compresa la
notte senza battere ciglio, ma nei suoi occhi ho visto una luce
di pena, come per dire che non avevo capito. Con l’aria stanca
mi ha chiesto la stanza, facendomi notare il nome sul documento,
dicendomi che la vita non gioca a carte scoperte, ma a volte è
crudele, altre bizzarra, ringraziandomi di cuore per aver
ravvivato un rapporto, ormai morto e sepolto nella noia dei
giorni, come spesso succede tra moglie e marito.
Poi mi ha sorriso ed era contento… nessuna nipote era morta di
parto.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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Dmitry Trishin
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