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Adamo Bencivenga
Il cuoco di Salò
Ogni sera
la scruto da dietro la porta, dalla cucina quando
sparecchio, Dio mio è bellissima, un angelo azzurro,
ha i capelli di grano e gli occhi di menta, il
rossetto di fragola dal profumo di bosco, e un
ghigno d’antico e un tormento presente, di morti e
di bombe non tanto distanti, di sangue che scorre e
tinge di rosso, una guerra infinita, dura a morire,
che dicono avanzi lasciando tragedie, che dicono ora
dalle parti di Trento.
Ogni sera s’attarda e
mi chiede dell’acqua, ogni sera riprende il suo
incedere lento, aiutata dal corrimano di marmo
venato, quando sale le scale a piccoli passi, su
quei tacchi argentati in precario equilibrio. Mi
chiedo ogni volta come faccia ad andare, mentre
sento il frusciare di quelle stoffe di seta, come
fossero strascichi di risacche di mare o mazzi di
rose agitati dal vento.
Ecco, chiudo gli
occhi come un cane da guardia, per non perdere
nulla, neanche un frammento, per sentire il profumo
galleggiare nell’aria, sui lampadari a gocce, sulle
pareti di stoffa, per annusare quell’aria e
l’intorno che resta, in un misto d’aroma francese e
di donna, e sentire il rumore dei tacchi sul marmo,
come fosse un regalo quando chiude la porta.
La immagino ora sola dentro la stanza, ora nuda
imperiale che si ammira allo specchio, una forma
perfetta d’anfora antica, mentre l’abito scivola
sulla pelle di pesca, e leggero s’adagia e ad onde
si posa. E’ un’attrice fuggita dalle bombe di Roma,
una stellina di palco non ancora famosa, a volte si
ferma per un intero weekend, altre solo una notte se
la villa è deserta.
La immagino ora che
docile aspetta, un toc toc sulla porta da un
generale in divisa, uno dei tanti venuto a morire,
uno dei pochi ancora convinto, che l’idea sia eterna
e non si spenga la fiamma, fedele alla Patria, a
Dio, all’Onore, uno dei tanti in questa guerra
infinita, che aspetta il riscatto e sogna vendetta,
in questa villa tra i monti al di qua del confine,
sulla riva del lago dalla parte sbagliata.
La immagino ora distesa
sul letto, che accoglie la
preda e preda si dona, prona e supina maestra
d’amore, allieva alle volte nel gioco d’amore, come
fosse uno sfogo oppure un regalo, per tutta la notte
e giorni a venire. La immagino al mattino senza
pudore, quando copre il suo seno per scusa e
decenza, quando scende le scale struccata e lasciva,
e per colazione mi chiede del latte, e un caffè
ristretto purché svanisca il torpore.
Io la
chiamo madame, oppure signora, e le chiedo umilmente
cosa potrei cucinare per cena, anche se quest’acqua
non è acqua di mare, e i pesci di lago hanno un
forte sapore. Faccio salti mortali per cucinarli a
dovere, speziandoli al meglio con quello che trovo,
perché in guerra c’è bisogno di tutti, di
quindicenni sbarbati che vanno a morire, d’ufficiali
che a notte si lasciano andare, ma anche di un cuoco
e di belle signore, che sfamano voglie di gola e
piacere.
Mi siedo al suo tavolo e prendo
dell’acqua, anche se ad un cuoco non sarebbe
permesso, ma la guerra alle volte azzera etichette,
e un cuoco vale quanto un’attrice venuta da Roma,
perché non c’è differenza quando dietro a quei
monti, si sentono colpi portati dal vento, si vedono
lampi, barlumi di fuoco, e lei dice che sono
banditi, e io penso che siano americani, e mi chiedo
che faccia faranno a trovarmi in cucina e se
vorranno qualcosa per pranzo o per cena.
Lei
mi guarda e sorride, è sola stamattina, tutti gli
uomini sono andati prima dell’alba, dicono che sia
una banale missione, altri una resa per i libri di
storia, di lustri scarponi che vanno verso la fine,
di stellette che ora valgono meno di niente. Lei mi
guarda e scuote la testa, forse stanotte ha intuito
qualcosa, e si chiede cosa farà questa stasera, le
linee sono tutte interrotte, i treni che partono
vanno verso il confine e il telefono ormai non
funziona da giorni.
La guardo è bellissima,
ha gli occhi di menta, i capelli di grano raccolti
alla nuca, e mi chiedo quanto sappia l'inglese e se
serve al mestiere, e quante parole e quanti
aggettivi, sospirati nel letto per una notte
d’amore. E mi chiedo come un’attrice venuta da Roma,
possa accontentarsi di un semplice cuoco, e se mai
una notte abbia dormito da sola, e quante storie
potrei raccontarle, e quanti pesci potrei cucinare,
in questa bella giornata di sole, in questo posto
tra i monti sulla riva del lago, in questa villa
deserta ormai senza più storia, nelle stanze di
sopra dove si fa l’amore, e all’alba si scende e a
volte si muore, già, dalla parte sbagliata si muore.
|
l presente racconto è liberamente ispirato da “Il cuoco
di Salò” di Francesco De Gregori
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RACCONTI DI ADAMO BENCIVENGA
Photo
Nikki Harrison
Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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