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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
Il rapinatore


 

Probabilmente uscì lasciando la sua casa in penombra, probabilmente era inverno e faceva molto freddo, anche se la storia qui non entra nei dettagli, ma a noi fa piacere vederlo che cammina, lungo il fiume di mattina per mano al suo destino, perché fa romantico e fa noir osservarlo quando avanza, con il cappello a tre quarti e l’impermeabile sbiadito, il bavero alzato che fa tanto poliziotto e quel ghigno tanto triste che solca la sua faccia, da cane bastonato davanti a un precipizio che si volta e sconsolato guarda quella casa,  con l’intonaco scrostato e la facciata fatiscente. Perché lui abita in affitto in una dependance al piano terra, di una villetta a due piani di primo novecento, ma non è antica, solo tanto vecchia, vicino al Flaminio, a due passi dove il fiume, fa l’ansa e fa la curva e San Pietro si rispecchia, dove Roma si fa il trucco e si fa bella per la foto, e si mette in posa da modella, dipinta dei colori, densi di un tramonto. Ma ora è l’alba e probabilmente attraversò la strada vuota, probabilmente si fermò lungo il muretto e si lasciò rapire dall’acqua e dal riflesso, forse da un gabbiano che adocchia la sua preda, forse da una puttana che spenna un altro pollo.

Probabilmente l’acqua è sporca di un colore verde marcio, ma lui l’immaginò limpida e trasparente e vide i pesci e vide il mare, la flora variopinta tropicale, ma fu un attimo soltanto, poi guardò l’ora su un display e decise che era tardi e doveva affrettarsi. Perché oggi era il suo giorno e doveva fare attenzione, uno di quei giorni che sentiva dentro e fuori, e sapeva quanto la sua vita fosse appesa ad un filo e per questo ora s’affrettava e per questo doveva andare, arrivare in banca secondo il suo progetto, qualche minuto prima dell’ora di apertura.

Probabilmente indugiò davanti all’edicola di giornali, poi con l’unico euro in suo possesso, decise di comprare il Corriere della Sera, perché tutto aveva un senso, tutto un obiettivo, un piccolo tassello di un piano stabilito, come il bavero alzato, come il giornale sotto il braccio, il cappello a tre quarti, la barba appena incolta perché ci piace ricordarlo che cammina come un eroe, misterioso e solitario nel bel mezzo degli anni trenta, anche se siamo molto dopo, agli inizi del duemila, o in un giorno senza senso alla fine di un bel sogno.

Probabilmente proseguì guardandosi attorno, controllò nella tasca destra la sua Beretta Parabellum, era una M9, la pistola d’ordinanza, perché lui era un poliziotto e si chiese il motivo, per cui non fosse in servizio, perché non fosse in divisa. Perché sotto il trench probabilmente, indossava un maglione nero a collo alto e dei jeans stretti con la piega e il risvolto, nella mano sinistra la borsa con gli attrezzi, nella destra il giornale, come abbiamo detto. Perché probabilmente continuò a camminare, evitando i tombini di ferro arrugginito, su quel lato destro rasente il muretto, dove i piccioni sopra i rami facevano i bisogni, su una parvenza scivolosa di marciapiede screpolato.

Probabilmente si diresse verso Ponte Milvio o quanto meno in quella direzione, lasciandosi alle spalle la cupola ed il fiume, uno strascico pesante di dubbi e di pensieri. Perché pensò a suo figlio che a quell’ora probabilmente faceva colazione, sotto lo sguardo premuroso di Marica l’ucraina, la bionda che suo figlio riconosceva come madre. Sì perché, probabilmente sua moglie era già morta o mancava qualche giorno, dopo una straziante, penosa agonia, per via di quel banale e maledetto incidente,  lei sulle strisce pedonali, il pirata a folle corsa. Probabilmente ora sarebbe ancora viva e stasera l’avrebbe vista, forse riabbracciata, ma lui si diede alla fuga e lei perse molto sangue, lì sul quel marciapiede prima che fosse notte, prima che i soccorsi decretassero la fine.

Probabilmente non era per quell’assenza, quel vuoto assurdo ed insensato, ma quanto per suo figlio che ogni giorno come una goccia, chiedeva sue notizie, ed i perché ed i come mai, e quando poi ritorna, quando viene la mia mamma e quanto dura la vacanza. Probabilmente era in pena, in preda allo sconforto, cercò di sollevarsi pensando alla sera prima, che era stata anche peggiore, ma oggi era un altro giorno, uno dei quei giorni che non puoi dimenticare, per questo s’era alzato presto, per questo doveva andare. Allora si guardò nel riflesso di una vetrina e vide la sua faccia tra scarpe e stivali, e s’accorse delle rughe nonostante l’ombra piena, solo ora gli venne in mente quale fosse il motivo per cui non era in servizio e non portasse il basco nero, la pistola bene in vista, la cintura e la fondina. Vide chiaramente passo dopo passo, quanto la sua vita fosse precipitata, toccò con mano la tristezza che lo portò lontano dal lavoro, così distante che i suoi capi dopo qualche anno, decisero di salutarlo con una pacca sulle spalle.

Probabilmente non accese il telefonino, erano giorni che giaceva morto ormai nella sua tasca, non avrebbe saputo cosa dire, ai tanti che reclamavano un suo impegno, scaduto e riscaduto, reiterato tante volte. Si sorprese a fischiettare un motivo, Il vento caldo dell’estate, si chiese per quale diavolo di ragione, s’annidasse nella mente, forse per quella vacanza a Sottomarina quando conobbe sua  moglie, oppure anni dopo quando nacque suo figlio.

Probabilmente era vicino alla sua meta, vide la banca dall’altro lato ed affrettò i propri passi, quando attraversò la strada e si accorse di un piccolo fastidio, tra le costole ed il cuore, tra la vita e la morte, ma ormai era lì davanti ed aveva altro a cui pensare, ma ormai aveva quasi cinquant’anni e non ci fece caso quando distante salutò l’impiegato in cravatta, perché probabilmente era lunedì ed aveva gli argomenti sufficienti per trattenersi qualche minuto e parlare di tecnica e tattica, la loro squadra aveva perso per un rigore sacrosanto, poi entrarono insieme dal varco di servizio.

Probabilmente appena dentro controllò la sua Beretta, sentì quel rigonfio confortevole e sicuro, ma con grande sorpresa data l’ora, nel grande salone c’era ressa e c’era fila,  guardò i volti e le uscite di sicurezza, i pensionati e le casalinghe pazientemente in coda. Probabilmente guardò le casse e il vigilante all’esterno, un’impiegata molto piacente che si era alzata dal suo posto, notò il rumore dei suoi tacchi, la seguì con lo sguardo e con l’orecchio, aveva un foglio ed una penna  e chiamava il direttore.

Probabilmente in quel momento gli venne in mente tutta la sua vita, flash, lampi e fotogrammi, quando da ragazzo pensava di fare l’architetto, poi quella ragazza dagli occhi grandi, gialli e nocciola, il suo primo giorno di lavoro, la sua prima scorta, sua madre il giorno delle nozze, suo figlio nella culla rosa perché l’ecografia aveva sbagliato il sesso. Probabilmente ricordò anche il funerale, quel loculo su in alto, quei fiori finti appassiti,  la grande depressione e i giorni del gran freddo, il colloquio con il capo e poi il licenziamento.

Probabilmente tutto questo avvenne quando era in coda, attimi e frammenti aspettando il da farsi, ripassando a mente i suoi appuntamenti, perché guardò l’ora e guardò le telecamere, controllò nella borsa l’attrezzatura, era tutto a posto ed era tardi, sudava e diede la colpa al maglione a collo alto. Poi si esasperò per la lentezza del cassiere, davanti a sé contò esattamente 15 persone, guardò l’impiegata che sorrideva al direttore, la luce al neon da terzo grado come in questura.

Probabilmente vide tutto questo e forse altro ancora, allora decise di desistere senza alcun ripensamento, il vigilante gli sorrise aprendogli il varco, prelevò al bancomat quello esterno, cento euro per la spesa e un pensierino per suo figlio, prese la strada in discesa verso Tor di Quinto, ora poteva andare senza fretta al poligono di tiro, alle dieci la prova più importante di tiro con bersaglio fisso, ultimo test di un concorso per un nuovo posto di lavoro. Probabilmente…

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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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Photo   Dmitry Popov

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