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Adamo Bencivenga
LA DONNA DI CUORI
Photo Anna Koudella
Aspetto tutto il giorno
che venga poi sera, seduto ai tavolini di una
bettola a riva, lungo il fiume che scorre
imbrunito dall’ombra, di salici fitti attirati
dall’acqua. Sotto una veranda di canne e di
paglia, un cane a tre zampe s’accuccia e mi
guarda, ed ordino un tè in un bicchiere di
vetro, al gusto di zenzero con una foglia di
menta. Aspetto tutto il giorno che venga poi
sera, il vento che soffia mi colora la giacca,
che bianca si grana gialla di sabbia, e vela le
sedie e vela la paglia, e lascia uno strato di
patina fitta. Poco più in là un cantiere di
barche, un capannone in disuso di cera e sapone,
una ruota di legno che gira e s’arresta, e
scricchiola a tempo sospinta dall’acqua. Ogni
tanto qualcuno, ogni tanto una barca che
trasporta cassette di carne d’agnello, e
s’accosta alla sponda per uno spicchio di ombra,
per gridare al padrone della bettola a riva, che
la merce che vende è buona ed è fresca. Il
padrone è siriano ed ha in mano uno straccio, ci
scaccia le mosche e ci pulisce i bicchieri, ha
un taglio sul mento che sembra un sorriso e
maledice sua moglie che da mesi non vede, perché
qui servirebbe per pulire e lavare, per cucinare
l’agnello da servire i clienti, e giura e
stragiura che non è caduta nell’acqua, ma è
fuggita un mattino d’estate e d’arsura, col
guardiano sciancato del cantiere di barche.
Mi porge il giornale e mi parla di calcio, si
scusa ogni volta se è andato poi oltre, se
gradisco una foglia o un ciuffo di menta, se lo
zenzero fresco ha poco sapore. Poi si congeda
discreto e mi lascia da solo, perché lui lo sa
che ogni sera a quest’ora, guardo sul ponte e
guardo la strada, ed aspetto impaziente le
cinque precise. Lui lo sa e si precipita in
fretta, quando lo chiamo con un cenno di mano,
ed ordino un tè in tazza bollente, con una punta
di miele e due gocce di latte. Perché lei non
gradisce il sapore di zenzero e menta, lo trova
maschio ed aspro con un gusto deciso, che secca
il palato e infiamma la bocca, e lascia un
ricordo di pepe e d’ortica. Puntuale ogni
giorno la vedo arrivare, la riconosco lontano
dal rumore dei tacchi, ogni passo un secondo che
tolgo all’attesa, ogni passo un frammento
ingrandito ai miei occhi. Porta un cappello di
raso e di panno, una gonna svasata poco sotto il
ginocchio, e come ogni giorno è vestita di nero,
da vedova triste o da chi ha perso un parente.
Mi saluta cortese e toglie gli occhiali, che non
sono da sole e non sono da vista, ma un vezzo di
donna che svela a chi vuole, il colore degli
occhi e il tono d’ombretto. Come ogni giorno si
mette seduta, lontana a due metri per mantenere
distanze, vicina a due metri per parlare di
niente e mentre si siede accavalla le gambe, e
noto la calza e noto la riga, la trama allentata
sotto il ginocchio, un filo tirato che sa di
vissuto.
Il padrone la guarda ed io sono
geloso, le porge la tazza e scaccia le mosche,
le dice qualcosa che io non capisco, ma lei si
volta e gentile ringrazia. Mi chiama ingegnere
come se davvero lo fossi, mi parla del tempo,
del caldo asfissiante, di questa sabbia che fine
secca la pelle, e ci vorrebbe una pioggia per
modo di dire. Ed alle volte ci rido, alle volte
rispondo, mentre la guardo socchiudere gli
occhi, e con fare studiato avvicina le labbra, e
stringe e poi marchia la tazza bollente. La
vedo, la guardo e rimango estasiato, da quanta
grazia ci mette e quanta ne leva, col cappello
di raso e le unghie perfette, quando poggia la
tazza e si raccoglie i capelli, quando mescola e
taglia il mazzo di carte che d’incanto è
spuntato dalla borsa di pelle. Sono quaranta
perché non servono tutte, se il gioco consiste
nel tentare la sorte, ed affidarsi ad una donna
che conosce il mestiere, che gioca d’azzardo ed
offre se stessa. Sono quaranta, ma una sola poi
vale, mentre le adagia evitando le mosche, e fa
un cerchio ed un giro e le copre con altre,
tutt’intorno alla tazza che fuma bollente.
Finisce di bere e si rimarca le labbra,
mentre scosta la sedia ed accavalla le gambe,
poi mi sorride e m’invita cortese, per un giro
di carte, per tentare la sorte. Alle volte ci
credo, alle volte ci penso, che basterebbe
osservarla per sapere poi dove, la mette e la
leva e confonde i miei occhi, tra regine di
fiori ed assi di picche, tra tutte le altre la
donna di cuori, perché basta lei sola per
sentire il sapore, del velluto del seno che
mostra ed ostenta, di quelle labbra che rosse ha
scaldato al vapore, che sanno di tè con una
punta di miele, che sanno di donna, di femmina
vera. Alle volte m’illudo, alle volte ci spero,
quando deciso punto una carta, che sia quella
davvero che apre le porte, l’ultima in fondo
vicino al suo cuore.
Sono mesi che
aspetto mentre lentamente le scopre, ad una ad
una iniziando dal fondo del mazzo, e tiro fuori
i miei soldi sicuro stavolta, che il premio che
vinco è a portata di mano. Ma il dubbio mi viene
perché mai è successo, perché lei è abile a
mischiare le carte, a farle sparire se per caso
la sorte, ha deciso stasera di darmi una mano.
Tanto lo so ma punto lo stesso, e lei alza la
posta tintinnando i suoi cerchi, ammiccando quel
poco del vedo e non vedo, scoprendo d’un niente,
slacciando un bottone.
Il padrone siriano
s’avvicina discreto, è questo è il momento e si
sente nell’aria, il vento che soffia m’asciuga
il sudore, la ruota che scricchiola si muove e
si sente, il venditore di carne ha smesso
d’urlare. Tutt’intorno un frammento d’attesa che
sale, il cuore che a mille batte e ribatte, e
l’unghia che alza lentamente la carta, il cane a
tre zampe s’è destato di colpo. Lei mi
sorride ha già visto il colore, mi fissa negli
occhi e guarda la carta, e da ciò che si vede un
puntino di niente, è senz’altro una donna di
cuori o di quadri. Le trema la mano ed io non
sto nella pelle, non può essere vero che in un
giorno normale, col sole che scotta e la sabbia
che grana, la sorte ha deciso di venirmi a
trovare, di darmi in regalo la grazia e la
carne, di farmene dono dentro questo tramonto.
Guardo la carta e guardo le mani,
stasera mi sembra che sia tutto più bello,
l’industria in disuso è una distesa di viole, il
cane che corre abbaia contento. Guardo la carta
e guardo le mani, guardo di fuori e guardo il
siriano, ed incontro i suoi occhi che non hanno
bisogno, di dirmi quanto vicina sia passata la
sorte. La vedo si alza e ripone le carte,
dentro un astuccio di legno laccato, e mentre
raddrizza la riga e la calza, mi lancia un
sorriso per domani alle cinque. Per un attimo
vedo un velo d’amaro, dentro quegli occhi come
dirmi “Peccato!”, come fosse stato davvero il
destino, a guidare la mano e non viceversa.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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