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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
La donna sotto i portici
e l'ufficiale in frac



 


 
Probabilmente uscì, malinconico ed assente, lasciando dietro sé la foto in bianco e nero, un ritaglio di giornale incorniciato sul comò, un viso di donna sorridente, bello e vero come il pane, una cascata di capelli, a ricci e spighe come il grano. Probabilmente uscì, probabilmente era notte, di certo un cielo nero minacciava a temporale, probabilmente Roma, il dodici di giugno, di un’estate alle porte, di fine novecento.

Probabilmente errò, come ormai tutte le notti, galleggiando nel suo sogno, in quel tenero delirio, nella speranza mai doma di rivedere quella donna. Sicuramente la cercò nei locali lungo il fiume, nei battelli dove a sera, qualcuno canta l’uomo in frac: “Bonne nuit, bonne nuit, buonanotte, va dicendo ad ogni cosa, ai fanali illuminati, ad un gatto innamorato, che randagio se ne va...” Probabilmente era freddo o forse già pioveva, e lui si riparò lungo il viale alla stazione, col suo incedere elegante e l’aspetto trasognato, dove i tigli fanno i fiori, dove sbocciano gli amori.

Finalmente lì la vide, dopo anni lì la vide, seduta nell’attesa, nell’ombra della storia, sotto i portici affollati di quegli ultimi caffè, mentre un sax in disparte incupiva un vecchio blues. Oh sì che lì la vide e si fece spazio tra la folla, lei portava un cappello lo stesso della foto, accanto ad un ombrello lasciato a sgocciolare. Probabilmente lui parlò, sicuramente lei sorrise, lui prese un’anisette e lei qualcosa di più forte, tra una nuvola di fumo i suoi occhi ungheresi, lui chiese il suo nome, lei rispose Dominique, già per colpa della guerra, un nome vale un altro, lui con le mostrine d’oro, lei coi ciondoli d’argento.

Probabilmente lui parlò e lei lo stette ad ascoltare, sul tempo ed il governo e quel treno per Berlino, probabilmente ricordò quegli attimi d’angoscia, lui con la pistola in pugno, ufficiale in divisa, la salvò appena in tempo proprio lì alla stazione, afferrandole la mano e lasciandola scappare, ma poi non la rivide in mezzo a quel trambusto, passando giorni e notti senza avere un indizio.

Adesso era lì e non credeva ai suoi occhi, l’aveva cercata ovunque dentro i treni zeppi, perfino dentro il ghetto, per mesi ed anni interi ed adesso era lì ma non accadde altro, qualche scambio di battute, qualche frase senza senso, fin quando lei si alzò ed aprì l’ombrello rosso, tempestato di pois e aggraziato di merletti. Lui le porse il braccio e lei non rifiutò, poi passeggiarono sul viale, sui riflessi del selciato, fin quando il buio fitto inghiottì tutta la grazia, di lui e il suo ardore, di lei e la sua seta, il velluto delle labbra, la chiave nella borsa.

Probabilmente rimasero abbracciati, poi lei aprì il portone, di certo la baciò, poi salirono le scale, entrando nella stanza, lui fasciò quel paradiso, quei fianchi come piume, leggeri tra le braccia, la pelle madreperla sotto il tatto delle mani. Di sicuro lei lo accolse, nuda come una promessa, fino a quando l’alba chiara li sorprese addormentati.

Probabilmente venne giorno, probabilmente il sole alto, lui aprì i suoi occhi, belli, increduli e sorpresi, probabilmente uno Chanel gli fece ricordare, una notte e una donna incontrata alla stazione. Probabilmente cercò ancora, in bagno e in corridoio, ma di lei nessuna traccia su quel letto senza forma, tranne il rosso dell’ombrello appeso alla spalliera, tranne un foglio spiegazzato con un nome ed un indirizzo.

Probabilmente lui pensò, sicuramente uscì di fretta, col suo candido gilet e i diamanti per gemelli, portò con sé l’ombrello e strinse quella carta, chiese aiuto ad un passante e si diresse all’indirizzo. Davanti a sé una villa coi muri rosa antico, davanti a sé un vialetto di ghiaia e palme secche, le persiane un po’ sbilenche e un cancello arrugginito, accostato alla buona con una scusa di lucchetto.

Probabilmente lui entrò, diffidente e timoroso, probabilmente un cane bianco si fece accarezzare, e lo guidò scodinzolando fino al portico di vite, per poi abbaiare fitto fitto, avvisando la padrona. Probabilmente uscì una donna, con uno scialle color lutto, probabilmente austera, sicuramente anziana, forse sospettosa, ma ascoltò comunque l’uomo, finché vide quell’ombrello e scoppiò in un pianto denso.

Probabilmente lui parlò e le mostrò la carta, probabilmente le descrisse, la donna e quella notte, ma lei scosse i suoi capelli, raccolti in una crocchia, e scosse la sua testa confusa nei suoi anni. Poi fissò gli occhi dell’uomo, grandi e innamorati, e gli disse di seguirla indicandogli la strada, lungo il viale di quei tigli che a maggio sono in fiore, lungo il greto di quel fiume che scorre lento lento.

Probabilmente si fermarono nei pressi di un crocicchio, e la donna lo salutò, invitandolo a proseguire, lui fu avvolto da un silenzio, leggero ed ovattato, tra un fruscio di cipressi, e marmi, stelle e croci d’oro. Probabilmente si fermò, davanti ad una tomba, davanti ad una foto, la stessa del giornale, la stessa sorridente, sotto i portici la sera, probabilmente lesse, la scritta su quel marmo, probabilmente si chiese, con chi avesse fatto poi l’amore, e chi fosse quella donna, che come una goccia d’acqua, assomigliava al suo ricordo.

“Adieu adieu adieu adieu, addio al mondo, ai ricordi del passato, ad un sogno mai sognato, ad un attimo d'amore, che mai più ritornerà.
Dominique Hupper (Roma, 12/6/1908 – Auschwitz, 12/6/194
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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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Photo  EmilieTournevache

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