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Adamo Bencivenga
La Gabbia
Sono solo, se muoio adesso nessuno stasera mi terrà compagnia. Questa
gabbia m'impedisce di uscire, questa finestra troppo in alto m'impedisce
di vedere, ma lo so che c'è il mare, lo sento non è poi lontano, ogni
tanto qualche sparuto gabbiano si ferma e riparte all'istante, non mi
degna di uno sguardo, non ho niente da offrirgli. Sento delle voci,
parlano una lingua straniera, danno calci sui muri ogni volta che tento di
riposare, ogni volta che sogno. Poi ancora voci, arabe, maschili che fanno
paura di giorno. Stanotte sarà l’ennesima notte, chissà quante ne saranno
passate, non voglio ancora pensarci, ho paura dei topi, di chiunque apra
la porta e mi ordini senza ragione. Perché la ragione ha un senso solo
quando esiste decoro. Ed io la dignità o qualcosa di simile l'ho persa
strada facendo, inseguendo questa crepa sul muro che sbatte contro il
soffitto e scompare oltre la porta e mi riporta nella mia città, al mio
lavoro, a te che mi leggi e non sai cosa ci faccio in questo squallido
posto.
Lo so che lì c’è il mare, lo sento questo rumore continuo, di fiotti e
risucchi strascicati, che ti mettono ansia perché non arriva mai la fine.
La sento quest’umidità salata che m’infiamma le ossa e m’arriccia i
capelli, e non oso guardarmi allo specchio, semmai ce ne fosse uno, semmai
potessi vedermi attraverso quest’oscurità che non mi dà dimensione e mi fa
paura, come se si congiungesse al rumore del mare che ora sento più forte.
Non riesco ad immaginare che ora possa essere, riesco perfino a ridere di
me stesso pensando a cosa mi potrebbe servire saperlo davvero, a quanto
sia inutile calarmi in un punto preciso del tempo e domandarmi dove mi
potrebbe portare il pensiero di sapere che sono le cinque del mattino di
un giorno feriale.
E’ presto vero? Ma presto per cosa, per dove? Qui non è mai presto e non è
mai tardi, qui è. Tanto tra poco s’aprirà quella porta e l’odore stagnante
di muffa circolerà rinvigorito e più forte, sulla mia pelle e su queste
mattonelle che al tatto non sono più sporche dei palmi delle mie mani. Tra
poco s’aprirà quella porta e mi trancerà la notte dal giorno, ieri da oggi
e così via fino a credere superati questi pensieri che ora sono tutto il
mio avere. Ricomincerò daccapo pensando al passato quello che ora dico al
presente, ma il ricordo, quello vero, che mi vedeva altrove, lontano da
questi ragni che mi camminano addosso e mi fanno la tela, si fa sempre più
flebile. Non ho più niente di mio, neanche un paio di mutande, o che so
io, una lametta che possa mostrare le mia faccia decente. Qui diventi
altro, anzi diventi niente, un inutile corpo ingombrante da tenere a bada,
una bocca da sfamare, una pelle da pulire, un numero in serie per
rispondere presente all’appello.
Tra poco batteranno più forte, porteranno un brodo che dicono latte,
qualcosa di molle che ha la forma del pane. Sempre lo stesso, lo stesso
sapore, come se fosse quello di ieri, mangiato e rimesso.
Tu hai promesso che verrai a trovarmi, in un giorno qualunque, mi porterai
una zuppa di ceci e fagioli, di cui oramai non ricordo più il gusto, il
sapore, che i miei sensi hanno cancellato come fare l’amore o che so io,
farmi una doccia bollente quando fuori cade la neve. Ma non ricordo se
fuori c’è inverno o un sole che picchia e crepa la terra, non ricordo se
sono venuto fin qui coperto di lana, ma sento freddo, quel freddo di
brividi che ti coglie indifeso quando sei solo, e s’infila padrone nelle
parti più intime del corpo gelando cuore e polmoni.
Sembra passata un’eternità da quel giorno maledetto e forse sarà trascorsa
davvero, a giudicare dalle tante domande a cui non ho dato risposta; non
ho dato il minimo senso per pensarle di nuovo. Tutto è successo senza
rendermene conto e senza per questo pensare che non sia accaduto, che
queste sono solo le mie lenzuola sudate dall’ansia, che ora mi alzo e vado
in cucina a prepararmi un caffè vero. Ne ho tanto bisogno sai. Ma le sento
davvero queste voci, miste a quelle straniere, come mi pare d’udire un
sibilo di vento simile a zanzare fastidiose di notte, come mi pare di
sentire la voce di un ragazzino che gioca sul pavimento all’ingresso. Ma
se mi concentro sento la voce distorta di una donna, la sento la voce, ora
sempre più intensa, che grida perché non può più accettare che io stia qui
dentro, sento una specie di pianto che, come ora silente, mi bagna la
faccia e segue remissivo le rughe del viso fino a posarsi negli angoli
della bocca, fino a ridarmi equilibrio e coraggio di subire un altro
giorno che nasce e distinguere nitido questo rumore di mare.
Se solo potessi vedere sul muro i contorni della mia ombra, m’aiuterebbe a
ricordare chi ero là fuori, basterebbe uno straccio di luce per darmi una
faccia, un’altezza, un carattere e da lì non ci vorrebbe che niente
ricordare il motivo che mi ha relegato qui dentro, inghiottito da questa
oscurità dove i ragni continuano a fare la tela intorno ai miei polsi
fasciati. Ma non sono catene, non ho ferri attorno alle caviglie o
lenzuola che mi tengono stretto, neanche un bavaglio per tacere. Mi chiedo
perché non urlo, perché non m’alzo e scappo da quella porta e perché
rimango paziente ad attendere questo giorno che nasce.
Ma poi lo so perché sono dentro e perché non urlo e non scappo. Tanto non
servirebbe a niente, se anche potessi, perché il dolore è dentro il mio
cuore ed il male che sento mi seguirebbe ovunque potessi fuggire.
Solo quattro mura che ormai hanno confinato la mia fantasia, solo strisce
con numeri impressi sulla mia pelle, 4237 e poi un codice a barre, come un
dentifricio alle erbe, la mano della cassiera che delicatamente mi prende,
m’afferra, manca solo il bip della cassa. Ecco lo sento! Vedo le sue
unghie, rosse smaltate, la luce del neon che riflette. Cosa mai ci sarà da
sorridere, ma lei ride e raccoglie i capelli. Il seno proteso sotto il
camice a strisce. Tu credi che abbia memoria di una donna? Di quello che
si fa al cospetto di un paio di tette?
Cerco nelle ombre della mente capelli freschi di shampoo che frivoli al
vento fanno la ruota, ma mi tornano in mente soltanto puttane. Quelle di
strada. Esisteranno ancora? Che battono i tacchi e consumano asfalti. Quei
fuochi romantici sui marciapiedi di sera, quegli inviti sfacciati che ti
fanno illudere quanto il paradiso possa esserti accanto, quanto sia sporco
come la terra che ingoiavo da bimbo.
Ma qui non ci sono donne di strada, ma solo secondini con falli di gomma
che non hanno alcuna voglia di sorridere. Li sbattono sui muri e fanno
paura, sulle sbarre e fanno rimbombi. Tu sai cosa c’è dentro un boato? Un
uomo piccolo vestito di niente, che nudo s’appiattisce alle pareti e si
rannicchia inseguito da un fascio di luce, freddo e accecante.
Ancora battono, come se i manganelli fossero sessi, duri, ma qui siamo
tutti uomini e per alcuni di loro non facciamo differenza, perché il sesso
è un buco che si tappa e si schiude, o alla meglio una bacinella di
plastica per scaricare le voglie.
Dio come sono lontani i tempi quando mi lasciavo rapire da due gambe in un
bar all’aperto. Un drink arancione mentre accavallava le gambe. La gonna
che s’alza, cosa mai ci sarà lì sotto?
Ora, invece, non ho calze di donna da guardare, non ho indumenti usati da
annusare, tutto ha il colore del tramonto, le tinte scure della morte,
triste gioco che mi vedrà sicuramente sconfitto. Davvero basterebbe poco!
Non sogno d’uscire, pensare cosa potrei fare domattina se mi svegliassi
nel mio letto. Chiedo di meno, un rossetto da respirare mentre
m’addormento. Chiudo gli occhi e vedo la bocca, le labbra che si stringono
a forma di culla. Non ricordo quanto sia umida una bocca, quanto bagnato
di passione un bacio d’amore.
Ma davvero tu verresti a trovarmi? Non sai nulla di me, non conosci la mia
faccia, se sono brutto o un solco sul viso, grande quanto un’autostrada,
mi tagli in due la faccia! Davvero verresti? Mi fa impazzire l’idea, ma
voglio che sia lontana. Sai, qui il tempo scorre lento, non è come fuori!
Non voglio bruciarla, ma godere del piacere che possa accadere. Qui si
coltivano semi, non si comprano fiori e sul mio certificato c'è scritto
fine pena: MAI.
*****
Non riesco a concentrarmi, l’odore di sporco prende il sopravvento, il
rossetto è svanito, la tua faccia un giornale appiccicato sul muro. Ma non
c’è faccia, non c’è seno, solo pieghe intime di carne rossa, sanno di
macelleria e di delinquenza.
Tu mi scrivi che sei ricca, che tuo marito è medico, che vivi in una villa
all’Olgiata, del tuo giardino, delle tue tante stanze da letto. Ed allora
perché mi stai a sentire? Non posso che offrirti questa appiccicosa
solitudine. Sono povero e disgraziato, non ho ville, non ho denaro, non ho
fiori da coltivare, nessuno che abbia voglia di sentire quello che penso.
Non ho futuro, soltanto una cella con una grata sotto il soffitto. Tra
poco entrerà uno spicchio di sole, ma è fragile, debole, non scalda e non
asciuga l’umidità tra le mie ossa, tra queste pareti che sanno di muffa.
Non posso imporre nulla perché tutti mi impongono qualcosa, la loro
presenza, le loro passioni, i loro ardori, le loro frustrazioni.
Ti penso nel tuo studio mentre mi scrivi, ti prego tieni strette le gambe
perché quello che vedrei è davvero un tesoro, e nessuna ricchezza è mai a
portata di mano. Ma sarai vera? O sei solo un fantastico sogno? Una penna
che scrive, un foglio di carta riempito di pena. Comunque ti penso. Ogni
volta mi vieni in mente diversa, non è la tua faccia, ma sono mani che
ogni sera mi vengono a trovare e slargano gli orli del pigiama che porto.
Cosa pretendi da un uomo qui dentro? Per quanto sia grande il suo mondo
interiore è rinchiuso comunque dentro una cella. Non ho l’ultimo film da
raccontarti, il traffico che stamattina m’ha fatto tardare. Cosa mai
potrebbe darti? Ti immagino seduta sul bordo del letto. Che proteggi il
tuo seno dagli sguardi del secondino che passa. Ti trucchi? Tu fumi?
Perché ti vedo con due labbra di fuoco, che ridi e ti passi la lingua sui
denti.
Come vedi non posso staccarmi da quell’immagine sul viale. Ricordo che
m’appartavo dietro la siepe, lei tirava su la gonna ma non c’era poesia,
non c’era uno slip per rimandare l’attesa. Chiedeva poco e poco offriva.
Nemmeno una seta per sognare una stanza d’albergo, nemmeno una riga che
correva lungo la calza per sognare anche il resto.
Ti giuro, mia cara signora, il piacere che provo qui dentro non ha eguali
fuori! Non ridere ti prego. Mi illudo che sia tecnica, nient’altro che
tecnica per trasformare il mio desiderio in una signora di classe, ma se
ci penso bene è solo voglia di libertà, perché in quei momenti non ci sono
barriere ed io vado dove voglio, volo, certo che volo.
Ti prego domani sera torna, quando qui dentro è già buio, non farmi
aspettare, non farti sentire, vedere dal mio compagno di cella, lui non
capirebbe vederti vestita mentre facciamo l’amore, non capirebbe che la
differenza tra donna e donna è nell’anima che porta, è nella tua gonna di
seta, il merletto che copre e non copre le tue forme di femmina calda.
C’è un cane lupo fuori che aspetta, si chiama Macigno, se potessi uscire
da qui, correrei subito da lui, è in un canile, ma so che mi pensa, che
appoggia il muso alla rete e guarda attentamente chi passa, perché lui sa
che non l’ho abbandonato, che se sogno d’uscire non ho altro motivo per
chiudere gli occhi. Tu non mi servi di giorno perché la delusione che
sento non ha né capo e né coda, ma un forte dolore qui in mezzo, una
ragione per non ritornare qui dentro.
In questo carcere abbiamo a disposizione quattro colloqui al mese, sono
importanti per stringere le mani, per vedere gli occhi che vedono il
mondo. I miei vanno sprecati, se potessi venderli avrei la fila qui fuori,
se potessi barattarli avrei la dispensa piena di fumo e formaggio.
All’inizio veniva un ragazzo che avevo conosciuto per pochi giorni qui
dentro, ecco io vivevo per quel momento, mi spartiva le settimana, dava
una logica allo scorrere del tempo, dava dei nomi tipo ieri o domani,
eppure tra noi non c’era nulla, amore o amicizia, solo la pena d’esserci
frequentati in questo posto, dentro una cella con la sua gioia a stento
celata dell’ultimo giorno. Poi piano piano s’è diradato, qualche volta
m’ha scritto, ma non ho nulla per pretendere di risentirlo di nuovo, che
si faccia vivo in nome di un niente, perché chi è passato da queste parti
sa bene che si vive a cadenze, la posta i colloqui, il pranzo la doccia,
l’ora d’aria ed in mezzo il vuoto, soltanto pensieri che lo riempiono
appena. Laggiù c’è il mare lo sento, ma è un rumore continuo che non
cambia mai tono, non riesco a sentire il suono dell’alta marea, che almeno
calmerebbe l’infinito bisogno d’affogarci l’istinto d’evadere, per vedere
il colore al tramonto dell’acqua che cambia.
Il mio compagno di cella è arabo, non conosco il motivo della sua pena,
tutti noi abbiamo pudore di raccontare la causa che ci ha relegato qui
dentro. Ogni tanto parliamo, ma non conosco la sua lingua, gesticola,
cerca di farsi capire, ma con i gesti non si racconta una vita, non si
sgranano i ricordi stipati dentro un’anima in pena. Ogni tanto con le mani
mi fa il gesto di una pistola, lo vedo che vuole spiegarsi, che ha sparato
ed ha ucciso. Del resto qui dentro non si viene per altro, per un succo di
frutta rubato, per un incidente a semaforo spento. E’ più giovane di me e
non riesce a capacitarsi d’essere qui per un solo momento, né prima né
dopo, ma in quell’istante, quando la rabbia t’acceca e spingi il
grilletto, quando il fuoco che parte indietro non torna. Ti prego non
pensare che io sia un assassino, oppure pensalo, ma se non si conosce il
motivo non è possibile comprendere, si sputa un giudizio per togliersi di
torno il pensiero.
Si chiama Samir, avrà vent’anni di meno, è buono dai modi gentili, e mi fa
pensare ogni volta quanti cattivi ci siano fuori, se il mondo fosse al
contrario quanti omicidi ci sarebbero ancora? Perché solo chi è dentro ha
visto gli occhi di un uomo che muore, il sangue che esce a fiotti ed a
grumi e lascia una vita distesa per terra.
Le tue lettere sono piene di solitudine, mi fa impazzire l’idea che lì
fuori si possa essere soli! Ma ho bisogno di te, ti prego non smettere,
non sforzarti a scavarti la carne dell’anima. Non serve! Qui dentro si ha
bisogno di vita reale. Cosa fai al mattino quando ti svegli, se quando
piove porti l’ombrello, i tacchi che hai messo, la gonna che hai portato a
stirare. Non servono i tuoi pensieri, qui siamo ricchi soltanto di quelli.
Mi preme confessarti una cosa, ma non t’arrabbiare! Le tue lettere dopo
essere state lette fanno il giro del carcere, perché ognuno di noi ha un’amante
virtuale e leggendo s’illude che fuori qualcuno lo aspetti. Abbiamo
bisogno di dettagli, di terra che fa crescere il grano, non parlarmi del
mare, ti prego, ho bisogno di distese, di correre dritto finché il fiato
mi regge, nessuno ostacolo tra me e l’orizzonte.
Un mio compagno di pena, giura che sei bionda, un altro che porti dei
guanti di rete, quando scrivi, quando fai l’amore.
*****
E’ passata un’altra notte e sento i primi rumori, sbadigli come ruggiti e
bestemmie piene di rabbia. Sono anni che non sento nessuno parlare
sottovoce. Qui tutti gridano per farsi sentire, oppure per accertarsi di
essere ancora vivi, per quanto sia possibile esserlo qui dentro. Sai,
mentre ti leggo sento solo un bisbiglio, una carezza di fiati che respiro
tra virgole e punti. Tuo marito cosa direbbe se sapesse che scrivi ad un
ergastolano? Mi dici che è garbato e gentile, che mai ti ha mancato di
rispetto alzando la voce. Troppo perfetto vero? Per questo mi scrivi? Come
una vacanza d’avventure nel mondo vuoi scoprire cosa può offrirti un uomo
dentro una gabbia, quale brivido potrà mai accapponare la pelle al sogno
che di notte potresti incontrarmi. Perché lo so che mi sogni, lo sento da
quello che scrivi, dall’odore di questa carta sgualcita. Mi scrivi di sera
vero? Dentro la notte che ti tinge di nero, accanto al tuo uomo che dorme
e che russa. E russa senza curarsi che accanto c’è una donna che freme,
che oscilla, signora e padrona della propria astinenza, dei tuoi pugni che
premono e t’arrossano e calmano il ventre.
Sono andato troppo oltre? E allora perché mi scrivi? Ti prego non mi
chiedere mai perché sono finito qui dentro. Perché staresti a sentire un
uomo che ti può raccontare solo il passato. Ricordi morti. Vuoi sapere
come è stato il mio mondo? Le donne che ho amato? O solo il mondo delle
femmine fuori dalla tua sfera, da quella casa laccata? Tanto lo sai, lo
so, che non riesco a parlare di altro, che ogni cosa qui dentro gira
intorno al desiderio perduto. Lo sai che non ricordo né occhi né volti,
che confondo l’amore col sesso? Ebbene mia cara, è un mondo sottile
relegato all’orgasmo, a volte immediato a volte lungo, consumato su una
scrivania o nel bagno d’un bar contro un lavandino. E poi letti
d’alberghi, parcheggi assolati dove la luce t’acceca e senti la biancheria
bagnata d’amplesso. Ho conosciuto femmine, quelle vere, niente al mondo è
migliore, indispensabile. E qui la senti la mancanza eccome la senti!
A proposito mia bella signora, che misura porti di seno? Ti sembrerà
strano ma io amavo seni minuscoli, mele acerbe di giugno attaccate su rami
poco frondosi. Oggi è diverso, nei miei sogni bivaccano donne mature, seni
grassi opulenti tenuti da mani che m’offrono latte. Voglia di tornare
bambino? Voglia d’affogare nel mare dell’opulenza del pieno rispetto a
questo misero vuoto? La donna qui è tutt’altra cosa, diversa da quella di
fuori. Qui trovo nel sesso l’oceano immenso, l’idea blasfema di un porto
raggiunto dove il marinaio si ubriaca e bestemmia. Percepisco l’immensa
illusione di quel magico posto, dove l’uomo si perde, è per me l’unica e
vera ragione di vita ogni qual volta mi accompagnano gnomi attraverso la
mente. E le tue lettere nutrono il sogno, la carnalità e la brama, perché
leggerti mi trasforma in un animale da branco che struscia contro i muri
guidato dal solo odore, il tuo.
Il vero è sognarti, slacciarti da dietro il reggiseno e trovare l’unione
di inconsci tra due corpi che si uniscono nell’anima, nel percorso che
penetra e senti il vulcano che erutta, rendendo incandescente la vita. Non
aspettarti coccole, che sollevo i capelli e ti bacio sul collo e ti dico
ti amo ti dico che m’ami, perché quello che voglio è sentirmi che bramo,
una donna senza volto che scrive. Respiro le tue righe, la carta e sento
l’odore dell'inchiostro e del suo contenuto. Chissà se davvero sono state
le tue gambe a stropicciarla, o l’eccitazione del poliziotto che avido
l’ha divorata? Non mi sconvolge l’idea se qualcun’altro qui dentro o di
fuori possa godere alle tue parole, ai tuoi odori. Perché il mio dono sarà
una favola, il seme dell’universo che concepirai in te, nella tua mente.
Io e te soli. Soli con l’immenso attorno.
*****
L’avvocato ripete ogni volta che si potrebbe fare appello, che questa
volta mi riconoscerebbero le attenuanti se solo collaborassi. Ma io me ne
sbatto di lui e dei giudici che si sono intromessi! Sai che il magistrato
era una donna? Aveva gli occhi di ghiaccio azzurro intenso. Mi ha chiesto
più volte se avessi qualcosa da dire. Ha cercato più volte di farmi dire
il motivo. Aveva solo la mia confessione e quella era sufficiente alla
giustizia ma non alla sua anima. Non c’erano altre prove, altri indizi e
in quel momento mai e poi mai avrei detto qualcosa, perché tutto l’amore
era racchiuso in quel gesto, che nessuno mai avrebbe potuto sporcare e
soprattutto comprendere. Mi ha guardato fisso mentre pronunciava la
sentenza, ha scandito le parole: FINE PENA: MAI! Ma vedevo che non era
convinta. Non si può condannare un uomo senza motivo.
Se solo ora mi pentissi! Decidessi di dire la ragione che mi ha spinto a
quel gesto. Ma io non voglio pentirmi perché quando si arriva a quel punto
non si può sbagliare e sai benissimo cosa ti aspetta un attimo dopo,
pensieri gelidi come la mano che stringi, morti appiccicati sulle sponde
del cervello come pipistrelli di notte. Nemmeno una lacrima, né allora né
sempre.
Cosa servirebbe ad uscire? La mia gabbia non è questa cella, queste sbarre
di ferro arrugginite. La mia gabbia è qui dentro, dentro la mente, da lì
non potrò evadere. Il mio avvocato non sa che qui si vive la profondità
della vita, che fuori s’appiattisce e scolora d’ogni tinta che immagino
densa, come il rosso di due labbra che sussurrano piano o si contorcono
scomposte dal piacere che gridano.
Ecco vedi sempre lì vado a finire! Perché il fuori è donna! Ed una donna è
femmina quando senti il suo piacere, ma è ancora più femmina se si nega,
se accavalla le gambe e t’attira e poi si ritrae. La vorrei ora una donna
che si nega che mostra e non mostra per il gusto di farsi guardare. Eh già
Samir non capirebbe!
Io ero medico e lei la paziente, veniva ogni giorno con una scusa diversa,
i piedi le ossa lo stomaco gonfio. Poi amanti, convinti che i nostri
progetti non sarebbero rimasti appesi ai soffitti. Dio come l’amavo!
Finché tutto è cambiato… la sua malattia non era più una scusa, ma un
tunnel nero lungo il quale mai e poi mai si vede la fine. La sua malattia
era scritta a chiare lettere sui referti, sulle analisi. Tre mesi, non di
più. Mi sono consumato per settimane, le ho sempre nascosto la verità,
fino a rendermi conto che l’unica via di salvezza m’avrebbe portato qui
dentro. Ho agito prima che se ne rendesse conto, ho agito prima che
superasse la soglia del dolore. Il trionfo dell'amore sulla morte! In
quell'attimo ho ammazzato la morte! Niente pistola, niente colpo che parte
e non puoi più fermarlo. E’ bastata una puntura, un innocuo liquido giallo
dentro le vene. Si è addormentata, punto. Sorrideva sai…
So che ora non capisci. Ti prego non farmi più domande perché non
riceveresti che queste parole, frammenti evasivi che non servono a me per
giustificarmi, a te per capire. Sono un assassino e questo basta. Tu
scrivi ad un assassino, il resto non conta.
Tra poco ci metteranno in fila per quattro, due piani a scendere e sotto
la doccia. Ma è acqua di mare, salata che non serve a lavarci, a togliere
l’odore di carcere, di disperazione. Ma non possiamo rifiutarci perché qui
tutto è un obbligo. Dicono che a breve ci permetteranno anche l’ora
d’amore, ma che senso avrebbe qui dentro? Anche quella sarebbe una
costrizione, ed io invece voglio spaziare, di notte di giorno, senza il
secondino che guarda, perché quando abbasso le palpebre sono solo senza
dimensione di tempo, di spazio tra quattro mura ed una branda disfatta. Tu
ci verresti? Faresti la fila insieme alle altre, magari di quelle che si
fingono mogli? Alle volte mi sembra di conoscerti, non so perché ma ho la
sensazione d’averti incontrata, che per qualche motivo ho incrociato i
tuoi occhi. Dimmi se siamo stati insieme ai tempi di scuola, ma non riesco
ad immaginarti con una faccia bambina, ti vedo già grande come ora che
scrivi e che leggi parole che entrano in un CARCERE A VITA. Rido! Come se
conoscessi la tua faccia d’adesso o potessi distinguerla da quella di
quand’eri bambina. Davvero ti immagino con gli occhi azzurri, sfumature
che toccano abissi profondi, e poi risalgono fino all’orlo dell’onda che
bianco s’increspa alla brezza leggera. Li hai azzurri vero? Ed io li ho
già visti vero? Ti prego non dirmi se davvero ci ho preso perché tanto se
fossero neri sarebbero belli lo stesso ed un ergastolano non sceglie. E’
la prima cosa che impari, il primo concetto che assimili.
Alle volte mi sorprendi mi fai sentire senza parole, parli d’amore ma tra
le tue righe non c’è carne e né pelle, come se tuo marito fosse un’anima
astratta e tu brami all’idea d’un rapporto più intenso, ma poi ti ritrai
come se fossi un angelo senza carne ed ossa.
Io non t’ho mai detto che voglio fare sesso con tanta brutale mancanza di
tatto! Non ho mai detto che voglio fare l’amore perché sarebbe altrettanto
volgare. Mi piace, è vero, immaginare quando sei nuda, che chiami il mio
nome in una notte d’inverno quando fuori c’è pioggia e nel letto ti cerchi
per scaldarti la pelle ed asciugarti le ossa. E’ inutile che mi ripeti
ogni volta che sei solo parole! Come se fossi un infermo e tu la spina che
mi mantiene in vita! Cosa stai cercando? Cosa vuoi da me? Alle volte mi
pare di leggere un sottile senso di colpa? Ma di cosa se non ci
conosciamo? Non credo sia la mia condizione a farti pena, ma ho la
sensazione che tu voglia indagare, conoscere il motivo, quello che non ho
mai confessato al giudice. Sai, quando sono venuti ad arrestarmi ho
bruciato tutte le prove, loro non sanno il motivo perché l’abbia fatto, ma
solo la mia confessione di averlo fatto.
Come vedi vago nel buio, non so chi tu sia, non so perché tu lo faccia, ma
per me non sei solo queste lettere che stringo e che annuso! Non puoi non
avere una faccia, due occhi che ora son certo mi stanno guardando, due
mani che sole ti stanno cercando. E mi accontento di questo, fai bene a
non rivelarmi altro. E allora m’illudo che mi scrivi per la sola voglia di
trasgredire, di parlare con un ergastolano. E allora sì che m’illudo e
penso che tu ti stia toccando! Cosa saresti se il tuo sesso non fosse
attaccato alle gambe, al ventre e a tutto il tuo corpo? Con quello che c’è
dentro e fuori. La voglia di femmina come strascico da sposa, che è anima
e stoffa, che è alito denso che cambia d’odore quando prona o supina
t’abbandoni all’istinto. Oddio che dico? Scusami ma m’intossica il vapore
che sale dal tuo sesso, portato dal vento fino dentro una cella,
m’intossica e mi inebria, mi tortura e mi sfianca quel profumo acre di
femmina malinconica! Un giorno mi racconterai perché sento tanta tristezza
quando mi racconti di te. Perché mai? Tu che puoi indossare calze di nylon
e puoi decidere di farti guardare negli occhi quando e come vuoi, come
mai?
Ma forse la causa della tua tristezza, non è tuo marito, non è il rapporto
che hai con lui, la tua causa è unicamente perché non mi capisci, non
capisci quello che ho fatto, e vorresti farlo, ma non direttamente.
Forse ora capisco, forse ora so chi sei, e allora sento i tuoi versi
pregni di sensi che si incollano come gocce notturne sulla mia pelle...
intravedo i tuoi desideri tra le righe malate di bisogno d'amore, di
passione intrigante dove plano e decollo ogni notte con tutto me stesso
disperso sul tuo corpo immediato, inclinato sul ventre del tempo. E mi
bagno sai, delle tue carezze, di luce che bacio, del tuo desiderio che mi
unge d’ogni tua parte incompiuta. Chissà se davvero lo sei. Se qualche
parte della tua pelle non ha conosciuto l’amore. I tuoi versi mi scatenano
la curiosità di conoscerti meglio, ti prego non lasciarmi in balia di
altre anonime righe. Forse ora capisco, forse ora so chi sei, ma voglio
saperlo da te perché mi scrivi, perché accetti silenziosa questo
turpiloquio. Stanotte pensavo che non mi hai mai rimproverato, qualsiasi
parola abbia scritto oscena o volgare, l’hai accettata senza replicare.
Davvero indossi un reggicalze bianco e viola quando mi scrivi? Per me è
già un sussulto, un tuffo di voglia che mi getta oltre la siepe... saprò
trovarti nel sogno? Ti ripeto, hai mai tradito tuo marito? L’hai fatto
quando eri incinta della tua prima figlia? Così ho capito ma non ne sono
sicuro perché ogni volta che leggo una donna parlare d'amore, qualunque
cosa sia l'amore, mi accorgo di penetrare in un universo sconosciuto, ove
non ritrovo mai il riflesso delle mie sensazioni all'interno dello
specchio. E tutto è giustificato, compreso, nel nome più alto del
sentimento. Se lo hai fatto davvero capisco il motivo ma ogni volta mi
sento smarrito nell’universo di cui non conosco né gli estremi né tanto
meno le rotte, ove spesso solo il porto di partenza e d’arrivo.
Tu immagini come possa iniziare la giornata in questo modo? Cado nella tua
rete di parole e per tutto il giorno mi girano nella mente. Completamente
rapito nei sensi e nelle emozioni... Vi sono caduto senza rendermene
conto, facendomi trascinare in alto... sospeso. Vedo che mi osservi e
incuriosita ti avvicini. Io mi dimeno freneticamente cercando di
liberarmi. Non voglio che tu mi veda così, con gli occhi lucidi come
biglie di marmo, dopo una notte passata a pensarti, a toccarmi. La rete si
stringe e mi avvolge maggiormente. E tu sei lì e mi osservi. Ed io osservo
te.... lontana da non scorgere il tuo viso... Osservo le curve del tuo
corpo, sfocate dalla luce del sole rosso alle tue spalle e che slancia la
tua ombra verso di me. Un passo.. poi altri due... riesco a distinguere
altri particolari di te... le tue mani curate, la compattezza delle tue
gambe, le rotondità del tuo seno... ma in controluce ancora non distinguo
il tuo volto... ancora un passo e mi sei quasi accanto. Allunghi la mano
per toccarmi e... la lettera finisce... ed io mi ritrovo di nuovo solo...
con un foglio di carta tra le mani.
I miei pensieri si accavallano, si arrovellano e la mia mente spazia
nell'immaginario, nel buio vuoto di una stanza che conosco a memoria.
Cerco la luce inutilmente, cerco di dare un volto a tutto questo... cerco
lenti per la mia immaginazione confusa e miope... ma tu sei essenza,
pensiero, profumo di rose mai colte... dove sei? Io devo toccare il tuo
corpo, devo assaporare il gusto della tua pelle... sentire dentro di me il
sapore della tua bocca. Ti ripeto qui mancano i dettagli, i profumi d’un
fiore che serra i suoi petali al buio di notte, e di giorno si apre e
amoreggia col sole e si fa scaldare nell’intimo dentro. Tu non ci sei e il
sogno diventa un affanno, voglia repressa, devo uccidere i miei sensi o
loro avranno la meglio su di me, devo cacciare i mille pensieri che mi
mulinano tra le tenebre fitte tutte le notti. Forse dovrei addormentarmi
per sempre, ma i morti sognano? Altrimenti sarebbe davvero stupido morire.
Le tue parole sono come il sale che rende più saporito il pane, sono come
il filo di grasso che fa più ghiotta la carne. Perché tu mi consumi sai,
donna fatale, fattucchiera d’incantesimi che ti materializzano come ombra
carnosa. Giuro che m’alzo e ti vengo a toccare, ma tu non andare via, non
chiudere la porta, lasciami spiare attraverso una fessura il mondo dei
sensi, il mondo fuori, mentre t'infili le calze o quando malinconica ti
guardi allo specchio e ti lavi i denti e ti nutri la pelle con una crema
che ti fa più bella. Sei entrata nei miei pensieri ed io sono andato oltre
sai! Sei il mio sogno concreto che rende l'uomo animale. Non so più cosa
ci sia dentro un seno di donna, non so cosa si senta a baciarlo, ma so
cosa si prova a pensarlo. Non mi hai ancora risposto se il tuo seno è
abbondante, se c’è tanta carne da toccare e baciare. Dimmi se cala, perché
ti farebbe più femmina quando al mattino lo lavi. Lo fai spesso l’amore?
Raccontami del vento che soffia, dell’alito caldo che evapora sotto la
gonna, che t’offri che s’offre e si congiungono odori e cedi alla voglia
che non teme il giudizio.
Nel sogno si accavallano in me ricordi di giovani donne, che di me si sono
fidate, rivedo i loro rossori, risuona nella mia mente una musica moderna
"balla zingara balla che sei bella", forse ho ancora il brano conservato
in qualche angolo della mia casa, già la mia casa! Chissà se il mio studio
è diventato una stanza per bimbi, un ripostiglio d’armadi ed un asse da
stiro. Che fine avranno fatto la mia scrivania, i miei libri della laurea?
Forse in un deposito mangiati dalle tarme, dai tarli che si sfamano di me,
della mia mente, che ora fa fatica a ricordare.
Donne belle, giovani, e mi chiedo ora come sarebbe il mio mondo se non
fossero state così belle. Come potrei immaginarti? Dove si poserebbero i
miei sogni? I miei desideri violenti?
Dove facciamo l’amore stanotte signora? E la domanda continua nell’ora
d’aria, quando Samir mi parla a cenni. E poi il tramonto e buio
improvviso. Ma io devo decidere, devo fare in fretta perché la notte non
mi sorprenda ed io non ho ancora deciso. Dove facciamo l’amore stanotte
signora? Nello specchio della tua villa all’ingresso in stile veneziano
mentre ti spalmi ed abbondi di rossetto? Stai per uscire? Ma porti un
cappello e mi sussurri che mai lo togli mentre fai l’amore. M’inviti nello
spacco della gonna che s’apre, già non porti pantaloni perché sarebbe
volgare vedere una donna che abbassa la lampo. Sono piccoli dettagli,
segni che mi portano dove da solo sto andando. Dove facciamo l’amore
stanotte signora? Ti prego continua perché io vedo come sfondo una rampa
di scale, quadri del Canaletto appesi sui muri. Sei ricca lo immagino, ma
la porta che s’apre non so cosa sia, uno studio? Ci sono tanti libri è
vero, non oso chiederti di farlo su quella scrivania. Dammi un cenno, io
ho tempo.
Ora sento una musica lontano, ora tu danzi, "balla zingara balla che sei
bella", ed un fascio di seta t’avvolge, "balla zingara balla che sei
bella", e tu lo fai e fra breve ogni mia remora di pudore verrà
schiacciata sotto l'inevitabile peso del desiderio carnale, i miei sensi
annebbiati scruteranno il mondo in cerca di forme, d’odori che sanno di
seta e di sesso. Lo so che non è facile, ma ti prego descrivimi il rumore
dei tuoi passi di danza, oppure se stai uscendo quelli più diretti
sull’asfalto. E mettici magari un po’ di pioggia, il buio, la nebbia, una
foglia che cade, un po’ di fretta e ripeti il percorso, tante volte fino
ad esser sicura che quello che scrivi è quello che senti. Porti i tacchi
vero? Tu fumi vero? Ti piace essere donna, ringrazi Dio per questo, ti
piace essere oggetto di desiderio, d’essere in balia della passione, sei
nata per questo.
Altrimenti perché mi scriveresti, perché staresti a sentire quell’anima
che parla solo di passione, di donne e voglie… Sono sogni vero? Oppure
desideri gretti come è avara ogni cosa che può nascere qui dentro. Ma dove
facciamo l’amore stanotte signora? Sento ancora il rumore dei tuoi passi
nella notte che ti sorprende da sola, dentro un inverno che t’avvolge e ti
sfiora, e s’inoltra gelato tra le tue gambe di sera tra i vicoli stretti
d’una città che conosci, tra le maglie più larghe della tua camicia di
seta. Dove facciamo l’amore stanotte signora? Tra i tuoi seni che colmano
il vuoto, d’una notte che luna non riesce a riempire, tra il rumore dei
tacchi che fanno la scia. Dove facciamo l’amore stanotte signora? Sulla
terrazza di un albergo del centro, tra i tetti spioventi dove i piccioni
fanno i bisogni, e sento l’odore dolciastro che sale e mi prende, e mi
piace respirarlo perché sia più vivo il ricordo.
Alle volte non riesco a distinguere se queste cose tu le abbia scritte
davvero. Quando mi parli così, ti sento smarrita, tenera, quasi bisognosa
della mia protezione. Ma che dico? Come potrei mai qui dentro? Certo che
vorrei darti l'infinito, certo che vorrei darti l’universo, lo stesso che
bramo, sono sicuro che hai ancora tanto da dire, da dirmi perché sono
l’essere più innocuo di questa terra. Mai potrei dirti incontriamoci. Mai
chiedere il tuo numero di telefono. E’ questo che ti piace vero? Con me
puoi aprirti senza timore, con tutto l'ardore che sai, con tutto il
bisogno che possiedi e soprattutto nella completa libertà di sparire
quando vuoi. Un click, un solo click, basta non scrivermi più e tutto
finisce e la mia stanza dei sogni diventa un buio eterno! Non farlo, ti
prego, ricomincia daccapo, scrivimi tutti i dettagli anche quelli che
reputi più insignificanti, io ho tempo, qui si coltivano semi, non si
comprano fiori.
Sai che non conosco ancora il tuo nome? Ma che importanza può avere!
Oppure sì, tu hai gli occhi di un azzurro intenso, ora so chi sei e solo
tu puoi sapere che sul mio certificato c'è scritto: FINE PENA MAI.
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Il racconto è frutto di
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è puramente casuale.
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