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Adamo Bencivenga
L'aliciara
(La venditrice di alici)
A mia madre
Cammina cammina tra i vicoli stretti, tra i vicoli larghi nel cuore di
Roma, dove ogni spiraglio è uno squarcio di cielo, che rosso, che viola
s’insinua netto, tra i tetti spioventi e i muri scrostati, tra i fili
pendenti d’antenne e corrente, tra tubi e grondaie che scaricano a terra.
Cammina cammina e ogni tanto si specchia tra le merci in vetrina che la
fanno più bella, altre si ferma ed accenna un sorriso, al primo che
esclama che è bella davvero, al secondo che vuole incontrarla di sera,
all’altro che soffia un bacio lontano, e lei che lo schiva voltando la
faccia, e lei non capisce perché la gente sia seria, con il viso
ingrugnito e cupa negli occhi, in questo mattino di una Roma da sogno,
d’un sole già alto che scalda le ossa.
Cammina cammina tra la polvere fitta, che secca le mani e sporca i
capelli, tra lavori che in corso ci sono da anni, e una donna con un
secchio ci lava la strada, e spazza la polvere e raccoglie la terra e
lancia improperi agli operai a riposo. Poi bonaria li guarda con le mani
ai fianchi tra la gente che urla e altra che passa, e lei che cammina,
cammina e si ferma, e saluta la donna e saluta anche il cane, che buffo a
tre zampe la segue contento, e ogni tanto abbaia per farsi aspettare,
altre si lascia accarezzare la coda, da una turista svedese che si è cotta
le spalle, da una bimba croata che legge la mano, e il destino dipende da
quante monete, tieni nell’altra o le hai fatto vedere.
Cammina cammina tra cornicioni di legno, insegne di marmo e corone
d’alloro, ogni tanto una targa appiccicata sul muro, una scritta di bronzo
e una data scolpita, di un poeta scomparso, di un soggiorno importante, di
un pittore famoso innamorato di Roma, di una guerra poi vinta con migliaia
di morti, ogni tanto un carretto che arrota coltelli, un’Ape sbilenca che
svuota cantine, ogni tanto una sedia vuota di paglia, vicino ad un portone
che aspetta qualcuno.
Cammina cammina e il vento la spinge, e cuce un vestito a forma di donna,
vezzosa lo porta poco sotto il ginocchio, come fosse una garza che le ha
cucito la sarta, con i papaveri rossi e le spighe di grano, coi bottoni
davanti che si spaccano dove, una gamba un po’ magra si lascia spiare, da
un giapponese che scatta, un inglese già pieno, d’un finto Frascati a
quest’ora di giorno, che poi non è vino ma solo sambuco, come ai tempi di
guerra il caffè di cicoria, “il primo non c’è, il secondo si salta”, e
come contorno ripassato in padella, un piatto abbondante di “cocce di
fave”.
Cammina cammina e ride e si cruccia, per lei la guerra è calce e macerie,
sono solo ricordi affievoliti dal tempo, rifugi e cantine dove sbocciavano
amori, le sirene, gli aerei, San Lorenzo e le bombe, sotto il letto di
rete e sua sorella piccina, le sigarette vendute a borsa nera in stazione.
Cammina cammina e il vento non smette e modella una donna come un’anfora
antica, che bella che magra di misura perfetta, nei punti che giusti la
fanno romana, la fanno già donna in età da marito, la fanno signora aldilà
della forma, che vede negli occhi dell’uomo che guarda, e liscia i suoi
baffi ed accenna un inchino, nell’anziano che fischia e le dice sicuro,
“Se avessi vent’anni, vent’anni di meno.”
Cammina cammina e si sente regina, d’un vigile urbano che si toglie il
cappello, d’un macellaio che incolla un quarto di bue, d’un verduraio che
ammicca offrendo zucchine, del fornaio che ha smesso d’impastare ciriole,
e sudato s’asciuga con un fazzoletto di stoffa, la fronte che bolle per
chi sa quale sogno, e un pensiero che scappa e l’altro che annoia,
pensando che a casa sua moglie lo aspetta.
Cammina cammina e ride davvero, ad un vecchio che ciuccia un mezzo
toscano, ad un piccione che tuba, ad un altro che becca, ad un tale di
spalle che fa i bisogni sul muro, al robivecchi che vende patacche di
ferro e giura e stragiura che hanno valore, che risalgono a Cesare o a
Nerone più o meno, e le rifila in inglese incerto e romano al primo
turista con la faccia da pollo.
Cammina cammina sorride e ringrazia, lo zingaro bimbo che le regala una
rosa, il vetturino vestito di giallo di ocra, che le offre un passaggio
per dove lei vuole. E lei ride, ride contenta, perché non c’è malizia in
quello che sente, perché i suoi vent’anni la fanno leggera, la fanno più
bionda con la chiara dell’uovo, più alta di Wanda la sua amica del cuore,
e la vita del resto non l’ha sfiorata che in parte, qualche amore
sbocciato e poi svanito nel nulla, qualche ballo che lento andava più
oltre, una mano che stringe e l’altra furbetta che scende fin dove è
lecito andare.
Tra un giradischi che gracchia, suo fratello che aspetta, una luce si
spegne e qualcuno si bacia, “ma è tardi e a quest’ora devo proprio
rientrare”, e lui che si offre ed ha un viso gentile, d’accompagnarla fin
dove nessuno la vede, tra i sentieri di fratte e una stretta di mano, un
bacio di fretta a due passi da casa, senza lasciare nessuna punta d’amaro,
senza pensare che c’è qualcosa di male, farsi baciare e sentire il sapore,
sulle labbra e nel cuore che libero batte.
Cammina cammina e ride contenta, perché se non lui sarebbe un altro, con
lo sguardo profondo nero carbone, nel sogno lo sogna con gli stessi suoi
occhi, e sa di sicuro che non deve affannarsi, perché tanto verrà di
giorno o di sera, perché tanto verrà vestito da festa a chiedere serio la
mano a sua madre, in sella ad una Vespa rossa fiammante, magari anche a
piedi con le braccia da uomo, con gli zigomi alti anche se non proprio
romano, davvero verrà quando meno l’aspetti.
Cammina cammina e la porterà al mare, che lei non ha mai visto e lo
immagina grande, quanto quel prato dietro la casa, dove una sera ha visto
Maria, proprio Lei la Madonna, la Vergine Santa, vestita elegante, vestita
d’azzurro, che le ha accennato un sorriso e poi è svanita nel nulla.
Cammina cammina e scende e poi sale, perché Roma davvero è fatta sui
colli, di ripide scale, di salite più erte, di chiese barocche e palazzi
umbertini, di marciapiedi sconnessi di buche e di storte. Davanti ad ogni
edicola si fa il segno di croce, alle volte si ferma e s’inginocchia
devota, alla Vergine Santa che chiama ed invoca, perché protegga sua madre
e sua sorella stia bene, e se proprio rimane ancora qualcosa, faccia che
domani abbia dei figli, una femmina e due maschi e suo marito sia buono e
che abbia un lavoro perché il resto non conta.
Cammina cammina e lo vede elegante, come il commesso che vende cravatte,
nel negozio di Anticoli su via Gioberti, che non porta la fede e la saluta
ogni volta, quando a volte la sera sottobraccio a sua madre, fanno il giro
più largo per un gelato da Fassi, per qualche negozio che vende corredi,
un asciugamano di spugna, un servizio di piatti, e poi tagliano dritte per
Porta Maggiore e prendono il taxi che è un lusso e uno spreco, una
Multipla nuova nera e verde bottiglia, che le porterà a casa come vere
signore.
Cammina cammina e saluta sua madre, che ha il banco di pesce su Via
Prenestina, anzi in una traversa che non ricorda il nome, forse un
condottiero che lei non conosce, perché ha fatto la prima alle scuole di
suore, perché alle medie ci vanno solo i maschi, ed a lei davvero di
sicuro non serve, se il futuro è già scritto con tre bimbi e un marito, il
gas diretto e l’acqua corrente, il telefono in ingresso appeso al muro,
una cucina e due stanze vicino a sua madre.
Cammina cammina e si mette il grembiule, prende una mela da un banco
vicino, la strofina sul polso e rumorosa l’addenta , poi dietro al suo
banco comincia a gridare, che sono più belle, che sono più fresche, e
nessun’altra qui in piazza può offrire di meglio, e sua madre la sgrida
per quel modo di fare, per quei doppi sensi dove dice e non dice, per il
vestito scollato non adatto a vent’anni, ad una ragazza che vende alici al
mercato...
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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