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Adamo Bencivenga
La locanda in riva al mare
Lui ha chiesto dov’è la strada per la locanda in riva al mare, lui ha
chiesto dov’è la notte che non sia ancora fonda, nell’onda grassa di una
smania che solo all’alba poi scompare, nella stazione oltre frontiera,
nella posta dei cavalli, lui ha chiesto dov’è la pista, la borraccia ed un
coltello, per difendersi dalle insidie, dai tranelli della sera, dagli
inganni di questa luna, araba, ostile e magrebina, del mare di Melilla, la
bianca, berbera, fenicia, di questa terra oltre il confine, di razze
bianche, nere e miste, di questa lingua senza rime, roca, sorda e
gutturale, a volte arida e maschia, altre solo un po’ spagnola, che lui si
sforza di capire, se non altro per sapere, come si dice almeno albergo,
oppure notte e luna piena, oppure stanza, acqua e sonno, oppure solo un
the alla menta.
Lui ha chiesto dov’è la strada e quanto dista la Medina, e quanto costa
una cena, e quanto un bel sedere, e quanto costa un seno grande, mostrato
al banco come pere, bello quanto può valere, il gusto di quest’astinenza,
lunga quanto questo viaggio, grande come un’enclave, spacciato agli occhi
come tana, culla morbida di lana, nei giorni freddi di dicembre, nella
locanda in riva al mare, nella taverna “Al Saraceno”, unico posto per
fermare, la coda lunga della notte, le ore buie senza sonno, per truffare
il tempo lento, e poi all’alba ripartire, da questo posto dove vale, la
tasca gonfia senza fondo, di questo strano viaggiatore, senza baffi e col
cappello, che non si sa da dove venga, che non si sa poi dove torni,
perché si sa che è un pellegrino, oppure un semplice furfante, e il denaro
non ha odore, non ha alcuna provenienza, rispetto a quello acre, di una
donna in calore, rispetto a quello intenso di una notte dentro un letto.
Lui ha chiesto dov’è la strada per la locanda in riva al mare, lui ha
chiesto pane caldo, cotto a legna o sulla pietra, e calze a rete e gonne
larghe stampate a fiori o fatte a mano, svasate quanto una locanda che
accoglie calda un viaggiatore, con la trama così sottile da vederci luci
ed ombre, come un petalo di rosa, come un giglio in controluce, che
profuma d’emigrante, di merci e spezie dell’Oriente, in questa rocca sopra
il mare, in questo portico di vento, che soffia freddo all’imbrunire e
secca rami e gela foglie, in faccia a questo cielo rosso, che mai d’inverno ha
visto il sole, di questa terra senza Dio, preda di corsari neri, ormeggio
di saccheggi all’alba, di robe, ori e donne belle, grasse quanto olive
buone, grasse quanto il latte munto, su questa sabbia di deserto, velata
come la tristezza, fina e gialla d’ocra e pianto, di palme in fila
striminzite, sballottate da ogni vento, che spira freddo sulle spalle, ed
entra insieme al viaggiatore nella locanda in riva al mare.
Lui accenna ad un saluto, fa un inchino senza dire, ma nessuno gli va
incontro, nessuno che lo guardi, per donargli il suo sorriso, per
salutare lo straniero, per farlo accomodare, ai tavoli d’ulivo nero, di
legno fresco per le barche, di legno secco per verande, e posa il suo
coltello con la lama bene in vista, si siede e guarda intorno scene di
sangue e duelli, sui muri affreschi di velieri, d’assalti in mare all’arma
bianca, sui muri crepe ed odor di muffa, di zuppa calda e pesce fritto, e
mosto a fiumi buono e denso, e vino tinto di Madera, portato in botti da
oltremare, lasciato al buio per la posa, e due corde di chitarra, vibrate
e simili a un lamento, da un uomo che trascina strofe, di donne perse e
tradimenti, e un altro che fissa il bicchiere, e un altro che parla con il
mondo, in questa sala in penombra, due donne che guardano il mare, una ha
l’aria di mestiere, l’altra che ci vuol provare, e s’avvicina timorosa,
come una vergine che va in sposa, e s’allontana con un inchino, strizzando
il trucco nero nero.
Ha un nome inciso a fuoco come fosse già di un uomo, ha tatuaggio di farfalla dove il petto s’apre al sogno, dove una mano
indugerebbe, intinta nell’acquasantiera, lasciando agli occhi una fessura,
come la porta del suo tempio, danzando come una regina che sale sopra un
altare, ronzando come una vespa in cerca del suo nuovo fiore, al suono di
una corda che
scuote le sue vene, come le lame di un duello, che gemono vibrando,
di lui che guarda e lei che balla, con un diadema sulla fronte, con un
giglio tra i capelli, come le zingare di mare, come le nomadi di sabbia,
con cerchi grandi d’oro vero, e labbra rosse come il cuore, e labbra
grandi da baciare, svasate quanto le sottane, calde quanto una locanda in
questo posto in riva al mare.
Lei sorride e fa la ruota, poi batte il tempo e gira intorno, al ritmo di
castañuelas, al soffio di un ventaglio , e cante chico e cante jondo,
strozzato in gola come fandango, come una femmina di porto, come una donna
di malaffare, che mostra esperta le sue forme, e mostra fiera i suoi
contorni, puntando il dito sulla bocca, approdo di vascelli e barche,
attracco di lingue straniere, e baci caldi tra le gambe, e danze e suoni
di flamenco, musica di cardamomo, di colpi secchi come tamburi, di note
arse e vino nuovo, e odore d’anice e cannella, di gambe belle da
spogliare, ad una ad una per capire, quanto sia buono questo miele, denso
dolce e fermentato, di tiglio, d’acero e castagno, del seno che si fa più
culla, all’ombra fitta della luna, nel cono magico del faro che la
rischiara e la fa bella, e la fa preda e prostituta di chi le offrirà una
rosa, e lei balla balla balla al canto di una storia
vera, che narra di un viandante impigliato nella rete, di quelle calze
nere, di quel velluto rosso, e istigato dal piacere dia un senso a questa
danza, e chieda quale sia il prezzo, quale il pegno da pagare, e quanto
breve sia la strada, per quale parte della notte, quale faccia della luna,
quale tavolo di legno, o nella stanza al primo piano, nella locanda in
riva al mare. |
Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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