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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
L'amante



 
 


Mattina presto, le sette meno cinque, seduta in questo bar aspetto, rumori di zucchero e caffè, odori di brioche. Aspetto. Gente che entra, trafelata di corsa, si mischiano profumi, voci e giornali. Odori di stampa, ombrelli bagnati, passi come ovatta. Guardo dentro e guardo fuori, le luci dei lampioni sono ancora accese. Aspetto. Sono come dentro un altro film, mi sento come fuori posto, il cameriere mi scruta, non s’avvicina, sa che deve aspettare, come tutti i giorni da tanti giorni. Ed io aspetto, le sette ed aspetto. Guardo fuori, guardo dentro, guardo l’orologio. Tra poco arriva, penso e sorrido, soddisfatta sorrido. Poggerà il suo cappello sulla sedia vuota ed io lo guarderò fisso per indovinargli la notte, lo guarderò negli occhi perché nient’altro posso fare. Sono gelosa. Ebbene sì, gelosa della sua vita, di quello che respira, di sua moglie e dei suoi figli, della sua bella villa e delle rose in giardino, del gatto siamese che s’addormenta sulle sue ginocchia.
Gelosa sì, ma gelosa di cosa? Se mai ho respirato il suo alito. Se mai fuori da qui m’ha detto che m’ama. Sono gelosa. Di cosa? Se mai ha visto le trasparenze che porto, il circo che fibrilla sotto la mia gonna. Mi viene un dubbio se mai m’abbia visto senza cappello.

Le sette e cinque ed aspetto. Lui mi fisserà le mani, le unghie, apprezzerà questo smalto che è lo stesso da sempre, per esser sicuro che nulla sia cambiato, per misurarci quanto bene ancora gli voglio. Certo che lo farà dicendo che mi vuole, che m’ama, che domani è diverso. Sottovoce intensamente, guardandosi intorno dirà che i miei occhi sono fatti per amare, che la mia bocca avrebbe un senso, ma poi tace, si ritrae, sa di essere inconcludente. Se continuasse s’impegnerebbe, per un banale appuntamento che non c’è, che non c’è mai stato. Magari per un albergo, una pensione. Guardo l’insegna qui fuori. Pensione Aurora, primo piano. M’andrebbe bene anche quella.

Le sette e dieci ed aspetto. Riderà accarezzandomi la mano, guardando di traverso l’emozione sul mio seno. Riderà chiedendomi sottovoce il colore dei miei slip. Lo chiederà tanto per sapere perché rosse o nere nulla cambierebbe. Le ore di questo giorno non cambierebbero percorso, piene, troppo piene per avere spazio, troppo vuote per costruirci un altro sogno. Le sette e dieci ed aspetto. Il cameriere mi guarda. Sono bella, bella! Quanti uomini vorrebbero… Quanti uomini oserebbero… un invito, un pranzo, una rosa ed una chiave per aprire il mio cuore. Intanto aspetto, aspetto un uomo per mezz’ora la mattina. Tutte le mattine. Dentro questo bar, questa folla, di occhi e mani, di rumori assordanti, di vetrine e tazzine e telefoni che squillano.

Le sette e un quarto ed aspetto. Guardo dentro e guardo fuori. Piove, oggi piove su un traffico impazzito. Guardo fuori, guardo dentro, guardo l’orologio. Avrà fatto tardi! Bloccato in qualche ingorgo. La moglie, i figli, la scuola. Come mi sono ridotta! Tutti i giorni, ogni giorno. Come fare il pieno di carburante dallo stesso benzinaio. Vederlo per un attimo, per sapere che esiste, per ribadire che ci sono come un filo che rammenda i giorni alle certezze. Lo aspetto per aspettarlo ancora, perché questa attesa non abbia fine. Mi dirà che va tutto bene, maledettamente tutto bene, che mi pensa, perché quel pensiero è l’unico mio tesoro, perché i suoi occhi, le sue mani dopo un attimo scompariranno, dentro altri occhi e mani, dentro altre donne in agguato, dentro il giorno che lo risucchia e lo riporta in altri dove. Da anni non c’è tempo, i suoi figli e mio marito. Da anni non c’è ora, un bar, la sua faccia, il mio trucco e il mio cappello.

Le sette e venti ed aspetto. Mi parlerà dei figli, d’un viaggio, d’una macchina nuova. Sicuro che lo farà! Parlerò di mio figlio, d’un viaggio, di una macchina nuova. Mi chiederà di mio marito, gli chiederò di sua moglie, senza mai andare oltre, cosa succede dentro quei letti di spine e di illusioni. Poi si alzerà chiamando il cameriere, ne approfitterà per sbirciare le mie calze. Come se tra poco ci aspettasse un albergo, dentro quella insegna fatiscente, Pensione Aurora, primo piano. Ma io sogno e vado altrove, sogno una finestra, un lago, un amore. Come se tra poco accarezzasse le mie gambe, salisse oltre questa gonna dove non m’ha mai conosciuto, nylon, merletti che si sciolgono impazziti, ruotano eterni senza una mano che li fermi, uno sguardo che provochi imbarazzo. Sogno. Mi parla, gli parlo, s’accavallano le voci. Mi stringerà la mano. Furtivo, si guarderà intorno. Mi parlerà e gli parlerò più convinta, d’un giorno che sembra oggi, domani, insieme abbracciati, le labbra che già sento, baci e sorrisi, ore che passano senza fretta e rumore, di un tramonto che s’adagia sopra il davanzale, di un’alba che rischiara un letto sfatto e penetra come il vento per asciugarci il sudore. Il mio, il suo in un vortice di suoni, d’odori e di voglie consumando ogni affanno, di fiati e d’ardore sotto la sua carne, che preme e sa d’amore, che spinge e sa di uomo, che s’insinua e si fa strada.

Lo conosco da mesi, conosco i suoi occhi, lui conosce la mia mano, la mia bocca che si schiude per parlare, che a null’altro può servire dentro questa folla ovattata, questo bar pieno d’ombrelli, di uomini indiscreti e sguardi penetranti. Perché loro lo sanno che sono un’amante, da come guardo l’ora, da come porto il rossetto, da come porto il cappello, da come aspetto. Ma io aspetto solo lui, il mio unico sogno, lo desidero, lo immagino, in un letto che non conosco, non conosco la sua pelle, se fuma dopo l’amore, se mi lascio poi guardare. Se distesi o contro un muro per la voglia e per la fretta. Chissà se poi ancora vuole, chissà se parla o ride, se mi lascia esausta a guardare il soffitto, a contare quante stelle mi rischiarano sfamata dentro un vortice di letto. Sorrido, ho vergogna che intuisca. Perché le sue parole non sanno di quel sesso che divora mani e ventre, come se naufragasse sul mio seno ogni slancio, se la voglia di far l’amore fosse solo a parole.

Le sette e venticinque ed aspetto. Chissà se sono solo io a crederci, chissà se lui invece stia aspettando solo l’occasione. Per ora aspetto. Aspetto la sua mano che mi tormenta, mi stringe dita e mani e poi ricomincia. Chissà che darei per un attimo soltanto, che s’infilasse nella manica, sfiorasse il mio polso, e poi più su, rigando la mia pelle, in mezzo a questa gente che viene e sta andando. E poi ancora seguendo il percorso, la mia vena, una strada, per arrivare fino al gomito, all’oblio d’un brivido intenso che autonomo va oltre, e si ramifica sulla schiena, che m’avvolge tutto intero e poi si sdoppia tra i miei seni, e poi ancora un altro brivido che scende e s’avviluppa dove ora impercettibilmente divarico la voglia, dove ora evidente chiudo le gambe e tiro il fiato.

Le sette e mezza ed io aspetto. Mi chiamerà mio tesoro come se davvero lo fossi, mi chiamerà amore caro come se ci fosse stato, almeno un bacio intenso di labbra e di rossetto, come fossimo due amanti persi nella brama, come se questo bar fosse un bistrot sulla Senna, io e lui da soli dove nessuno ci conosce, dove è lecito sognare prendendoci per mano. Ecco, mi chiama e mi richiama come fossi la sua tana, alcova di segreti che nascosti stanno dentro, e mai usciranno se l’amore non ci ha mai visti, distesi a scambiarci parole dentro un letto. Emozioni sul soffitto che fanno mulinello, sospinti dall’autunno che mi sorprende più leggera. Ed entra un vento freddo misto a pioggia e tramontana, parole che rimangono appese alla spalliera, sospese ci reclamano ancora e per sempre, un’altra volta, strozzate sul mio seno e lui mi lega e poi s’avvinghia, che m’abbraccia e sembra eterno, il suo amore, la sua amante.

Le sette e trentacinque ed aspetto. Sorrido, è curioso sentirsi così infedele, quando tutta la passione si sciupa in un istante, quando tutto il tradimento nasce e muore in un secondo. Si consuma a buonora nel sogno di sentire il suo impeto che bacia, che divora pelle e carne dalle parti del mio cuore, che poi non è cuore, ma gambe ed odore che a rivoli trabocca. Oddio il mio seno! Chissà se lo tocca, se impazzisce nel vederlo. Se lo stringe o lo ignora. Qui ne percepisce la misura, ma non conosce quanto è caldo, quanta sostanza posso offrire, se solo lo volesse! Se solo lo baciasse! Perché io sono pronta, sono sempre stata pronta! Mi vesto giusto apposta per farglielo intuire, mi spoglio e mi rivesto ogni giorno nello specchio, per dirgli cosa perde quando passa un altro giorno, per dirgli che mi basta un semplice messaggio. Chiamerei la mia collega, “oggi ho mal di testa e non vengo a lavoro”, oggi è un giorno nuovo di tendine alla finestra, d’amanti clandestini con il bagno in corridoio.

Le sette e quaranta ed aspetto. Dentro questo bar che sa di cappuccino, di passi che di fretta sanno dove andare, di tacchi di signore che vanno dentro il giorno. Chissà se sono amanti o lo sono state? Chissà se una volta sola hanno avuto l’occasione, o aspettato giorni e giorni come ora mentre ferma io rimango, incollata nel mio sogno, aggrappata a questi istanti. Ancora due minuti per illudermi che non sia tardi, e poi mi alzerò piena dei miei vuoti, di dubbi che non voglio che si facciano certezza. Ancora un minuto per vederlo arrivare, che mi sorride e poi si scusa, ma sa che lo perdono. Perché senza di lui sprofonderei nell’abisso come se le cose si privassero del loro senso e lo specchio del mio giorno smettesse di riflettere. Ancora un secondo ed aspetto, stringo gli occhi e li riapro, sicuramente poi lo vedo che mi riempie e mi ristora, che ravviva i miei colori, nelle ore di questo giorno perché siano più svelte, nel desiderio che sia domani e domani dopo l’altro.

Le sette e quarantacinque, guardo fuori, guardo dentro, guardo l’orologio, è tardi devo andare. Chissà forse un contrattempo, un impegno imprevisto, una malattia di stagione, forse i figli, la moglie, la macchina che non parte, chissà, ma io non potrò sapere. Guardo fuori e guardo dentro, guardo il telefono che non squilla, nessun cuoricino per dirmi sto arrivando. Non posso chiamare. E’ la prima volta in tanti mesi! M’alzo e vado. Sento lo strascico del nulla che mi insegue, la coda di questi rumori che sanno di mancanza, mi volto, lo immagino di corsa trafelato, ma se ora spuntasse non ci sarebbe differenza, nulla proprio nulla di cambiato. Se ora fosse qui… Saluto il cameriere, lui mi guarda sconsolato, sa che sono triste. Esco, guardo a destra ed a sinistra, niente, non c’è, non vedo il suo sorriso, la sua ostinazione che domani è un altro giorno, ma forse è proprio oggi quel giorno e non serve aspettarlo. Strano! Nessuna velatura appanna i miei occhi. Strano! Questo giorno non è più vuoto di quelli precedenti.

Le sette e cinquanta e vado, sono in ritardo, apro l’ombrello, un vento gelido mi alza la gonna, oddio che imbarazzo! Tutto inutile, come è inutile la mia gonna, il mio rossetto nuovo, come è inutile questa pioggia che cade. Oggi è brutto tempo per davvero. Vado, per la prima volta non l’ho visto, neanche un messaggio per dirmi che tarda, che non verrà, un messaggio per sperare, per cucire l’attesa da oggi a domani. Oggi è davvero un giorno diverso, eppure fuori tutto è uguale, tutto come prima, la faccia del vigile, il signore della lotteria che vende la fortuna, l’insegna del negozio dove lavoro, la mia andatura precaria per via dei tacchi, il sorriso del portiere della Pensione Aurora. Ma vado. Vado galleggiando su questa nuvola d’asfalto sorpresa che nulla, nulla sia cambiato. Attraverso la strada, tutto è uguale, tutto come prima, ed io vado, vado per sempre.


 






Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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