La Maison Rouge
Conosco gli uomini, li
conosco a fondo, nelle parti basse e in quelle del
cuore, dove ogni respiro è un comando ed urlo
scomposto, una richiesta d’aiuto. So quando devo
tacere, quando le labbra servono ad altro.
A
Saigon c’è una casa senza finestre. Se passi di
notte per Dai Lo Nguyen non puoi non notarla. Qui
non si parla la nostra lingua, ma un brusio bastardo
di inglese e francese, di tai e cinese che s’accalca
ogni sera per prendersi il meglio.
Lungo la
strada un interminabile flusso di biciclette che
trasportano montagne di merce, di miseria e di
guerra, di intere famiglie a passeggio, ma dentro la
casa solo sciami di sete e suoni europei dove si
mangia, si scherza, si balla e se sei ricco puoi
farci l’amore.
Sai, qui si crede nel destino,
quello benevolo che nonostante ci abbia fatto
nascere povere, ci fa crescere belle, appetibili
agli occhi di qualunque straniero. Se tu non hai
nulla in contrario puoi fare di noi un’amante, una
devota ragazza che ti segue nel bene e nel male per
il tempo che rimani da queste parti.
Seguirà
l’ombra dei tuoi passi nell’unica meta dove non
esiste la guerra, lungo le strade dove non c’è fango
e dolore. Ma se vuoi, se è troppo gravoso l’impegno,
puoi tranquillamente affittarla ogni sera, senza
promessa o dovere e nemmeno un acconto.
Lei
t’aspetterà frusciando la seta sulla pelle pulita, e
tu potrai fidarti ad occhi chiusi, perché lei
conosce a memoria i vicoli stretti e le stradine più
fitte, conosce a memoria le stanze qui dentro, dove
non si sente il rumore, il rimbombo soffocato di
mortai e cannoni. Non si sente l’odore rappreso del
sangue, polvere e terra che tura il naso e secca le
mani, ma quello d’oppio e tabacco che si fuma per
deridere la vita ed insultare la morte.
Se
arrivi a Saigon dall’aeroporto non puoi non fermarti
nella Maison delle 150 fanciulle, perché il tassista
prende la mancia e non ha di meglio da offrirti
lungo l’unica strada dove non ci sono macerie ed il
neon intermittente ti fa credere altrove.
Lui con orgoglio te ne parla fitto in francese, di
ragazze che lui non ha mai visto, di ballerine a
tariffa che non osano guardarti negli occhi, a meno
che tu non lo voglia o loro s’accorgano che potresti
invitarle di nuovo.
Il tassista ti parla di
stoffe orientali cucite a Parigi, di seni abbondanti
dove farci un nido la sera, ma tu non ci credere!
Noi qui siamo tutte piatte per fame e natura, ed i
vestiti che indossiamo sono cuciti a mano dalle
nostre madri, dalle nostre sorelle più brutte, che
si danno da fare perché almeno una di noi sia
d’aiuto a tutte le altre.
Ti chiederanno se
sei sposato, se hai dei figli, ma poi non ha
importanza se lo sei veramente, perché quello che
conta è un letto a baldacchino, è ripararsi dalle
mosche quando si dorme, lavarsi la faccia con
l’acqua corrente.
Se vieni a Saigon non
giudicare da occidentale, non pensare che siamo
carne da bordello, perché non è un ballo continuato
al piano di sopra che ci fa puttane, non è un
rifiuto che ci fa sante.
Le centocinquanta ragazze
Stavo ballando
ma ti ho notato comunque, perché nessuno straniero
passa inosservato quando entra la prima volta. Ti
sei guardato attorno, chissà se già mi stavi
cercando, se il tassista era mio fratello. Lui s’è
messo in testa di farmi reclame, ha stampato dei
biglietti su carta di riso. Dice a tutti che sono
bella, la più brava se hai certe intenzioni.
“Signore, quella è carne di seno che avanza se vuole
riempirsi la bocca…” Fa l’inchino più volte e ripete
che non vuole nessuna percentuale. Il gioco è solo
farti incuriosire, e spesso ci riesce.
Tu
volevi un tavolo vuoto per sederti e goderti la
scena, magari contarci per verificare se fossimo
davvero 150! Le più belle che Saigon può offrire, le
più graziose partorite nel fango d’una guerra
infinita. Nessuna esclusa, perché sarebbe davvero
uno spreco essere belle e fare un altro lavoro,
ammesso che ci sia, che ogni giorno si possa
sbarcare il lunario distante da questa casa senza
finestre.
Non ci siamo mai contate, ma siamo
tante, belle davvero, che se per caso avessi il
cuore vuoto ti potresti innamorare di tutte.
Il tassista, sempre lui, già ti aveva messo in
guardia.
“Signore, è inutile che cerchi altrove!
Non esiste donna bella che non faccia il mestiere.
Non esiste altra casa che possa offrirle di meglio!”
Una decina di noi già ti faceva capannello.
“Compri un biglietto signore! Io, ballerina a
tariffa.” Ti dicevano in francese, in inglese e in
un misto bastardo per essere le prime, per essere
capite e non aver concorrenti.
“Io, ballerina a
tariffa.” Ripetevano in coro, ma tu già mi avevi
notata da lontano.
Non sarei mai venuta se tu
non m’avessi chiamata, non mi sarei mai seduta
accanto a te se non m’avessi sorriso. Hai chiesto il
mio nome e m’hai guardato le scarpe. Per un attimo
ho avuto timore che non ti piacessero. Ma stavi solo
pensando.
Mi hai chiesto se fossi libera e m’hai
fissato negli occhi una luce smorta che ancora
ricordo. Eri un giornalista, ma non ne avevi la
faccia, eri irlandese ma non ne avevi la pelle.
Sai qui ne sono passati tanti, tutti con la
fretta nel sesso ed il cuore già pieno. Sarebbe
bastato un biglietto per invitarmi a ballare, ma tu
ne hai comprato un blocchetto da dieci e mi hai
voluta seduta. Guardavi muto la parte in ombra del
mio viso, tu eri diverso! Solo un attimo ed ho
creduto d’amarti, come si ama un bambino smarrito
che ti chiede la strada. Ero stupida vero?
Entrando qui dentro avevi portato con te il tuo
cuore, ma poi mi hai spiazzata e non ho capito più
nulla. Mi hai chiesto se potevo procurarti una casa!
Per questo sarebbe bastato il tassista o qualunque
agenzia nel quartiere cinese.
Subito dopo ti
sei alzato e sei andato via nonostante quei dieci
biglietti. Ho pensato che ne ignorassi il valore,
nessun uomo avrebbe rinunciato a dieci balli con il
diritto acquisito di tenermi per tutta la notte.
Perché il decimo ha un altro valore, è di colore
diverso e non serve per ballare, ma per sentire il
suono dei tacchi che salgono le scale, il fruscio
della seta che s’adagia su una poltrona.
Il
decimo biglietto è un letto a baldacchino, è
un’essenza cinese, una luce soffusa, una donna che
s’offre senza indugio e ti dona l’anima se il corpo
non basta, ed alla fine, comunque sia andata la
notte, ti ringrazia devota.
L’alba di Saigon
L’alba di Saigon è
di un rosso amaranto, se per caso non avessi dormito
una notte, potresti scambiarla per un tramonto
qualunque. Per tutta quella notte non ho smesso un
attimo di pensarti, sentivo che saresti tornato, ma
non sapevo quando. Qui non si lascia una donna
incompiuta, perché il nostro obbedire è più forte di
qualsiasi comando.
Ai piani di sopra della Maison
Rouge ci sono quindici camere, tutte arredate di
rosso, tutte accoglienti per chi ha deciso di
passarci una notte. Quindici soltanto, una per ogni
dieci ragazze, ma non è mai successo di trovarle
tutte occupate.
Qui c’è la guerra, c’è la
fame e un uomo del posto, per quanto ricco, non
arriverà mai a prenotare una stanza, a tenerci una
notte mentre la musica riempie la sala di sotto. Può
comprare alla meglio un biglietto, per un ballo
soltanto, per sfregare la seta senza toccare la
pelle, per sentire l’odore d’una donna che non
porterà mai a letto.
Se ripenso che tu avevi 10
biglietti! Mi viene quasi da piangere. Alle volte
non capisco la mentalità occidentale. Mi fate
rabbia! Non avete il senso della misura e dello
spreco. Ma non scadono, non preoccuparti, puoi
tornare quando vuoi!
Qui non occorre aver
diciotto anni per fare l’amore perché solo i ricchi
sanno l’anno ed addirittura il giorno preciso in cui
son nati. Noi qui siamo tutte ballerine senza tempo.
Basta una ruga per essere vecchie, una velatura
negli occhi per fare un altro mestiere. Ma quelle
che sono qui dentro sono di prima scelta e lasciano
a chi parte per sempre almeno la voglia di tornarci
una volta. Qualcuno è tornato da vecchio, cercando
chi gli aveva dato un sorriso, ma poi non l’ha
trovata ed è rimasto felice lo stesso perché per voi
abbiamo tutte gli stessi occhi, la stessa fede di
donare l’amore.
Ti prego se torni a cercarmi non
comprare il biglietto, ne hai ancora dieci da
consumare ed io li tengo con cura, riposti dentro il
mio seno. Sono dieci balli che mi faranno sognare,
per dirti che ti ho prenotato una casa in un
quartiere tranquillo, dove vivono soltanto
stranieri.
La casa è in mattoni ed i muri
sono bianchi, nel bagno e in cucina arriva l’acqua
corrente. Quando ci passo, già sogno che potrei
farti compagnia in veranda nelle notti di luna, nei
giorni di pioggia coperti dal fango. Se vuoi non
metto vestiti, ma rimango nuda perché tu possa
guardarmi il cuore attraverso la pelle, nell’anima
tutta che è un peccato coprire, perché t’amo anche
se ti ho visto per pochi minuti.
So che tu non
sei uguale agli altri, che chiamano amore quello che
sentono dalle parti del sesso, che confondono ogni
notte nelle mutande e ad ogni alba svanisce come un
buio dentro la luce.
Povera m’illudo e
continuo a pensarti e stringo questi dieci
biglietti. Ogni tanto li conto sperando che siano
meno, perché allora sì che avremmo ballato e tu
avresti sentito il calore che fa la pelle sotto la
seta.
Forse sei andato via perché t’eri pentito e
non sapendo che dirmi hai inventato la scusa della
casa. Forse invece avevi solo da fare, ed il tempo
con me sarebbe stato uno spreco.
Non t’ho
chiesto se fossi arrivato da poco, se qui fossi solo
o una moglie ti stesse aspettando in albergo. Se
fosse questo il motivo, sappi che mai una ballerina
a tariffa ha fatto domande o s’è illusa d’avere in
esclusiva l’amore. Comunque t’aspetto.
Io, Numi
Sei tornato con
una donna bellissima accanto, mi hai detto che era
tua moglie, ma non mi hai guardato negli occhi. Hai
voluto lo stesso ballare. Nell’ombra in un angolo mi
hai stretta, baciata sul collo. Hai voluto che ti
porgessi il mio seno. L’hai solo odorato come si fa
con un fiore appena sbocciato in un giardino
d’inverno.
Non c’era avidità in quel gesto, non
c’era passione, ma solo il desiderio d’assaporare la
fragranza di un corpo obbediente. Perché non ero
bella quanto tua moglie, perché ero puttana quanto
lei non la sarebbe mai stata. Me l’hai ripetuto per
tutto il ballo e per quello seguente, fino a
convincermi che la dote che offrivo era un tesoro
che nessun’altro finora aveva mai apprezzato. Eri
ubriaco, ma sentivo di volerti bene, che cercavi
un’amante ed io ero pronta a seguirti devota come
nel ballo.
“Cara, ti presento Numi.” Tua
moglie m’ha sorriso distratta e curiosa. Mi hai
fatto sedere proprio davanti a quella cascata
interminabile di capelli incorporei e biondi. Lei sì
che aveva carne di seno per farci la tana, due gambe
per passarci una notte senza mai avvertire d’averle
esplorate del tutto.
La guardavo e ripensavo alle
tue parole di quanto puttana ero in confronto,
capivo che con quel termine non volevi intendere
donna a pagamento, che non era la mia condizione di
ballerina a tariffa per giudicarci diverse.
Lei era dura, si muoveva decisa, sicura che ad ogni
suo gesto, uomini e donne cadessero ai suoi piedi.
Ma non era sensualità vedevo solo potere. Ostentava
le gambe lunghe e piene di carne, raccogliendo ogni
volta i capelli per chiedermi quanto potesse essere
bella.
Abbassavo gli occhi ma non per timore. Da
queste parti ci hanno insegnato che non è cortese
guardare in profondo, scrutare nell’intimo chi si
conosce da poco.
Avrei voluto dirle che qui
a Saigon, nonostante l’apparenza, pecchiamo
d’orgoglio e non temiamo confronti, nella
convinzione che il comando ha bisogno d’obbedienza
per essere tale. Nessuna donna qui può far
trasparire, ad ogni suo gesto, l’eleganza
dell’amore, la condiscendenza alla voglia di
maschio, se non nasce e si nutre nella certezza di
volerlo servire.
Ma non era il contesto e la
prima cosa che insegnano ad una ballerina a tariffa
è di non mettere in imbarazzo un cliente con
discorsi incomprensibili. Chissà se tua moglie
avrebbe compreso?
E’ stata comunque gentile,
non m’aspettavo quell’accoglienza così cordiale,
addirittura mi ha chiesto di ballare mentre tu eri
andato a comprare altri dieci biglietti. Ho
rifiutato perché nella Maison delle 150 ragazze mai
è successo che due donne abbiano ballato insieme.
Qui le poche straniere che entrano si limitano a
prendere a piccoli sorsi il ruou ran e guardare noi
orientali che balliamo e qualche volta, quando ci
scappa, a vederci salire le scale. Ho sorriso e lei
ha capito, ho ballato ancora con te due, tre volte.
Siamo finiti ancora nell’alone di quell’oscurità
comoda e capiente, ma sinceramente mi domandavo
quale fosse il vostro rapporto, e che c’entravo io
in tutto questo, tranne il fatto di cercarvi una
casa.
Quando ti ho detto che avevo trovato una
casa con veranda non hai neanche voluto vederla.
“Meraviglioso, quando possiamo andarci?” Tua moglie
mi ha solo chiesto se c’erano zanzariere alle
finestre, nulla di più, neanche, che so io, la
grandezza o quanto era distante da quei colpi che ti
fanno sentire la morte vicina.
Qui le case
non sono troppo accoglienti come invece, mi dicono,
a Parigi e Londra. La vita di ogni giorno si svolge
ai bordi delle strade, sopra marciapiedi inventati
di terra e di spago o lungo le rive dei tanti
canali, dove ci si sposa e da qualche tempo si
muore. Lì viene celebrato anche il rito del cibo,
per festeggiare il buon Dio e ringraziarlo perchè
anche oggi ci ha fatto campare.
Le donne al
mattino portano pentole e fornello e cucinano per la
propria famiglia e per chi si ferma per caso. Una
zuppa “pho” non si nega a nessuno, il frutto del
drago verde è ben augurante.
Lei è entrata
per prima e senza badare ad altro si è tuffata
vestita sul letto. S’è addormentata di colpo. Ti ho
chiesto se avevi i piedi stanchi e se volevi un
massaggio, mi hai guardata strano ed io ho sorriso.
Ero contenta di poterti servire, d’accarezzare i
tuoi piedi dentro un catino d’acqua bollente. Ho
cominciato a massaggiarli e tu hai cominciato a
conoscermi. Sentivo gonfiare il tuo cuore fino a
comprendermi tutta, certa che i tuoi piedi non
avrebbero fatto più a meno delle mie mani.
M’accarezzavi i capelli, seguivi con le dita il
verso del mio naso accennato, sentivo e sapevo che
da quella sera non sarei più stata una delle 150
fanciulle.
Mi hai offerto dieci sterline a
settimana, noi con cento compriamo una casa,
naturalmente non questa, noi con cinque ci compriamo
una barca di fiume che ci serve per trasportare
verdura, uomini ed animali da una sponda all’altra
del fiume.
Ero felice e tua moglie dormiva, per
me avrebbe sempre dormito, anche perché ero convinta
che di un sogno non si butta via niente, nemmeno il
fastidio di mosche e zanzare che di notte sarebbe
rimasto.
Tu sei andato a dormire insieme a
tua moglie, io ho girato ancora per casa. Veramente
non sapevo cosa stavo facendo e perché ero lì, se
dovevo sbrigare faccende o sentirmi solo un’amante.
Rannicchiata nel letto ho sentito una pioggia
più fitta che ingrossava il canale ed annacquava il
mio cuore. Sono rimasta sveglia a pensarti, tutta la
notte, a simulare l’amore che non era venuto, ma a
cosa sarebbe servito?
Tua
moglie
Il giorno dopo sei partito per il
nord dove la guerra vera non fa distinzioni. I
comunisti avevano ripreso l’offensiva ed i francesi
indietreggiavano facendo terra bruciata. Ogni tanto
m’interrogavo su cosa fosse la guerra, ma non
parteggiavo per nessuno dei due, volevo solo che
finisse al più presto e che la Maison Rouge
rimanesse in piedi al proprio posto.
Non
sapevo che dovessi partire. Ho pianto di nascosto,
non per la tua assenza, ma più che altro perché non
me lo avevi detto. Che stupida! Cosa potevo
pretendere?
La mattina con tua moglie siamo
andate a passeggiare lungo il fiume. Un soldato
francese ci ha scortato al di là dell’unico ponte.
Era bella tua moglie, portava un vestito a fiori
trasparente dove seminascosto prendeva luce un seno
ben fatto. Aveva legato i capelli che uscivano a
coda sotto il cappello, era felice di essere lì con
me, e io mi domandavo cosa tu non trovassi dentro
quel corpo, sotto quella pelle che odorava di sole.
Ha raccolto una spiga e mi ha legato i capelli
seguendo con le dita lo stesso percorso del profilo
del naso, come avevi fatto tu la sera precedente, ma
lei era andata oltre entrando con l’unghia tra i
miei denti fino a sfiorarmi leggera il palato.
Senza rendermene conto ho leccato quel dito
rimanendo delusa quando di colpo l’ha tolto. Ho
visto un’ombra tra i suoi occhi.
“Sai Numi, noi
siamo girovaghi del mondo.” Non sapevo bene cosa mi
volesse comunicare. Ha aggiunto che da anni ti
seguiva e come reporter di guerra non avevate mai
vissuto un mese tranquilli. Sentivo che t’amava, ma
non mi sentivo di troppo ed un abbraccio più forte
mi ha strozzato il pensiero.
Ero imbarazzata, ho
tentato di sottrarmi all’abbraccio.
Il
soldato francese che non ci aveva perso di vista ci
ha aiutate a salire su un battello. Tua moglie si è
seduta sul bordo della barca, il vento le gonfiava
la gonna. Osservandola sembrava come se da un
momento all’altro avesse dovuto volare, spiccare
quel volo che solo il giorno prima nella Maison
m’avrebbe fatto fatica soltanto pensarlo.
Lungo i bordi del fiume c’erano palafitte e vita,
uomini cotti dal sole che s’affannavano per tanto e
per niente, donne senza figli, puttane senza
mutande, come me dentro la Maison che aprivo le
gambe alla musica leziosa, al primo che mi parlasse
in francese. S’insinuava tra la carne più rossa,
illudendomi che non ero fatta soltanto di calli, che
gli uomini tutti erano rimasti sull’orlo di questo
piacere, come indiani correndomi intorno, lasciando
che il fuoco si estinguesse all’alba da solo.
Lungo lo scorrere d’acqua c’erano ombre piatte
senza una forma, vagavano per ricongiungersi ad un
corpo qualunque che le avesse dato ancora il diritto
di vivere, e alla luce il potere di non farle
morire. Donne e topi distrutte dalla fatica, chissà
se avevano mai provato l’amore? Come me che avevo
incontrato finora solo amori finiti e promesse
tante, che avevano speculato sui ricordi per
sentirsi essenziali, menzogne, bugie che non
conoscono più la causa per le quali sono nate dentro
questo vento che soffiava, dentro questa brezza che
mi faceva d’oca la pelle.
Sentivo il bisogno di
scendere a mare, d’essere parte integrante di questo
vociare, d’essere causa ed effetto dell’amore che
incerto acquistava una forma di donna. Chissà perché
lei m’aveva sfiorato con un dito il palato? Rimanevo
immobile ad aspettare un vortice di vento che le
scoperchiasse la gonna, che facesse apparire la sua
pelle almeno nuda, almeno bella perché di
nient’altro potesse andare più fiera.
Cosa mi
stava succedendo? Avrei pensato le stesse cose se
avessi avuto un uomo, un uomo soltanto? Se tu
m’avessi scopata la sera prima? Attratta com’ero da
quella gonna leggera, che vezzosa faceva l’amore col
vento e si gonfiava per ore cercando d’essere parte
del mondo, senza aspettare le ombre che vagavano
rimanendo sugli orli a girare.
Sentivo il
bisogno di sgretolarmi, essere il nulla per non
sentirmi inutile, per entrare facilmente nei vuoti
senza per forza doverli riempire.
Lei era lì
davanti a me, con il suo cappello eccentrico che mi
sorrideva e poco dopo si perdeva muta nel labirinto
dei suoi pensieri irrequieti guadandomi come una
ragazzina che chiede ossessiva una piccola moneta.
Poi riprendeva a sorridermi ed io ero contenta,
ricambiavo d’istinto quel ghigno di intesa come se
la mia felicità dipendesse dal suo stato d’animo.
Moulin Blanc
La sera
abbiamo mangiato al Moulin Blanc. Da queste parti è
strano vedere due donne sole che mangiano allo
stesso tavolo. Allora ho capito che non cercavi
un’amante, che stavo lì per far compagnia a tua
moglie.
Quella sera ero arrabbiata con te, col
mondo, perché non si può chiedere ad una ragazza di
Saigon di servire una europea. Non si può chiedere
ad una ballerina a tariffa di dipendere da una
donna.
Quella sera tua moglie era
affascinante, una signora di classe, disinvolta e
preziosa. Abbassavo gli occhi per paura, stava
succedendo qualcosa che non capivo. Mi sentivo
felicemente sorpresa di spartirmi, spicchi di cuore
che provavano amore per persone diverse, sessi
diversi.
Oddio che scandalo dentro le mie membra
quando tua moglie mi ha confidato d’aver paura la
notte a dormire da sola. Quella notte avremmo
dormito insieme nel letto a baldacchino, senza
mosche e zanzare, senza un uomo a farci sentire più
donne.
Io ti amavo e mai ti avrei deluso.
Sapevo che per conquistarti avrei dovuto obbedirle,
entrare nelle vostre regole, penetrare nella vostra
ragione di stare insieme. Altrimenti perché mi
avresti ospitata nella tua casa?
“Numi, voglio
che tu stia qui con noi. Per un po’ non dovresti
frequentare la Maison.” Mi avevi detto la sera
precedente mentre ti massaggiavo i piedi.
Naturalmente ero contenta, felice di servirti, ma
non ho risposto perché tu conoscevi già la risposta.
Ma ora stava accadendo l’impossibile! Ti amavo,
e sentivo l’impellente piacere di far parte del
vostro mondo, dei vostri segreti che su quella
tavola cominciavano ad avere una forma. Avevo capito
sai! L’avevo capito da quel sorriso di tua moglie
lungo il fiume, da quell’abbraccio davanti al
soldato francese, ma per me era la prima volta e
sentivo evidente il disordine dentro il mio cuore.
Il ritorno a casa nemmeno me lo ricordo, ma ricordo
le sue mani che sentivo esperte tra i miei seni, la
sua volontà ferma e troppo decisa per un cruccio
venuto all’istante.
Si è accesa una sigaretta
appoggiata alla spalliera del letto. Vestita e con
le scarpe mi reclamava. Delicata mi spingeva, mi
spingeva in basso per farmi capire il punto preciso
dove sgorgava il piacere.
M’ha chiesto di
spogliarla senza mai avere il minimo dubbio che
potessi rifiutarmi. Sapeva già che non l’avrei mai
fatto. La mia bocca era impastata per l’emozione,
curiosa di scivolare lungo quel corpo caldo e umido
sotto le lenzuola.
Era la prima volta che
sentivo in bocca un sesso di donna, un sapore deciso
di pelle e di voglia come un odore di casa chiusa da
tempo. Succhiavo e leccavo senza rendermene conto
che le stavo dando piacere, allibita che senza un
pene di mezzo si potesse comunque saziare la voglia.
Lei gemeva e spalancava le gambe per farsi
più aperta e generosa, per sentire oltre le pieghe
la mia lingua incessante. Mi supplicava di non
smettere, di indurire la lingua e darle la forza per
insinuarsi contro corrente, e continuare in un
vortice dentro come la danza di un piccione che tuba
finché il giorno domani fosse rimasto a dormire
dall’altra parte del mondo.
Mi chiamava
tesoro come un uomo normale, mi graffiava i capelli
come una donna che non l’aveva mai fatto. Leccavo
senza rendermi conto che non c’era differenza tra
femmina e maschio, leccavo e capivo quanto
quell’aria di donna borghese fosse solo apparenza,
quanto le vostre indifferenze, l’ostinazione di non
concedersi all’altro.
Capivo sai quei suoi
momenti d’assenza, quegli occhi irrequieti che ora
erano solo un incanto a guardarli e farci l’amore.
Ed a poco a poco in me qualcosa cambiava,
sentivo il piacere nel cuore di far godere una
donna, speravo che mai smettesse d’urlare, di
gonfiare il petto che chiedeva altra saliva. E
succhiavo leccavo saltando dal seno al suo sesso
come un’ape si sazia di fiori, perché dietro ad ogni
respiro c’eri tu e c’era lei, in un infinito gorgo
di passione e d’amore, di cui io ero la causa, il
rimedio alle vostre debolezze segrete.
Lei
continuava a fumare come se quella sigaretta la
facesse sentire più maschio, ed io a leccare per il
gusto di sentirmi serva d’amore, ma padrona di quel
corpo, di quella casa e di te al fronte che mi stavi
pensando. Sfiancata ha goduto fino all’ultima
goccia, ebbra di voglia m’ha cercata per l’ennesimo
orgasmo che a differenza d’un uomo era dolcemente
sfalsato.