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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
La mia matrigna




 

Bella la mia matrigna, profumo di pelle e sapone, d’acqua di rose e seno capiente, a portata di mano, a portata di sguardi, sotto le maglie strette di lana, libero e nudo per essere pronto, zeppo e ricolmo come buste di latte, seno materno per farci l’amore, troppo giovane per restare fedele, troppo grande per lasciarlo solo guardare. Perché era bella la mia matrigna, trent’anni compiuti e la leggerezza nel cuore, tra gemiti caldi nel sottoscala di giorno, tra le bottiglie in cantina e la premura di fianco, rumori assordanti che non erano topi, e passi pesanti che sentivo salire, e passi leggeri che scendevano in fretta, dentro i miei sogni, lungo la scala, dentro le mie voglie acerbe e precoci, m’immaginavo le forme, m’immaginavo i suoi fianchi, gambe belle per camminare, gambe grasse per farci l’amore.

Bella la mia matrigna, sapore di campagna e sudore, di cipolla tagliata e funghi a seccare, seduta su una sedia davanti al portone, che sbucciava fagioli e rammendava calzini, e asciugava i capelli al sole d’inverno e mi puliva le scarpe dal fango dell’orto. Perché era bella la mia matrigna, con i vestiti imbiancati d’intonaco e calce, per un bacio di fretta lasciato in sospeso, e labbra screpolate e mani di calli, per governare la casa, per farci l’amore, per lavarmi le braccia e lavarmi i capelli, la mattina di festa quando riempiva la vasca, ed io felice le sbirciavo le tette, che uscivano in parte ed a volte del tutto, pensando che un giorno le avrei potute toccare.

Bella la mia matrigna, che le scappava da ridere fingendosi austera, perché la mia bocca sapeva ancora di latte, perché troppo bimbo per pensare all’amore, e ancora tanto pane avrei dovuto mangiare, e tanta acqua sarebbe dovuta passare, sotto il ponte di legno dove giocavo al tramonto, tra le pozzanghere d’erba dove catturavo le rane. Perché era bella la mia matrigna quando con cura le preparava per cena, fritte dorate con un po’ di farina, in salsa bollite con l’origano e l’aglio, e mio padre assonnato di fatica e lavoro, che s’addormentava sul tavolo apparecchiato in cucina, e mio fratello che versava del vino, e lei che rideva per un dito soltanto, e lei che rideva perché le girava la testa, troppo poco per gustarlo davvero, abbastanza per farci l’amore.

Bella la mia matrigna, di gambe scomposte e passioni sgraziate, chiuse come vicoli stretti, larghe come foci del mare, ripassate ogni volta come verdure, dal primo capace d’infiocchettarle parole, dal secondo più esperto per saperla guidare, e farla sognare e ricamarci le storie, di principi e conti e castelli di fate, per passarci le notti, per farla impazzire, per dirle ti amo senza averlo mai detto. Perché era bella la mia matrigna, cuore di cane sfamato, passera nel nido che schiudeva le penne, patata bollente che sapeva di terra, ogni volta toccava e si faceva toccare, ogni volta baciava e sapeva baciare, e sapeva di buono, di nettare e miele, e sapeva d'incenso, di resina e legno, senza che in quel posto s’annidasse la colpa, un peccato qualunque per dire preghiere.

Bella la mia matrigna, che sentivo cantare all’alba in cucina, e sentivo sfornare pane e biscotti, con la vestaglia slacciata ed il seno abbondante, infarcito e ripieno come torta di mele, da mio fratello più grande che si lasciava la notte, per avere più tempo, per farci l’amore, mentre nel letto correva il mio sogno e mio padre nel suo continuava a russare.

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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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Photo   EvanPratamaLudirdja

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