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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
LA MUSA




 


 
 


Per mesi, per anni giravo per Roma, in cerca di terra per nutrire il mio sogno, di tane più calde per cullarmici dentro, come nidi sui rami appena viene l’inverno. Ho vagato per sere per angoli bui, per vicoli stretti dove s’inoltrano i cani, nei viali più larghi dove s’attizzano fuochi, che scaldano merce di notte a buon prezzo.

Con l’anima lacerata ho cercato ovunque, un’anima sensibile che mi stesse a sentire, nei laghi rossastri di due occhi orientali, da solo per strada dove cadeva un tramonto, proprio a due passi da dov’ero seduto. Ed ora sei qui incredibile e vera, ed io ti guardo come se fossimo altrove, magari a Touzer se ci arrivassero i treni, lungo lo stupore di un miraggio che corre, tra il lago salato ed il deserto che incombe.

Perché questi occhi io li ho visti da sempre, ed ho fatto chilometri per ritrovarmeli ora, e li ho fatti in un fiato attraversando la neve, lasciando alle spalle montagne più alte, dove il giorno si tinge tra gli squarci di cielo, di uno spicchio di luce che confondo con l’alba, con l’acqua che corre e bagna le sponde, e bonifica terre e voragini d’anni, foce di fiume che si deposita in mare.

Perché questi occhi io li ho visti da sempre, e mi verrebbe da dirti come il mondo ti appare, e come sono le case, i visi, le rughe, gli aghi di pino che calpesti d'autunno, quel sapore di muffa che ci piace e ci sazia, sul lungolago scosceso dove spuntano i pini, e la sera ci aspetta un camino che arde, pane e castagne lasciate a tostare.

Davvero te lo chiedo se da questi tuoi occhi, vedi il mondo dipinto come sopra una tela, e vedi i colori di un maggio alle porte, rischiarato dai soli che mai ne ho visti, quando il verde e l’azzurro diventano intensi, e d’arancio e di giallo sono piene le gonne, che svolazzano al vento come sciami di api, sedute qui è là in un bar all’aperto.

Davvero te lo chiedo perché ci vedo l’incanto, perché ci vedo il gusto di un’estate già pronta, di barche sul lago già piene di pesce, che galleggiano bianche ed aspettano il turno. Di questo colore mi scaldi le ossa, dove il freddo d’inverno ci ha fatto condensa, inumidito le parti che ora al calore, riprendono fiato e mi danno vigore.

Mi fanno sentire preda e bottino, perché ti guardo e mi guardi e mi viene da dirti, che in fondo ai tuoi occhi ci vedo dell’altro, ci vedo il sapore di una pesca caduta, che sa di terra dolciastra e vissuto di ieri, che sbucci decisa perché io me ne sazi, per tutte le sere che ti ho cercata davvero, per tutte le attese come grani di perle, infilate nei giorni perché passassero in fretta, una per sorte come fosse un rosario, come un grappolo d’uva che pende e s’aggruma, sul tuo cappello di paglia che vezzosa mi mostri, e tinge di chicchi d’ombre il tuo seno, e ti segna deciso quando muovi la faccia.

Perché questi occhi io li ho visti davvero, questo seno, la faccia, le gambe, sono il contorno di un’anima inquieta, che non vuole amare tanto per darsi, perché non è il sesso che ti fa femmina sazia, non è un uomo che ti riempie una sera. Perché questi occhi io li ho visti davvero, e solo ora m’accorgo che non stavo sognando, che sparsi nel mondo guardavano altro, adesso che il giorno dura di notte, e l’inverno ha lasciato in pace il mio cuore, e sento di nuovo che c’è vita e c’è linfa, che scorre e mi nutre le vene più dure, mentre ti guardo e tu sincera sorridi, e questo davvero io lo ho ottenuto per sempre...
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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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Photo  Beatrice Morabito

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