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Adamo Bencivenga
La serva
Photo Ernest K. Madej
Veniva ogni giorno alle sette di mattina, silenziosa si cambiava e
indossava il suo grembiule, con i papaveri rossi e le margherite gialle, e
legava i suoi capelli con un elastico da pacchi, direttamente in cucina
per non perder troppo tempo. Avrà avuto sui vent’anni, occhi verdi e
labbra rosse, capelli biondi sulle spalle, ma non parlava l’italiano,
buongiorno e buonasera e non capiva poi altro, annuendo con la testa come
fosse tutto chiaro, le faccende e poi la spesa ed i panni da stirare.
Dapprima spolverava iniziando dall’ingresso, poi i letti e le finestre e
in ultimo per terra, sempre muta ed a occhi bassi con un ghigno di
tristezza, con la faccia un po’ da slava e le ciabatte bianco panna.
Mai una parola per capire i suoi pensieri, mai un cenno, un’intesa, un
sorriso a scappar via, per chiederle da dove provenisse o da quanto e come
mai facesse quel lavoro, se fosse qui da sola o avesse un parente, una
madre o un’amica, o che so io una zia che come lei in un’altra casa
andasse per servizio.
Non c’erano orologi e sveglie in tutta casa,
l’unico era il mio che tenevo sempre al polso, ma alle undici ogni giorno
lei finiva di lavare ed andava giù in cucina per preparare pranzo e cena.
Nella mia mansarda sentivo quel rumore, di pentole e posate come fosse di
famiglia, dopo mesi di mortorio, di silenzio opprimente, finalmente
un’altra donna riempiva quella casa ed io sorridendo mi mettevo a
lavorare, a dipingere i miei quadri, a ritrarre le mie donne. Alle volte
anche il mare quando si faceva grosso o il sole alla finestra quando
tramontava presto, rimanendo lì per ore senza più sentirmi solo, con
l’odore di minestra, di pesce e di cipolla, con lei che dopo pranzo si
metteva a stirare.
L’avevo conosciuta per caso una mattina, che
vendeva alici ed aglio al mercato giù nel porto, presentata da Don Sandro
che sapeva che ero in cerca, di una donna tutto fare dopo la morte di mia
moglie. Il parroco mi confidò che era clandestina, senza documenti, ma
comunque maggiorenne, da qualche mese in Italia e in cerca di un lavoro,
che potevo aver fiducia perché frequentava la sua chiesa, ed ogni giorno
accendeva un cero alla Madonna, ed ogni sera per due ore in ginocchio la
pregava, chiedendo poche cose e per sé quasi niente. Non aveva una casa e
dormiva in sagrestia, non aveva figli persi, per la strada o chissà dove,
solo la domenica si concedeva un po’ di lusso, di un gelato e di un ballo
nelle feste del paese, di una passeggiata insieme alle altre parrocchiane,
che per pigrizia e per destino non trovavano di meglio, che arrivare fino
al porto passando per le spiaggia e raccogliere conchiglie per farne
collezione.
Poi un giorno, rientrando una mattina, dopo aver fatto
un po' di spesa, l’avevo vista con sorpresa seduta in ingresso, con una
mano sulla fronte e l’altra stretta in pugno, che piangeva in silenzio
come fosse dietro un vetro. Mi disse che poco prima aveva avuto la
notizia, di suo padre che era morto in un incidente sul lavoro, e lei
clandestina non poteva ritornare, per badare a suo fratello rimasto in
Romania. Mi accorsi con sorpresa che capivo e mi capiva, che parlava
l’italiano con i verbi al congiuntivo, non le chiesi il motivo, per non
metterla in imbarazzo, di quei giorni tanto lunghi senza dire una parola,
di quegli occhi troppo belli di un verde giallo bosco, che mai fino ad ora
avevo visto così aperti, che mai come ora sentivo il desiderio, di
dipingerli a mio modo, di metterli su tela.
Mi colpì sin da subito
quella dolce tenerezza e le anticipai cinque mesi e mi misi ad aspettare,
almeno un sorriso, ma non vidi nessun ghigno, almeno un solo grazie, ma
non disse una parola, perché si rese conto, mettendo i soldi in tasca, che
da me poteva avere molto altro, perché tutto aveva un prezzo come capii il
giorno dopo, quando con malizia mi disse che era pronta, ad arrotondare la
sua paga se fosse giunta l’ora, di interrompere l’astinenza dalla morte di
mia moglie.
Ci pensai una sola notte o forse un po’ di meno, quando
il giorno dopo la trovai già in cucina, notai il suo nuovo trucco, il
rossetto appena appena, una gonna corta al posto del grembiule che
scivolava lenta lenta, lungo le sue gambe adagiandosi a terra, e vidi con
stupore che non portava le mutande, e vidi un corpo magro quasi bianco
latte, un corpo da bambina e i peli biondi radi, non certo da ventenne, di
sicuro molto meno. Si sciolse in un sorriso mantenendo però quel velo, un
ghigno di tristezza, un’ombra di mestizia, ed una carica decisa ad andare
fino in fondo, dove conta la malizia e l’uomo appeso a un filo, è solo un
replicante, un magnete a un polo solo.
E furono baci e sorrisi
lungo la scala fino in mansarda, mano per la mano senza dire una parola,
ma non so chi dei due tirasse o chi nell'abbandono si facesse trainare. Ci
ritrovammo nel mio letto, tra carezze e baci buoni, tra le sue parole più
dirette che giuravano convinte, che ero il suo uomo, in assoluto ero il
primo, che mai tra le sue grazie era passato un maschio vero, ma solo le
sue dita all’alba d’ogni giorno, ma solo i suoi sogni di sera in
sagrestia.
Furono giorni e furono lune, che illuminavano i profili,
di quel corpo di velluto, obbediente alle mie mani, inesperto ai desideri,
con l’aria ingenua e la malizia, che s’affida al proprio maschio e lo
vuole soddisfare, che s’affida al proprio istinto e lo vuole governare.
Non ricordo se saltammo un giorno, non ricordo se fosse notte fonda,
quando le chiesi di getto o si fece domandare, di venire a stare nella mia
casa, troppo grande per un uomo solo. E non passarono che minuti, forse
solo dei secondi, lei venne con le sue cose dentro quattro scatoloni,
l’accolsi da regina e mi giurò solennemente, che non avrebbe fatto più
lavori, e per quelli più pesanti, li avremmo fatti insieme. Ogni tanto mi
aiutava anche se non avrei voluto, ma preferivo che rimanesse assopita
dentro il letto, a guardare il mare aperto e pregare per suo padre, per
poi pensare al nuovo giorno, al rossetto appena appena, mentre io mi
districavo tra il bagno e la cucina, la mansarda e l’ingresso, la spesa
giù al mercato. Quando ritornavo lei m’asciugava il sudore, e felice mi
buttava le braccia attorno al collo, e poi rideva sempre, oddio come
rideva, era bella la mia bimba, la mia donna e anche altro. Finché una
mattina come un fulmine a ciel sereno, rividi la tristezza, quel ghigno
sulla faccia, le chiesi il motivo, lei mi disse per suo fratello, rimasto
solo in Romania, senza un affetto, né lavoro.
Chissà cosa avrei
fatto per non vederla nell’angoscia, e le diedi il dovuto per cambiare
quella sorte, per farlo stare bene, per farla stare meglio, senza
chiederle il perché, senza chiedere come mai, dopo pochi giorni appresi la
notizia, dopo poche ore me lo ritrovai dentro casa. Per coprire le
apparenze non facemmo più l’amore, almeno per il momento mi diceva ogni
giorno, quando la mattina ci trovavamo a colazione, io già desto da
parecchio e loro assonnati, perché le mie notti erano troppo lunghe, da
solo su in mansarda con le mie tele ed i miei libri, mentre lei e suo
fratello si sistemarono alla buona, sul divano e la poltrona, uno in sala
e lei in ingresso.
Passarono altri giorni e ancora delle lune,
quando una sera aprì di nuovo la mia porta, era bella ed era vera, non
credevo ai miei occhi, e si lasciò andare come mai aveva fatto, e si
lasciò andare e venire tante volte, non credo che vedemmo l’alba, ma forse
solo il sole alto, che illuminava la sua faccia, che illuminava le parole,
d’amore e d’affetto, di stare sempre insieme, di promesse e giuramenti
quando chiesi la sua mano, quando le dissi chiaramente che la volevo in
sposa…
Lei non disse nulla o meglio disse tanto, che per via di
suo fratello avremmo dovuto aspettare, ma mi coprì di baci, di tracce del
suo sesso, che gonfiarono il mio cuore e mi impastarono la bocca. Ero
folle folle folle, innamorato come un bimbo, la presi in ogni dove anche
per la prima volta, in piedi su quel muro che era diventato il nostro
letto, perché da pochi giorni dormivo in ingresso, mentre lei e suo
fratello vedevano il mare, da sopra la mansarda, da sopra il mio letto.
Passarono altri soli, passarono altre notti, quando una mattina
ricevetti un telegramma, era mia sorella immersa nel dolore, purtroppo mio
cognato non ce l’aveva fatta, per via di un infarto violento e fatale, e
così partii in fretta e scrissi un biglietto, sarei stato fuori quattro
notti fino al funerale. Ma era estate ed era caldo e mio cognato fu
sepolto in fretta, tanto che il giorno dopo rientrai all’alba presto, ma
già sulla porta sentii uno strano odore, che sapeva di destino, di puzza e
di morte e pensai a mio cognato, ai fiori, al cimitero. Feci quattro
passi, salendo in mansarda, solo quattro passi per vedere con i miei
occhi, ciò che troppo evidente, che chiunque altro, avrebbe già intuito
sin dall’inizio della storia.
Feci quattro passi e sprofondai in un
abisso, Dio quant’era bella, aperta a quel ragazzo, gemeva e poi fremeva
chiedendone ancora, ed io troppo innamorato decisi di non urlare, di
lasciarla continuare per chissà quale incanto, come se fossi io a guidarla
fino al picco di piacere. Passarono secondi ed io in piedi li guardavo,
zitto, muto, senza dire niente, rimanevo allibito, da tanto amore e tanta
forza, del maschio e della donna avvinghiati nel mio letto. Pensai che
solo un pazzo potesse vederci la bellezza, un quadro e dei colori, l’arte
e il sentimento.
Rimasi non so quanto tempo, poi scesi un attimo in
cucina, presi un coltello, ma solo per spaventarli, se tante volte si
fossero accorti della mia presenza, se lui in qualche modo avesse reagito.
Poi risalii le scale col cuore in gola, certo li avrei lasciati fare,
convincendomi ad ogni bacio, che erano giovani e belli ed io un pesce
fuori d’acqua, ma lui si accorse della mia presenza, voltandosi per
sbaglio, mi urlò che ero un vecchio, schifoso e pervertito, spiccicando le
parole in perfetto italiano.
Lei non disse niente, mi guardava
fisso il cuore, forse solo infastidita per via di quell’orgasmo, lasciato
appeso ai fili come panni ad asciugare. Pensai chissà quante altre volte
li avessi interrotti, e mi salì una rabbia forte quando lui per dispetto,
volle farmi uno sfregio, rientrando in quelle grazie, affondando come un
fabbro, senza tatto e senza grazia, ma solo per mostrarmi quanto fosse lui
il padrone, gridando quanto quella donna, fosse solo sua, solo sua e di
nessun altro, con tutta la violenza che non potevo più sopportare, con
tutta l'indolenza di un giovane ventenne.
Allora mi avvicinai e fu
buio e notte fonda, furono spilli e sangue denso dentro i miei occhi,
allora mi avvicinai e furono secondi, pochi per riflettere e tanti per
agire, poi presi le mie cose ed uscii da quella casa, diretto alla
Stazione dei Carabinieri più vicina.
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Penitenziario di Massima Sicurezza
Casa circondariale Lungomare Vespucci
Braccio Ovest
Isola dei Cavalieri
Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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