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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
LA STAZIONE


 


 
 


Immobile la guardo tra questo imbrunire, di luci violente e l’ombra che cala, abbagliato e nascosto dai fari dei treni, quelli locali che arrancano lenti, quelli importanti che fermano altrove e qui lasciano solo rumori assordanti, un vuoto che fondo sembra un risucchio di sprazzi di luce che rischiarano a giorno, il suo viso, la gonna, la sala d’aspetto. Non c’è più nessuno qui dentro, solo inservienti, perché l’ultimo treno è arrivato da un’ora e la prima partenza è prevista domani, alle sei e tre quarti al secondo binario che fa da sveglia e richiamo ai barboni che ora, fuori dal vetro rannicchiati all’inverno, si scaldano ai fiati e ciucciano buste e chiudono gli occhi come se fossero tette, ripiene di latte al gusto di vino. Tutt’intorno l’odore di polvere alzata, tutt’intorno il silenzio che vuoto m’avvolge, solo un rumore di una porta che sbatte, che cupo rimbomba e si spegne sul muro, quello di destra dove un orologio in metallo, fermo da sempre fa le nove e ventuno, quello a sinistra sopra una crepa che corre su una reclame di legno scolorita dal tempo, con una bionda abbronzata su una spiaggia da sogno, che t’invoglia e ti invita per un bitter Campari.

“Ma cosa ci fa qui ancora in attesa?” E’ passata mezz’ora e la vedo impaziente, seduta sul bordo di una sedia malferma. La spio e la fisso senza che lei se ne accorga, perché non sia mai che si senta a disagio e si alzi di scatto e mi lasci da solo, a guardare la scia che lascia quell’ombra, a fissare gli orari e cinque sedie di fila, che è tutto l’arredo che offre a quest’ora, questa sala d’aspetto che non aspetta nessuno, tranne quel cane che si è fatto adottare, ed ogni sera alle sette bussa e pretende, senza un gemito, un sibilo a forma di grazie e s’accuccia padrone all’angolo in fondo, sotto una sedia che ripara alla luce un occhio che vigila e l’altro che dorme.

La guardo, la scruto insolita e bella, mi verrebbe d’alzarmi e domandarle il motivo, mentre la fisso su quel fascio d’insegna, che giallo, che viola le sfiora le gambe, che verde, che rosso le abbonda le tette. Non perdo nulla di quello che m’offre, un niente di pelle sotto l’orlo che appare, una maglia di calza per indovinare se oltre, c’è una donna di classe che muta s’aspetta, una corte all’antica, un invito diretto, un’avance che a caso possa darmi il permesso, di dirle “Signora, Buonasera, Mi scusi”, per avere certezze semmai non bastasse, per sapere fin dove arriva l’intesa.

Le guardo le dita ma non porta la fede, le guardo le mani per indovinare i suoi anni, la pelle del collo se ha passato i quaranta, perché basta un indizio per ricamarci una storia, un segno, una traccia per costruirci un castello, di fate o di streghe e un ponte che s’alza, oppure di sabbia, di vetro e conchiglie che il mare  poi bagna e il vento l’asciuga. Perché dallo sguardo si giudica un uomo, ma dalla tinta di rosso una donna che vuole, che sborda le labbra e le sborda fin dove, la forma che offre è una tana e una culla di femmina calda clandestina e signora che aspetta l’amante o lo vuole trovare. Oppure magari è una di quelle, che aspetta un cliente che la porti in collina, per una festa da ballo, per un party per pochi, in quelle case da sogno con le scale di marmo, in quelle ville importanti coi recinti più alti, ed alberi e parchi e fontane in giardino, una fila di aranci per quattro stagioni lungo il viale di pini che curva al tramonto.

Ma sono pensieri che scivolano in fretta, di un uomo a quest’ora che non ha nulla da fare, che inganna le sere leggendo riviste o altrimenti se è in forma fa parole crociate, tre verticale il nome di Baggio, inizia per erre e in totale son sette, mentre la fisso e lei non mi guarda, mentre distratta accavalla le gambe.

Chissà se fa l’amore nel letto e spegne la luce, se si lascia abbracciare per un bacio più intenso, che le sazi le gambe e l’appaghi del tutto, oppure è di quelle che si fanno guardare, mentre sfila la calza con un piede sul letto, in uno sfondo di luna che in penombra la sfuma, le scontorna perfetto il profilo del seno ed emana fragrante la voglia che sale, che sa di resina e miele che cola e s’addensa, che sa di acero in fiore, di conifere a maggio, perché dall’odore potrei essere certo, se passerà questa sera per conoscerla meglio, perché il profumo dolciastro, fruttato ai capelli è il chiaro segnale da non lasciarsi sfuggire. Ma che vado a pensare mentre poggia la borsa, sulle ginocchia e rovista all’interno, affoga il suo naso per cercare, ma cosa, forse un fazzoletto o il cellulare che vibra, oppure un’agenda per essere certa, che non abbia confuso né il giorno, né l’ora, per un incontro importante di affetti o lavoro, o magari è l’erede di case e di malghe, oppure terreni che si perdono a vista, d’una zia che è morta senza avere dei figli.

Ma pensandoci bene non è né l’uno né l’altro, ha l’aria stordita e sorpresa trasogna, forse è solo imbarazzo di una donna di sera, in una sala d’aspetto seduta da sola, con un cane che dorme e una porta che sbatte, davanti a due occhi che non perdono nulla, nemmeno la calza della rete più rada, vicino al polpaccio dove la maglia s’allarga.

Ha una valigia accanto che aspetta due mani, magari di uomo che la sollevi pesante, che tra poco sarà qui e si scusa e sorride, poi la bacia e la stringe di tenero affetto, e le chiede cortese se tutto va bene, e le dice sicuro che ha prenotato da tempo, un ristorante sui colli, una baita altrove, un rifugio accogliente con le castagne sul fuoco, a meno di un’ora dove cade la neve.

Oppure un parente, un’amica del cuore, una sorella più grande che non vede da tempo, un fratello gemello, un cognato in Ferrari, con un Rolex al polso ed il giubbotto di pelle, di un paese vicino, di una città più distante, che le dice “Carissima che sorpresa e piacere”, ma sa già bene a cosa deve la vista, l’eredità di prima di case e terreni, o una storia di anni, di figli e marito, troncata di netto proprio stasera. Non vedo altra ragione in questo budello, in questo paese dove non succede mai niente, mille anime in tutto compresi i maiali, venti case sparse ed una strada di mezzo, quattro bar e una chiesa moderna in cemento, e nessun morto negli ultimi giorni, e nessun vivo o un figlio in arrivo, una sposa promessa e un’altra che aspetta, che susciti almeno un evento importante, questa visita strana di una signora di classe. Perché quel nero che indossa non è dato dal lutto, quell’aria da afflitta è solo un’incognita attesa, magari mi guardasse in questo momento, magari mi chiedesse a che ora parte il diretto, saprei davvero che almeno stasera, non rischierei per nulla di sentire nel cuore, quel brivido freddo che mi prende da solo, quel senso di caldo quando l’ansia poi sale. 

Ora la vedo che s’alza e che fuma, ora la vedo agitata che trema, passeggia nervosa e guarda di fuori, un treno che passa, una pioggia che accenna, quel barbone che succhia la sua tetta di vino, ogni tanto si volta ad un rumore di sedie, gira la testa e dà boccate di fumo, gira la faccia e spalanca i suoi occhi, come se chi aspetta potesse arrivare, da qualsiasi parte che non sia l’entrata. La vedo che freme mi domando per cosa, se c’è una ragione di corna o di cuore o sarà soltanto per non passare una notte, senza un uomo di fianco che le guardi le spalle e non la faccia sentire né preda e bottino, delle viscere nere di una notte che incombe, nei budelli più scuri di vicoli e scale dove dietro ogni angolo c’è una minaccia e una sfida, un uomo che piscia e l’altro che fischia. Oppure c’è altro magari un intrigo, una storia di sesso, di caccia al tesoro o promesse d’amante che svaniscono in fretta, patti e lo giuro evaporati nel nulla, ad ogni treno diretto che passa veloce, ad ogni ora che pigra passa più lenta.

Non riesco a fermare le dita e la bocca, carezze nell’aria che disegnano forme, come se da lontano la stessi baciando, sfiorandole i punti dove femmina ammicca con una gonna leggera ed uno spacco di fianco, un cappello calato non adatto a viaggiare. Se di donne m’intendo sono troppo rosse le labbra e le unghie curate ed il trucco perfetto, tante ore nel bagno davanti allo specchio, tante ore sul letto per un’unica attesa, un sogno per anni, una fuga d’amore. Se di donne capisco non aspetta un parente, un figlio, un marito che non vede da tempo. Se di donne intuisco quella riga alla calza è un dono, un regalo per una notte stanotte, lontana dagli occhi, lontana dal cuore, di mariti che ora la credono altrove, con un’amica del cuore per due giorni di mare o in un centro congressi per un convegno a Milano.

Ora più calma ritorna a sedere, forse un pensiero su questa pioggia che scende, il traffico intenso sull’autostrada, una noia al motore, un temporale battente. “Ma m’ama davvero e sono io la sua donna, m’adora davvero, me lo ha ripetuto più volte!” Accavalla le gambe e lo spacco si apre, in un’infinita sequenza di trama più scura, che è fatto di ombra, di nylon e sesso, di nero che nero non è mai abbastanza perché da sempre mi chiedo quale sia quello vero, che oltre non abbia una tinta più scura. Cosa darei per sapere se ora, sotto la gonna che la fascia perfetta, porta gli slip o coulotte di seta, e quale colore sia adatto a una donna, una nuance capricciosa di femmina pura, che scesa dal treno non chiedeva che altro, di mostrare preziosa quella di sempre, la tinta perfetta, né chiara né scura, che in simbiosi col nero s’adatta e contrasta, come un tocco di viola d’una punta d’organza, che serve a una donna per sentire l’abbraccio, che serve ad un uomo per diventare impaziente.

Vorrei sentirla almeno parlare, un dialetto, una frase, un sospiro più forte, per sapere da dove ha lasciato una casa, dei figli, il calore, un riparo sicuro, dove ogni cosa ha un suo posto, un punto preciso univoco e giusto, mentre ora si trova in un’attesa smarrita, dove ogni ora potrebbe essere un’altra, che s’accoppia e si spaia, la precede e la segue, con un cane che russa e un capostazione curioso, un inserviente incivile che le fa alzare le gambe, senza tanto rispetto perché deve pulire, passare la scopa proprio sotto i suoi tacchi, che alti, che belli mi squarciano gli occhi, che dondola ora per il gusto di farlo, per farmi pensare che potrei riempirle la sera, almeno una parte se poi si fa tardi e la notte è qualcosa che capita agli altri.

Mi alzo e mi siedo perché sarebbe troppo pensare, che la fortuna è tanta e mi passi di fianco, mi sussurri all’orecchio e mi baci sfacciata, proprio stasera che faccio il turno di notte, ma non devo far altro che aspettare domani, perché i treni locali si fermano altrove e quelli veloci qui passano in fretta, ed un capo stazione li deve solo guardare, annotando su un foglio che sia tutto preciso, l’ora, il binario e il passaggio a livello, che s’alza e s’abbassa in un sincronismo perfetto.

Se sapessi il suo nome potrei sentire l’effetto, cosa si prova a pronunciarlo leggero, ad urlarlo più forte se in questo momento, alzasse lo sguardo e mi vedesse qui dentro, attraverso il vetro lurido e sporco, che l’inserviente non lava da almeno tre mesi. Se sapessi il suo nome, un nome soltanto, magari Luisa, o Anna o Francesca, perché altro non vedo adatto ai suoi occhi, a quei capelli che neri sanno di shampoo e sanno di femmina che cura i dettagli, quel bracciale vezzoso, i pendenti d’argento, quelle dita leggere che volteggiano in aria, che impalpabili stringono un telefono muto.

E’ arrivata col treno delle sette e cinquanta, un diretto da Foggia di pendolari e sudore, chissà come l’avranno guardata, chissà quanti occhi e quanto imbarazzo, quanta attenzione per sedersi nel modo che niente e nessuno possa arrogarsi il diritto di sentirsi in dovere di importunare una donna. Nessuna donna potrebbe mai prenotare quel treno, per questo ci giuro che l’abbia preso al volo, come chi ha fretta e vuole scappare, ed ha preso il primo senza neanche sapere, dove fermasse e dove l’avrebbe portata.
E se fosse che non aspetta nessuno? Se fosse che è costretta a passare qui questa notte? Perché quello era l’ultimo treno, ed io davvero potrei offrirle il mio letto, questa cuccia di branda che mai nessuno ha rifatto, che pende a sinistra per via di una gamba, che storta, che corta non tocca per terra. E se fosse davvero che non aspetta nessuno? Come potrei invitarla qui dentro? Mi vergogno soltanto a sfiorare il pensiero oppure mi illudo che non voglio dell’altro, e magari dirle di stare tranquilla, che non cerco una donna che sappia di sesso, che mi basterebbe sapere come è fatta una notte, senza un giornale o un treno che passa, che a memoria capisco che ora s’è fatta.

Se solo sapesse che non sono sposato, anzi lo sono ma è un lungo discorso. Se solo sapesse che mia moglie un bel giorno, ha deciso di andare senza neanche un biglietto, e in un’alba lontana non l’ho ritrovata, perché stanca di farsi riempire le ore da un uomo diverso nello stesso mio letto.
Se sapesse che mi basterebbe quel paio di calze, quell’orlo che ammicca tra il vedo e non vedo, a cambiarmi la vita e cercare un lavoro, di spazzino, operaio o quello che viene, per lavorare di giorno e godermi la notte con una signora di classe che nemmeno conosco, che porta un cappello, un bracciale d’argento, e si fa chiamare Luisa o forse Francesca, o un nome qualunque purché nel mio sogno rimanga indelebile ora e per sempre.

Ecco ora s’alza e mi viene vicino, la sua andatura è seta, è curve e fianchi, la sua andatura è un volo di pavoni in amore, un frullare di ali sulla battigia a novembre, è un presente di seni austero e importante, un merletto vezzoso che aggrazia la carne. Guarda gli orari affissi sul vetro, e mi chiede se il prossimo è davvero domani, se c’è un altro mezzo, una corriera notturna, che la possa portare in un’altra stazione.
Allora ci ho preso! Non aspetta nessuno! Dentro questo paese non ci può essere un uomo, che conosca una donna con i capelli raccolti, le unghie smaltate limate con cura, un crocefisso d’argento che pende tra i seni e luccica fiero nell’incavo profondo.

Le dico deluso che non c’è nulla a quest’ora, né treni, né pullman fino a domani. Qui di notte non succede mai niente, non s’arriva o si parte e neanche si muore, qui la notte è notte e si dorme soltanto, tranne me e quel polacco che lava, anzi fa finta di pulire per terra, tranne lei che ora mi guarda, finalmente mi guarda, ma rimane a pensare.
Mi ripeto a mente ogni parola, le virgole, i punti, le pause strette, ma non ho sentito nessuna inflessione, che so io, un dialetto di un paese vicino, che so io, una vocale più stretta, un modo di dire, che mi dia lo spunto per continuare il discorso, che non siano orari, che non siano treni.

“Mi sa indicare un hotel qui vicino?” Dice e fissa gli orari sul vetro.
“Qui siamo poche anime ed ognuno ha una casa, non servirebbe davvero una pensione o un albergo e di notte da tempo non arriva nessuno. Lei è la sola forestiera che vedo da anni, chi si ferma qui, ha una casa o sa dove andare, da un parente, un amico, o dal parroco a maggio, quando affitta dei letti per la festa del Santo.”
“Dovrò accontentarmi di queste sedie per passare la notte!”
Mentre si volta accenna un sorriso, il suo decolté si schiude come al sole una rosa a marzo inoltrato, ed io la guardo, la bramo, e mi lascia un odore di fragola e miele, di quando Giovanna aveva vent’anni e toccavo il suo seno prima del ponte dietro l’anfratto di spine e di rovi, la domenica sera a pochi metri da casa.

Era tanto, era poco ed era nient’altro, perché sua cugina aveva fatto un bel guaio, con un forestiero alla festa del Santo, e di fretta poverina s’era dovuta sposare, con Mimmo il barista che non credeva ai suoi occhi, che era un po’ tocco e credeva davvero, che per fare un bambino cinque mesi son troppi.
Ma Giovanna era bella, bella davvero, con gli occhi grandi colore di malva, col seno altrettanto da consumarci la lingua, e toccavo e leccavo alternando il piacere, e non mi importava se dietro quei rovi avessi dovuto aspettare degli anni, come ora che guardo questo fiore stupendo dai petali neri sbocciato dal nulla, che obbediente sorride ed allarga le braccia, come per dire il destino comanda e non serve davvero agitarsi per nulla.

Mi lascia impietrito come se quella vista, m’avesse dato una traccia per conoscerla meglio, m’avesse permesso d’entrare in segreto nell’intimo in fondo, nonostante i merletti, nonostante le calze, dove tutto si tinge di complice intrigo d’un’anima piena, d’un privato mai detto, che ora a quest’ora trova terra e poi linfa, trova il giusto contesto per guardarsi di dentro.

Ritorna al suo posto e chiama di nuovo, ma nessuno risponde e la sua faccia s’increspa, poi si rassegna e guarda il soffitto, e guarda il polacco, il cane che russa, poggiando la testa sopra il sedile. Guarda la porta, la vetrata e il Campari, chissà se ne ha voglia o le faccia pensare che tutto è poi perso, che era un sogno soltanto, di una cena stasera, di un aperitivo in terrazza, di un cameriere coi guanti che le sposta la sedia ed un uomo in cravatta le sorride con gli occhi.
Mi fa pena vederla vaga e smarrita, mi fa pena pensare ad una donna di classe, finita per caso in questa sala d’aspetto, che si tiene le braccia per sentirsi protetta, che stringe il suo seno per ripararsi dal freddo.

Mi faccio coraggio e le vado vicino, con una coperta di lana che è tutto il mio avere, un sorriso accennato per darle il segnale, che mi spiace davvero e vorrei aiutarla per alleviarle l’attesa per quanto io possa, in questo buco di mondo dove s’arriva o si parte. Ha gli occhi belli e si desta sorpresa, sorridendomi appena quando discreto la prego d’accettare quel panno perché di notte fa freddo e la stanza è piena di spifferi gelidi.
Faccio per andare e lei con un filo di voce. “Rimanga la prego non ho sonno per niente.” Tentenno al suo dire poi mi guardo intorno, come se quel suo invito fosse rivolto ad altri, poi mi metto seduto sbigottito e contento, lasciando una sedia vuota nel mezzo, lasciando che lei dica qualcosa, qualunque va bene purché l’imbarazzo, mi lasci quel poco per rispondere al meglio e lei non s’accorga del disagio che sento.

Mi sembra impossibile che stiamo parlando, lei che mi chiede ed io che rispondo, allo stesso livello senza ceto né censo, senza che lei dia importanza, al suo vestito di seta, al suo zaffiro antico, regalo d’amante o di sua nonna scomparsa, che serbava gelosa i suoi tanti segreti.
Mi sembra impossibile, davvero lo penso, che una donna così possa avere la voglia, di scambiare parole in una sera qualunque, di scambiarle con un uomo prima mai visto, un addetto ai treni che fa il turno di notte.
Mi sembra incredibile che questa trama di calza, non abbia di meglio stasera da fare, che queste labbra vellutate di rosso si schiudano appena per farmi ascoltare, si sforzino al punto di cucire parole, anche se parlano soltanto del tempo, dell’inverno quest’anno che non ci vuole lasciare.

Poi rassegnata sospira e mi guarda, si ferma un momento per un pensiero diverso, che ormai è troppo tardi per aspettare qualcuno e che non è vero che i sogni muoiono all’alba, ma alle volte già prima sopra un sedile, d’una sala d’aspetto, d’una stazione sperduta.
“E’ San Clemente vero?” Mi stupisco che conosca il nome del posto.
“Ecco proprio qui dovevo incontrarlo, erano mesi che avevamo deciso, una stazione che nessuna cartina riporta, un paese lontano da tutto e da tutti, da occhi indiscreti che sono sempre in agguato. Poi via con la sua auto bella, lungo la strada per ponti e trafori, fino a quel sogno ripassato più volte, nei tanti momenti a cui ci credevo davvero. Ed erano montagne che bucavano cieli, picchi più alti e gole profonde, discese e tornanti e squarci di sole, passi di neve che accecavano gli occhi, gli stessi che chiusi vedevano in sogno, una vita diversa dall’altra parte del mondo.”

Si ferma pensando di aver detto già troppo, ma poi una luce vela i suoi occhi, s’accende una sigaretta senza chieder permesso. “Ci avrà ripensato!” Riprende nel dubbio. “In fin dei conti non è facile lasciare una moglie, lasciare dei figli per una donna soltanto, lasciarli nel letto magari in pigiama, che attendono invano un papà che stasera, s’è dimenticato di dirgli la favola bella.”
S’interrompe soltanto per una boccata di fumo. “Io invece ho solo mia madre, che mi crede in vacanza con Cecilia la mia amica del cuore, ed adesso sono qui con una notte davanti e nemmeno un pretesto perché passi più in fretta, che venga domani per tornarmene a casa, con una scusa qualunque e la delusione più nera. Mia madre non sa nulla, è malata di cuore, è una vita che la nutro di balle, di storie che non scelgo perché siano credibili, ma solo coerenti ad altre che dico. Così che Cecilia è separata ed ha un figlio e poi dei nipoti e una casa in campagna e c’impiego del tempo su quella strada sterrata, dove facilmente si buca, dove di sicuro mi perdo. E suo zio che le abita proprio di fronte, ha una macchina vecchia e scassata, un fuoristrada enorme con le marce ridotte, ed una volta, ricordo, mi ha riportato indietro, mentre pioveva, pioveva a dirotto!”

“Non mi giudichi male la prego.” Ma non aspetta risposta, sento che ormai ha solo voglia di dire. “…E Cecilia ha una cagna bastarda, un incrocio a pelo lungo che chiamano Vichy, e Vichy una volta mi ha strappato il vestito, mi ha sporcato la gonna nera di seta! Ma in questa storia non c’è nessuna cagna, oltre me naturalmente che macchio la gonna, ma non è colpa di Vichy, non è acqua di grondaia che cola dal tetto, non è Cecilia che sbadata mi ha rovesciato l’olio più denso, quello buono di oliva che compra da una vecchietta in paese!”

Non s’accorge del riferimento alla cagna, è un fiume in piena che scorre veloce, e sradica alberi e trasporta macerie fino alla foce nel mare più aperto.
“E così via fino a pensare che tutto questo sia vero, davvero che accada in qualche parte del mondo, ma di sicuro non a me clandestina, che m’accontento di ritagli e d’avanzi, di pensioni e d’alberghi fuori mano in provincia, d’anonime stanze per farci l’amore, squallide e vuote dai colori più stinti, per due ore strappate alla sua vita di sempre, passando i giorni ad aspettare l’evento, che mai accade, nemmeno stasera!”

Ora si ferma e più calma riprende, ci si incrociano gli occhi ed io sto bene. “Non so perché le dico queste cose, che mi fanno sentire sporca e vigliacca, disposta a tutto per freddare quest’anima in fiamme, perché in amore si diventa egoisti, e non mi importa se inganno mia madre, e non mi importa se suo figlio ora soffre, se fossi sicura che con la sua auto bella stesse correndo senza premere il freno, per strade e città e semafori rossi, per venire da me nonostante il ritardo.”

Si alza e cammina per respirare più forte, un po’ d’aria pulita per digerire quel groppo, che pesa e che duole tra la testa ed il cuore, che pesa e fa male soltanto a pensare, ad un altro giorno che viene ed uno che passa, come i treni del resto che passano oltre e lasciano un vuoto, lo stesso di prima, di silenzio più denso, d’aria e risucchio.
Non mi rendo conto quanto possa essere bella, non riesco a pensare come si possa deludere, quella gonna che danza e la fascia leggera, quella riga alla calza raffinata e più dritta d’un qualsiasi binario che passa per Foggia o di quelli moderni che vanno a Pescara.
Davvero non riesco a pensare, come si possa tradire ogni suo minimo passo, su quei tacchi che porta senza nessun imbarazzo, di cui mai da vicino avevo sentito il rumore, né mai da vicino, misurato l’altezza.
Perché non sono adatti ad una donna che viaggia, non sono adatti a camminare per strada, ma solo a un’amante per farsi guardare, per confessare che il sogno è a portata di mano, per sentirsi regina, donna che invoglia, dentro un letto di rose con le suole pulite.

Si rimette seduta ed accavalla le gambe, poggia la coperta dietro la schiena, mi chiede da quanti anni faccio questo lavoro, e cosa si prova a non dormire di notte, e con quante donne l’ho riempita davvero, che chiedevano solo di farla passare.
“Chissà quante amanti, quante donne illuse, hanno perso treni con le valigie pesanti, hanno atteso invano uomini da sogno…” Annuisco e non posso che darle ragione perché la stazione ha il sapore d’attesa, e nulla succede perché nulla è per sempre, e poco conta se si scende o si parte, se uno zingaro bimbo ti offre una rosa, se una slava adulta ti offre le tette, e poco conta se in questo momento, la sua gonna si spacca mentre dondola il tacco.

Sono pizzi e sono ricami, sfumati quel tanto da questa penombra, ingranditi quel poco da queste mie mani, che nel tatto del sogno prendono corpo, e diventano pelle che non ha preso mai sole, e se per caso ci arrivi non aspetti risposta, e se per caso ci arrivi non la stai a sentire, che anche lei è accomunata dallo stesso destino, che mai ha dormito in un letto più grande, che è sempre lo stesso da quand’era bambina.

Probabilmente intuisce i miei pensieri, probabilmente s’accorge che sto andando nell’oltre, vagheggiando e volando sulle ali dei sogni che sanno di maschio, che sanno di caccia. Si alza di scatto e le cade la borsa, un rossetto dorato rotola lento, sotto la sedia, vicino ai suoi tacchi, ma non se ne cura e lo lascia per terra, ora ha un ghigno profondo che le solca la pelle, il suo viso è più duro, le labbra serrate che fanno fatica a non urlare di rabbia, a me, al cane, al bitter Campari. Fa due passi e si volta, poi va verso il gabbiotto, il rumore dei tacchi sbatte sui muri, si tocca i capelli e poi torna decisa.
“Ma perché le sto dicendo queste cose?” Lei è un uomo come tutti gli altri, come gli operai su quel treno che non aspettavano altro, uomo come tutti i bastardi incontrati finora, come quello che ora dorme accanto a sua moglie e non si cura per nulla che c’è una cretina in una stazione sperduta, che è in attesa soltanto di un cenno o uno squillo. Mi accontenterei di un sms: “Amore non posso!” Perché una telefonata sarebbe di troppo! Che cretina che sono, vero? Tre sole parole e sarei di nuovo me stessa, tre sole parole e tre salti di gioia, giustificando ogni cosa, l’attesa, quel cane e questa stazione. Davvero cretina! Mi faccio ingannare da chiunque sia in grado di cucire insieme due parole a caso …”

Cerco di parlare, ma lei non mi ascolta, anzi mi punta l’indice e continua decisa. “Tanto so, cosa ora sta pensando, come ogni altro uomo sta pensando all’unica cosa che le interessa a quest’ora! Le piace la calza? Le piace il rossetto! Sia sincero… me lo dica che non gliene frega nulla delle pene che soffro, anzi è addirittura contento… Ecco, sta solo aspettando il momento propizio, sta sperando che nessuno qui venga, per poi magari portarmi dentro quel gabbiotto, lurido e stretto, dove chissà quante altre troie e signore le hanno fatto passare la notte! Lo confessi, che non aspetta che questo, che nulla succeda, che tutto sia fermo…”
Faccio per parlare, ma poi decido di starmene zitto, in questi momenti non c’è ragione che tenga Ragione, non c’è torto che abbia un senso.
La vedo che vorrebbe ancora inveire contro me, il suo uomo ed il mondo, va verso la vetrata e poi ritorna. Finalmente si calma, si siede, quasi distesa, respira e si sgonfia. Scoppia in un pianto a dirotto, poi mi guarda e sorride, niente scuse, non sarebbero adatte e poi in fin dei conti non ha tutti i torti anche se sento che c’è qualcosa di diverso, ma forse è un diverso uguale a tanti altri diversi, che molti uomini sentono prima di fare un’avance.

Non m’aspettavo quello sfogo, così secco ma vero, così pieno di rabbia! Non riesco a star fermo, guardo dentro e poi fuori, guardo il cane e il polacco che russano insieme, guardo il mio orologio che lento m’aiuta, non è ancora l’ora che passi il diretto, mentre lei ora è calma e mi riempie di gioia, pensando che stanotte non è passata per nulla, comunque vada è una notte di quelle, che tornerà tante volte, sicuro che torna, per popolare i miei sogni e condirli di nero, di trine e ricami, di trama di calze, di rosso acceso di unghie e di labbra.
Quello sfogo di prima non mi tocca neanche, perché giuro e mi illudo che non si tratta di sesso, vorrei davvero estirparle quel male che sente, strapparle il dolore e farla distrarre, accarezzarle i capelli per fermarle i pensieri, anche se poi sono un uomo che in fondo, prenderebbe al volo il minimo accenno, se ci fosse un’intesa, una comunanza di intenti, per lenire il dolore e passare la notte.

Mi sono sempre chiesto come facciano gli altri, a fare il primo passo per sapere fin dove può arrivare questa mano che trattengo con l’altra e sentire il calore della sua parte migliore, perché davvero ho paura di fare un gesto imprudente e sorrido pensando a come serro le labbra, per il timore che una sola parola scomposta, che un verbo sbagliato, un’espressione in dialetto, possa rovinare questo momento, e lei che mi vede per quello che sono, un uomo in divisa, un addetto ai binari, che parla d’orari e di ritardi di treni.

Le chiedo se ha mangiato qualcosa, se non sono inopportuno potrei offrirle un panino, nell’unico bar in questa landa sperduta, nell’unica insegna che arreda l’intorno, d’una piazza in discesa, d’una chiesa moderna.
Mi dice che ha bisogno di qualcosa di caldo, magari un caffè le basta ed avanza, perché la notte è lunga e non vuole dormire, perché solo chi è sveglio può ancora sperare, un uomo che arriva, un amore che torna, mentre chi dorme si affida ad un sogno, che bello, che vero non cambia poi l’alba.
Faccio per andare ed accenno ad alzarmi, ma lei non vede, non sente, è sola in sé stessa, ha il viso stanco, imbambolato dallo sfogo di prima. Meccanicamente apre la borsa e tira fuori una foto, di un bimbo africano adottato a distanza, e poi un’altra con una mamma serena che la crede in vacanza e una gatta siamese che non vede da ieri e chissà come piange e chissà come soffre. “Non c’è altro lo giuro che valesse la pena, di pensarci due volte e non prendere il treno e poi essere qui in questa sala d’aspetto, testarda e convinta che quando si vuole, non c’è radice che a forza non si possa estirpare, non c’è motivo per non avere ragione.”

Mi guarda, mi fissa e ricomincia a parlare. La sua voce è un sussurro, un refolo vago, incerto e distante. “Io so quello che lei sta pensando, che non si può vivere appesi ad un filo, che un figlio e una moglie sono cose concrete, che una casa ed un tetto sono pur sempre un riparo, mentre l’amore è solo un cuore che batte, un effluvio che lascia una caduca scia, un impalpabile soffio d’un vento che stringi, che catturi in un pugno e non rimane che niente. Ma io ho scelto di non farlo fermare, di essere qui ed aspettare domani, di affrontare come ora una stazione di notte, e parlare ad un uomo che appena conosco.”
Eh già parlare parlare di tutto e di niente, perché altro sarebbe un sogno soltanto, una stazione che diventa un albergo, il cane un esemplare di razza che chiede permesso e il polacco un cameriere in divisa che serve due flut di champagne su un vassoio d’argento.

Lei mi guarda e capisce che sono distratto, da un lampadario che a gocce l’illumina bella, da uno specchio gigante sulla parete di fronte, da un divano che accoglie le sue forme perfette, il suo seno capiente che m’invita e mi culla.
Ormai la bufera è passata, sento di nuovo sintonia, un feeling intricato che ci lega e ci annoda, un’intesa di sguardi, di mani che ora vorrebbero toccarsi per sentire il sudore, la tensione che adesso vibra e si scrolla fino a lasciarci nudi nel posto laddove l’anima bella si specchia e si offre. Spero davvero che possa intuire, mentre guardo le gambe e guardo il soffitto, perché altro non voglio se il caso non vuole, che chiudere gli occhi e vederla reale, come ora che serra le labbra e mi dice non sempre il destino ripassa e si ferma nel posto dove lei è seduta senza che la sedia ci separi nel mezzo.
Lei mi guarda, la guardo e credo che sia questo il momento, perché è stanca delusa con la rabbia nel cuore, di chi crede davvero che non serve sperare, costruire castelli fortificati e robusti, se la malta che metti è un impasto d’amore…

Ma alle volte succede per timore o perché è troppo, oppure chissà per quale altro motivo che l’uomo si alzi e si estranei da tutto, tanto da credere che sia solo un racconto, che in terza persona racconti di un altro.
Alle volte succede come in questo momento, che lui si alzi rimandando quel dono per dimostrarsi diverso, e tutti i diversi non sono mai uguali. Certo che succede che la lasci seduta a contare le crepe che corrono storte ed esca di corsa per il caffè che ha promesso e torni più in fretta perché non si freddi. Certo succede che si scotti le mani per tenerlo in caldo, perché almeno lo beva e si scaldi laddove nessun uomo stasera potrebbe arrivare, tranne chi non ha tempo oppure è distratto, oppure è soltanto in maledetto ritardo.
E alle volte succede che una donna stupenda, beva il caffè e poi per ringraziarlo, gli prenda la mano e l’accompagni leggera, per sentire i contorni che la fanno più bella, seguendo le onde di carne e di seta, seguendo la forma, l’arco, la curva che è stoffa ed è seno e luce in penombra, è pizzo forato di petali e fiori, è pelle che bianca si staglia a contrasto, col nero di perla, con tutto l’intorno.

Alle volte succede che seduto la sfiori, perché tanto non servono altre parole e lei chiude gli occhi e lui la sua bocca, le raccoglie i capelli e scende fin dove, s’increspa la gonna ed è lecito andare, s’increspa la seta fino al primo merletto. Perché lui le sussurra che c’è un letto stupendo, un’amaca appesa tra due palme sul mare, sulla spiaggia distesa come il bitter Campari, a due metri soltanto nel gabbiotto di vetro che è lurido, vero, ed il polacco trascura, ma ora davvero è il posto più ambito, l’unico al mondo dove realizzare quel sogno. E lui le sussurra che può stare tranquilla, perché nessuno a quest’ora potrebbe arrivare ed al prossimo treno manca ancora poi tanto, ed il polacco di turno ha finito il servizio.
Alle volte succede che la donna sorrida, e prenda la mano e la poggi sul cuore, e poi sussurrando gli racconti una storia, la stessa di prima con un finale diverso, con un capostazione che l’è stata a sentire, con un addetto ai binari che le ha fatto capire, che anche di notte si può ancora sperare, in una sala d’aspetto di una stazione di treni.

Alle volte succede che un uomo e una donna, camminino insieme verso il gabbiotto, come fosse la riva di una spiaggia lontana, come fosse l’entrata di una prima a teatro, con lei sottobraccio che decisa passeggia, un tacco poi l’altro sulla guida che rossa, la fa sentire regina almeno stanotte, la fa sentire leggera, una piuma che danza, senza più remore di testa e di cuore, senza più dubbi sugli uomini ingiusti, senza più indugi di subire un giudizio che sia lecito o meno, che sia valida e forte, la ragione o la scusa che la vede a quest’ora accettare un invito in un gabbiotto di notte.

Perché alle volte succede che la luce si spenga e in un buio avvolgente di tana e di culla senza dire parole si ascolti l’essenza di quello che a breve sarà voluta vendetta, rappresaglia e ripicca, regolamento di conti, perché sull’asfalto dopo il duello, non rimane che sangue che a rivoli scorre, non rimane che un uomo che ha pagato l’affronto e lei altezzosa s’allontana sui tacchi, soddisfatta e contenta per la rivincita avuta. Soddisfatta e contenta come ora l’affiora un sorriso che amaro ha il sapore d’invito, perché ormai convinta, perché ormai più sicura, che non c’è altro posto dove consumare la rabbia, e gridare al mondo d’essere viva, desiderata da un uomo chiunque lui sia, da una bocca che arde, da una mano che tocca, da un addetto ai treni che conosce gli orari, il momento preciso, per adagiare la lingua, che ora scivola liscia senza più attrito, senza dissenso, conflitto e contesa su un seno che docile si lascia bagnare, di gambe ubbidienti che all’unisono vanno ovunque la voglia le schiuda e le unisca.

E lui tocca e ritocca e scomposto la brama, senza accortezze per una donna di classe, senza regola e norma o un disegno preciso, l’accarezza e la bacia dai piedi ai capelli, dietro e davanti ormai senza misura, il seno che lecca, le labbra che succhia, e lei che si spoglia, la camicia, la giacca, la gonna che sfila, il reggiseno che sgancia.
E’ lei che lo invita a fare più in fretta, a squarciare quel buio con parole più adatte, con le lame di luce che penetrano a fondo, perché ogni minuto sarebbe di troppo, perchè ogni secondo una goccia cinese, ogni minima attesa un pensiero ingombrante di un anonimo sesso, di un odore che ignoto, lascerebbe soltanto una voragine fonda.
Si mette distesa su quella cuccia di letto, ora toglie lo slip e spalanca le gambe, perché quello che vuole è un attimo intenso, tutto di fretta come una puntura di vespa, senza rendersi conto che è un sesso che entra, un rasoio tagliente che parta dal fondo ed estirpi dal cuore quel male che sente, la coscienza di essere sola in quel posto, nell’attesa di un uomo che s’è negato per sempre e l’ha lasciata in balia di un polacco ed un cane, d’un uomo in divisa con la voglia evidente, senza un treno che arriva ed uno che parte.

Lei lo chiama, lo implora, senza mai pronunciare il suo nome, perché non lo conosce e non serve all’amore, perché quello che ha in mente non fa il capostazione e lei di sicuro non è dentro un gabbiotto, oppure sì, ma non è quello che conta, sono solo due estranei che hanno trovato il coraggio, di riempire una notte e annientare la rabbia. Sente la sua voce, è roca, aggressiva, perché sa di tutto tranne che d’amore, perché quell’uomo che suda e la scava per bene, sta facendo tutt’altro tranne che amare, sta scopando con l’ombra, col contorno e la forma, con la sagoma intera, con l’odore di donna, ma pensa a Giovanna, ai suoi turni di notte, all’uomo notturno che prendeva il suo posto e scaldava il suo letto come fosse un favore, e scaldava Giovanna come fosse un dovere.
Pensa al riscatto di anni passati, a sognare, a segnare il diretto, l’accelerato per Foggia, il cane, il polacco, le parole crociate, quattro verticale il nome di Baggio, il manifesto sul muro, da sempre lo stesso, una spiaggia lontana, una donna da sogno, da farci l’amore bevendo un Campari.

E preme, preme sulla sua vita a forma di donna, preme sul suo passato a forma di cosce che il destino ha voluto che fossero belle, ammantate di nero da una calza perfetta, avvolte dal velo di una signora di classe. E preme, preme, scende e risale, entra e poi esce per riprendere fiato, per inabissarsi di nuovo in quei fondali di mare, dove vede coralli e forzieri di oro, e scrigni e gioielli e sete e broccati, bastimenti e navigli insabbiati dal tempo, per poi risalire ed affondare di nuovo, per nutrirsi di femmina calda e vogliosa, di tette, di sesso e farne una scorta. Perché domani sarà un giorno d’assenza, un’alba vuota di lacrime mute, e quante negli anni dopo stanotte, e quanti risvegli al passaggio del treno. Perché domani sarà un giorno diverso, di chissà e come mai lasciati in sospeso, in uno strascico a velo del profumo che intenso ora penetra dritto nell’anima in fondo e sa di femmina e d’odalisca, d’harem e di concubina, come in quel film visto da poco, sa di trama di calza che poco prima bramava, del nero più nero e balle del tipo che vengono in mente nel desiderio infinito di farsi una donna e farsela tutta.

Alle volte succede che finisca l’incanto, e lei senza dire si alzi di scatto, e in meno di niente è già rivestita, non parla, non dice, ma si raccoglie i capelli, ed esce di corsa e si rimette seduta nell’unico posto dove serve aspettare. Lui che la segue e vorrebbe parlare, ma si rende conto che non c’è nulla da dire, perché alle volte succede che lei si volti di scatto, e finisca la storia la stessa di prima, con l’uomo che piomba trafelato in stazione, con la donna che s’alza e piange a dirotto, poi ride e lo abbraccia felice e contenta, e gli urla “Amore, ti amo, t’adoro!”
L’uomo è alto, vestito elegante, la solleva di peso con una mano soltanto, perché lei è una piuma e lui un soffio di vento, perché quel peso che gravava di dentro, è svanito di colpo semmai ci fosse stato, oppure è soltanto un brutto ricordo.
Lui ora la bacia sugli occhi e la fronte, le accarezza i capelli e leggera la gira, due, tre piroette e ridono insieme, poi la lascia di colpo e la riprende al volo, e lei che ride pazza di gioia, e lui che la stringe forte sui fianchi, mentre prende la valigia e s’allontanano insieme…

Alle volte succede che torno al mio posto, ed in prima persona mi sveglio da un sogno, e vedo quei due con un filo d’amaro e in un attimo appena sono di nuovo da solo, seduto al mio posto che guardo il soffitto, e guardo il cane e guardo la coppia, mi annuso la mano che sa di femmina e petto, di seta e d’organza, di fragola e miele, di rovi e Giovanna, di lamponi e di more. Contento davvero per quel sogno di prima, e d’essere stato una piacevole attesa, e d’averla riempita nel modo migliore, perché se questa storia avesse avuto un finale diverso, non sarebbe per nulla stata reale, e comunque sia andata va bene lo stesso, perché l’amore è altro e non sboccia lì dove c’è una cuccia di letto e una sedia sbilenca, un cane che russa e una sala d’aspetto, e poi l’alba è vicina e manca poco al diretto, ed è passata davvero un’altra nottata.

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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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Photo  Tatyana Nevmerzhytska

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