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Adamo Bencivenga
LA TRUFFA
Sarà che stasera mi sembro
una truffa, un imbroglio voluto in tanti anni che
aspetto, il giorno più bello che non è quello di sposa,
ma solo lo sfogo di sapermi più viva e per questo sono
qui dentro uno specchio, per questo poi sfumo l’ombretto
a farfalla e rimarco i contorni delle labbra che a
breve, accenneranno un sorriso che appaia più vero, per
un’aria più ingenua che non scolpisca sul viso,
l’inganno voluto, la trappola e l’esca, di fronte a chi
guarda e non pensa davvero, che il piacere che sento è
solo vendetta.
Respiro l’odore e mi pare
menzogna, di questo profumo fruttato che lascia, lo
strascico finto di chissà quale preda, invece di quella
che da sempre conosco. Per questo mi dico che ancora non
basta e dentro lo specchio allungo lo spacco, accorcio
la gonna e mostro le gambe, per essere tana, trappola e
cappio, e dargli un assaggio di quello che ha perso,
illudendolo fino a vederlo convinto, che basterebbe un
invito per cominciare di nuovo, uno schiocco di dita, un
ghigno sornione, un sospiro più caldo e sentirmi già
pronta, alla faccia degli anni e di cosa è successo.
M’immagino bella in un ristorante all’aperto, magari
lo stesso tra le siepi d’alloro, mentre lascio che il
vento m’accarezzi la faccia e mi scopra quel niente,
quel tanto e quel poco, e lui che mi fissa e non sta
nella pelle, e si sente in diritto senza chiedere scusa,
di colmare lo spacco, il decolté del mio seno, le labbra
che ad arte si schiudono appena, per creare l’inganno e
farlo pensare, che il vuoto che vede ha la misura degli
anni e nessuno nel tempo ha riempito per bene. Ma poi ci
ritorno e carico ancora, mi spalmo la faccia di rosso e
di viola, perché nei colori ci veda il vissuto, nel nero
il peccato, nel bianco la resa, nel lilla la grazia, nel
rosso quel fuoco, di uomini a ressa che sono passati,
per albe e tramonti, per letti e divani, per un’ora o
una notte che sono rimasti.
Alle volte mi chiedo
cosa ci sia di diverso, da quando qui in casa giravo in
ciabatte, e lui sul divano a sbadigliare di noia, di
sere infinite e di telecomandi, finché un sonno profondo
lo coglieva distante, senza il dovere di venirmi vicino,
e sapere che in fondo sarebbe bastata, una carezza
gentile, un domandarmi che cosa, un sospiro di voce
magari per caso, uno starnuto improvviso per qualche
energia, per squarciare quel vuoto di muto silenzio, per
spezzare quel filo di distacco e freddezza.
Erano
passati soltanto due anni, da quelle promesse giurate e
convinte, che mai e poi mai ci saremmo lasciati, e mai e
poi mai sarebbe tornato, una sera qualunque a dirmi “dai
basta”, passando la notte a cercare un motivo, una
ragione qualunque che non fosse in noi stessi, fino a
quando inattesa al chiarore dell’alba, è apparsa
un’ombra timida e opaca, che nel giro di un niente è
diventata più netta, comprese via via le sue partite da
tennis, i compleanni di amici quando rientrava più tardi
e poi di colpo improvviso il lavoro a Milano, che lo
portava per giorni a dormire in albergo, che non era un
albergo e non era Milano, ma era una casa a pochi minuti
distante e poi mano mano in un gioco di specchi, s’è
fatto reale un terzo piano di Roma, una terrazza di
fiori per cenare d’estate, una casa arredata che lo
aspettava da mesi. Nel gioco di specchi l’ombra ha preso
una forma in una foto sgualcita nella tasca interna,
appena vent’anni, una faccia da bimba, gli zigomi alti e
gli occhi di mare, e poi scendendo una pancia più
grossa, con il nome deciso e la culla già pronta.
Sono stati mesi d’inferno nel cuore, d’anima smunta
che trasudava di rabbia, d’essere stata imbrogliata per
niente, di quello che gli altri chiamavano amore, ma che
in verità mai avevo sentito, mai il tepore di un nido di
casa, la voglia e la gioia di vivergli accanto. Agli
inizi comunque è stata dura davvero, sprangavo la porta
dopo il lavoro la sera, perché neanche un’amica
m’avrebbe ridato, la fiducia negli altri, il buon umore
di sempre, perché neanche un amico m’avrebbe convinta,
che uomini e uomini non fossero uguali.
Sarà che
d’allora sono passati degli anni, finché una sera uno
squillo diverso, un “ciao come stai” smielato e
tremante, non c’erano tracce di sensi di colpa, ma solo
la pena di essere solo, ma solo il timore di sentire
l’effetto e la curiosità di sapere cosa mi fosse
successo. Chissà perché l’ho lasciato parlare, chissà
perché ho lasciato il sugo bruciare, invece di
sbattergli il telefono in faccia, perché dentro me era
intatta la rabbia, lo scorrer degli anni senza nessuna
vendetta. Lui cercava una donna e aveva pensato a sua
moglie, per trascorrere un’ora di parole e che altro,
dentro la sua casa ormai troppo grande, perché sua
figlia e la madre se ne erano andate, lasciandogli il
tempo di ripensare a se stesso. Non gli ho chiesto il
motivo, non ce n’era ragione, ma dentro di me lievitava
il piacere, di sentire che in fondo cercava un aiuto, da
quella che un giorno aveva umiliato, alla sola che ora
aveva pensato, in un mondo stipato di donne più belle.
Sarà che ora sono qui, dentro lo specchio, e nel
gioco perverso non sto nella pelle, tra poco lui suona
ed io infilo le scarpe, quelle alte riposte ad aspettare
la sorte, che senza volerlo m’ha dato una mano, anche se
la mia amica ci ha pensato un momento e mia madre m’ha
detto che non dovevo accettare, almeno non subito,
almeno non ora, per farlo arrostire al fuoco più lento.
Ma io sono testarda e lo sono stata da sempre e allora
faccio due passi e mi fermo, per guardarmi di fianco,
per vedermi da dietro, poi mi volto e raddrizzo la riga
alla calza, tanto lo so dove andrà a parare, per questo
cammino, per questo mi vedo, in quel ristorante a
mandargli segnali, per vederlo curioso che tenta e che
cerca, di portare il discorso dove non ci sono i
ricordi, su un terreno neutrale dove gioca alla pari,
fuori dal tempo per non sentirsi in difetto.
Sarà
che stasera mi sento una truffa, un imbroglio voluto in
tanti anni che aspetto, lui non sa e non deve sapere,
quanto dentro covo il disprezzo, quanto il mio sangue è
gonfio di rabbia. Sorriderò leggera come se fossimo
amanti, svenevole donna che aspetta impaziente, un
invito stasera, un suono di chiavi, mentre la macchina è
già nel parcheggio. Sento un tesoro appiccicato alla
bocca, d’un’ottima cena in un ristorante di lusso,
mentre seduti nella sua auto bella, mi bacia, mi tocca e
mi dice di andare, mentre la mano frenetica sale e
accarezza e ripensa che ci avrebbe giurato, convinto e
sicuro che lo stessi aspettando, che nessun uomo al
mondo potrebbe eguagliarlo, vista la seta che offro ai
suoi occhi, la trasparenza ed il pizzo di una femmina
calda. Finché sotto casa mi invita e mi prega, di salire
le scale di quel paradiso, ed io non ho dubbi e non mi
faccio scappare, l’occasione cercata in tanti anni che
aspetto.
Allora certo che salgo, non aspettavo
che questo, per rendermi conto dove ha passato questi
anni, il letto, il comò, l’armadio di Ikea, la terrazza
di fiori dove mi serve da bere e finto mi dice che ha
commesso uno sbaglio, se tornasse indietro non avrebbe
alcun dubbio, di quello che vuole, di quello che cerca,
di questa femmina esperta che sa bene giocare. Ora mi
guarda e so cosa pensa, baratterebbe sua figlia se solo
potesse, venderebbe sua moglie ad uno zingaro nano,
oddio che piacere vederlo in ginocchio, che brama il mio
sesso per saziarsi la bocca, vederlo ansimare per la sua
ex moglie, sentirlo che geme per un paio di gambe. Io le
accavallo e faccio in modo che l’orlo, lentamente
risalga e sorpassi il confine, di quel paradiso a
portata di mano, poi le schiudo d’incanto e rimango
sospesa, perché lui sia certo che il nero che vede, non
è fatto di stoffa e non ci sono merletti, ma è
un’autostrada del sole, una tangenziale di notte, perché
quello che conta è vederlo volare, con il pedale
schiacciato, veloce alla meta e vederlo eccitato ad un
passo dal sogno, quel sogno che crede già dentro il suo
letto.
Mi prende e mi alza e mi sospinge nel
buio, la sua mano mi cinge e stretta mi tiene, si
spalancano porte e si schiudono anni, il mio fiato
s’ingrossa e mi sento leggera, come una piuma
sballottata dal soffio, che fa cerchi nell’aria danzando
nel vuoto. Sarà questo il momento che aspettavo da anni?
Sarà questo il bisogno che mi sazia quell’astio?
Lui non sta nella pelle vorrebbe il mio seno, la bocca
che s’apre, la lingua che esce. Ecco questo è il punto
dove devo mollarlo! Ecco questa è l’essenza tra piacere
e vendetta. Lui continua imperterrito senza il minimo
dubbio, mi preme e mi spinge, mi dice che m’ama. Eh sì
che m’ama e scende la lampo. Eh sì che mi chiama e mi
tira i capelli e finto mi giura che non mi ha scordata
un momento, anche quando sua moglie gli apriva le gambe.
Il mio nome è lo stesso, ma il sapore è diverso, sa
di donna incontrata per caso stanotte, sa di strada e
d’avanzi, di tariffa a buon prezzo. Lo vedo, lo sento da
come mi chiama, da come mi tocca e come mette le labbra,
perché sanno di maschio che rabbonisce le voglie,
d’amante e padrone al quale tutto è dovuto, compresi
quegli anni che ho vissuto da sola… Vorrebbe, non osa
domandarmi per quanti, è valsa la pena di tirare a
mattina, e quanti di loro hanno varcato la soglia, senza
attendere giorni in sala d’aspetto, senza attendere
attimi come ora succede, quando un letto disfatto ci
accoglie e lo invita, a rompere gli argini col suo mare
in tempesta.
Sarà questo il limite, il precipizio
del vuoto, oltre il quale c’è il punto dove non torna,
dove ora s’aggrappa e trova il mio seno, la fonte, la
forza per nutrirsi di voglia. Come un bimbo affamato ad
occhi chiusi lo succhia, lo preme e s’ingozza di latte
materno, e come un adulto sa dove toccare, catturare la
preda o lasciarla in attesa. La sua mano che sale, il
mio vestito che scende. Tra meno di un niente sarà
alba soltanto, che è pallida, stinta e non vale un
tramonto, tra meno di un niente un fragore ed un tuono,
un’esplosione di rabbia con tutta me stessa. Questo è il
momento e devo reagire, questo il confine tra piacere e
vendetta. Lui suda e mi preme sulla spalliera del letto,
la sua mano che cerca e s’insinua esperta in un varco
sterrato dove non trova un intoppo, neanche un intralcio
a forma di stoffa. Ora è lì e manca un niente davvero,
una folla di dita scava e fa breccia ed io sento che un
attimo sarebbe già troppo, ecco ora è il momento appena
sull’orlo………. E allora sì che mi alzo da quel letto di
spine, e allora sì che lo lascio nudo proteso, incredulo
per come io possa aver finto, incredulo per quanto male
abbia fatto, ed io abbia consumato nei dettagli il
gusto, e chiede e domanda la ragione del tutto...
Sarà che ogni sera mi succede lo stesso, squilla il
telefono e di colpo mi sveglio, sicuramente è mia madre
come tutte le sere, vuole sapere come è andato il mio
giorno, proprio nel mentre dove caccio un urlo, dove
stavo per dirgli quanta è la rabbia, per dimostrargli la
collera, l’odio che sento, compresso in un attimo, un
gesto, uno sputo, per poi abbandonarmi al gusto che
provo, in un gioco di specchi mi vedo più viva, liberata
di tutto di pesi e zavorre, come lui che per anni è
stato un imbroglio, e per una notte soltanto sono stata
una truffa.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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