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Adamo Bencivenga
L'attore di fotoromanzi
Probabilmente uscì, che era
ancora giorno, lasciando la sua casa in un velo di
penombra, probabilmente era inverno e faceva molto
freddo, e pensò all’amarezza, a come fosse triste,
uscire da quella porta senza un saluto o un arrivederci,
e pensò all’incertezza, a come fosse così vago, l’andare
incontro senza meta, a quel giorno di settembre, ed
affidarsi ad un destino, senza conoscere l’epilogo, come
fosse un film, o quanto meno qualche indizio, oppure una
traccia, un abbozzo di copione per fare un’altra faccia,
nell’attimo preciso che chiuse quella porta, e un
probabilmente uscì sospirando dalla bocca.
Probabilmente lei era bella, forse a questo lui pensava,
ed era andata via, senza neanche un sorriso, e lui non
la trattenne per mancanza di coraggio, oppure non fu
capace di fare altre promesse, oppure solo il tempo o
una banale coincidenza, ed il tempo mangia tutto, ma non
concede altro tempo, specialmente in una stazione con un
treno in partenza, e lui disse a presto, probabilmente
le sorrise, ma era solo un ricordo, distante anni luce,
o lo scherzo del destino, cinico e beffardo, che lo
riportava esattamente sullo stesso marciapiede, a
recitare quella scena come fosse un’altra prova.
Probabilmente rivide quei frammenti, il viso e il suo
cappello, le labbra rosse rosse, gli occhiali scuri ed
un ombrello, lei indossava un tailleur, nero e grigio
fumo, due gocce di profumo, Chanel n. 5, la calza con la
riga, la gonna stretta in vita, e lui un impermeabile
che fa maschio e fa vissuto, che fa uomo troppo solo con
il bavero alzato. Sicuro che lei non pianse, di certo
aveva fretta, probabilmente imbarazzata, o forse solo un
po’ impaziente, poi un gesto come dire il treno sta
partendo, poi un gesto con la mano e quell’arrivederci,
proprio in quel momento che uno sbuffo di vapore,
avvolse quei due visi e invase tutto il resto.
Eh
sì, perché probabilmente tutto avvenne in fretta, lui la
vide in bianco e nero, giurò senza un sonoro,
probabilmente sì, lei salì tenendosi la gonna,
probabilmente no, lei non s’affacciò al finestrino,
probabilmente sospirò un leggero arrivederci, forse
perché non venne altro, e poi ci stava bene, ma non
aveva alcun senso, detto in quel frangente, neanche quel
sorriso oscuro e sibillino, ma forse una battuta come da
copione, oppure per dovere, per non sentirsi troppo
soli, perché un arrivederci non è mai un addio, mai un
taglio netto, forse una speranza.
Probabilmente
lui pensò al nuovo taglio di capelli, magari un incontro
diluito nei minuti, per avere ancora tempo che non
mangiasse altro tempo, dentro ad un futuro tutto da
inventare, se fosse un’intenzione, e quanto fosse vaga,
probabilmente pensò ad altro a quanto fosse lungo,
quell’attimo fuggente breve quanto un lampo, e alle
tante strade che si incrociano, e quale tra le tante
fosse quella giusta, che avesse almeno un bar per
scambiare due parole, che fosse sì distante, da un treno
e una stazione, per avere altro tempo e capire
quell’addio.
Probabilmente sottovoce le venne
d’impeto un ti amo, probabilmente lui lo immaginò
guardandole la bocca, di sicuro avvertì, un vuoto di
silenzio, segni muti di un labiale rimasto dentro i suoi
occhi, in quel momento si pentì di non avere figli, così
per un pretesto, oppure un legame, perché c’è sempre un
figlio, che toglie dal fuoco le castagne, perché c’è
sempre un figlio, che puntualmente le rimette.
Probabilmente fu lei a non aver voluto, e poi le cose
vanno come vanno, probabilmente fu lui che non ci mise
impegno, ed ora su quella panchina tanta gente intorno,
chi andava e chi veniva, chi imprecava il buon Dio, chi
urlava qualche frase senza averne un motivo.
Probabilmente non si accorse, immerso nei pensieri,
probabilmente sì, rimase ad ascoltare, di sicuro era lì
dentro, assorto nella parte, avvolto ed ovattato da una
bolla di vapore. Probabilmente un altro treno,
probabilmente gli anni trenta, probabilmente il fumo
denso di una sigaretta, perché ci sta sempre bene ed
aiuta poi a pensare, probabilmente solo attimi che
ripassò nella sua mente, probabilmente solo flash messi
alla rinfusa, lei con la valigia grigia, lui con il
cappotto chiaro, senza uno strascico di vissuto per
risentire quel dolore, per fare quella faccia senza
gesti e né parole, probabilmente un contrattempo oppure
un torto o una ragione, che obbediva ad un destino senza
sapere quando e come, che spezzava quel legame dentro
una stazione.
Probabilmente si sforzò per dare un
senso a tutto questo, cercò nei suoi ricordi le tracce
di quel viso, il sapore di lavanda dentro i suoi
cassetti, l’odore di violetta dentro i suoi capelli,
l’alone della luna che illuminò quel corpo caldo, perché
probabilmente l’amore c’era stato, ma lui non trovò
nulla, solo vuoto e buchi neri, neanche un appiglio per
vederla dentro un sogno. Probabilmente fu interrotto nel
mezzo dei pensieri, si accesero le luci e qualcuno urlò
qualcosa, in meno di un istante si fece vuoto intorno,
lui capì e probabilmente cercò in fondo un’altra faccia,
un’espressione nuova per esser convincente, diversa
dalle altre davanti a quell’addio.
Perché
probabilmente lei tornò per dargli un’altra prova, e lui
la vide scendere facendo attenzione, per via di quei
tacchi, della gonna e dell’ombrello, per via della
storia, che dice e che non dice, per quale diavolo di
ragione fosse scesa dal quel treno, per quale diavolo di
motivo stesse ripartendo, e come avesse fatto e come si
sentiva, e se per caso in quell’istante ci avesse
ripensato, e fosse ritornata per abbracciarlo sui due
piedi, e coprirlo di carezze, di parole zuccherate, di
baci a due a due, quelli buoni sulla bocca.
Probabilmente sì, lei bella come prima, con gli occhiali
scuri e le labbra rosso fuoco, ferma su quel punto
segnato con il gesso, avvolta in una nuvola di fumo
grigio e nero, perché siamo negli anni trenta oppure
poco dopo, e lei aprì l’ombrello e guardò verso quel
cielo, anche se nessuna nube minacciava il cielo terso,
anche se non c’era un cielo, ma solo acqua finta, ma si
sa che un po’ di pioggia fa più romantico un addio.
Probabilmente lui si alzò e poi le andò incontro, ma
non c’era angoscia, non c’era amore su quel viso,
neanche un velo amaro, un dolore appena appena, solo
esattamente tutto come prima, perché probabilmente lei
sorrise a stento, poi un gesto come dire il treno sta
partendo, poi un gesto con la mano e quell’arrivederci,
probabilmente un ti amo che rimase nella bocca, di
sicuro lui avvertì un vuoto grande dentro, una voragine
di silenzio, un pianto dentro il cuore, segni muti di un
labiale rimasto dentro gli occhi, poi lei salì sul treno
e qualcuno urlò lontano, una voce da regista oppure da
capotreno, lo invitava a riprovarci, a metterci la
linfa, e l’anima e il cuore dentro quell’addio, e lui
mestamente tornò sulla panchina, a domandarsi quando e
dove ripetesse quello sbaglio, in quale circostanza non
fosse affatto convincente, pensando che la vita gli
stesse dando un’altra prova, e quante volte fino a sera,
fino a notte tarda, avrebbe visto quella donna corrergli
incontro, l’avrebbe vista scendere, e salire su quel
treno, e sorridergli aspettando che lui la trattenesse,
e pronunciasse quel ti amo avvolto nel vapore.
Probabilmente…
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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