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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
Le passanti della stazione di Orléans


 


 
 


Io le ho viste, le belle passanti alla stazione di Orléans, sbocciare come viole lungo le banchine, fiorire come rose nell’adagio delle aiuole. Sì, le ho viste eleganti passeggiare, cortesi incedere nei loro soprabiti corti, e sobrie e gentili sfoggiare vezzose, variopinti cappelli graziosi alla moda. Sì che le ho viste innamorate dei loro sorrisi, belle ed austere nei loro tailleur, come se nulla le circondasse e il mondo di fuori fosse solo una lastra trasparente di vetro.

Io le ho viste guardare attentamente l’orario dei treni, ed accorto e curioso ricamavo ad ognuna un ruolo o un motivo, chi moglie, chi amante, chi madre o zitella, ed ognuna di loro rispondeva al tacito invito, raccontando la sua storia passo dopo passo, per come si muoveva, per come fumava, per come teneva la borsa o l’ombrello, o dietro un angolo a volte, ripassare il rossetto o aggiustarsi la calza.

Io le ho viste passeggiare senza mai fermarsi, correre incontro all’amore e farsi abbracciare o fuggire da un addio e stringere il vuoto, o sedute in attesa leggendo riviste di moda, sì che le ho viste incipriarsi le guance, piangere le lacrime acerbe di un arrivederci, o, tra un treno in partenza ed uno in arrivo, guardare mute le ore vuote del silenzio e quelle piene delle muse.

Le belle passanti della stazione di Orléans, erano tante, infinite, un fiume di charme, di mascara ed ombretti, un oceano di calze, di orli e merletti, ed ognuna portava con sé uno sciame di sogni, uno strascico di profumo, un velo di rimpianto.
Sì che le ho viste trafelate e stanche, scomparire dentro una nuvola di vapore biancastro, sole e spaiate dare del tu alla tristezza, dare del voi alla speranza, sotto ombrellini ricamati di raso, sì, io le viste tornare da chissà quale città, da quale lavoro, da quale amore o soltanto da un letto caldo avvolgente, da cene e candele ed aromi piccanti, e coloravano i miei occhi e tingevano le mie fantasie, adagiate sui tavolini all’aperto del bar della stazione.

E le ho viste con i capelli raccolti, simili a crocchie di fascine di grano, cotti nel sole di un’estate trascorsa, ed erano belle perché solo passanti, perché donne inaccessibili che mai avrei potuto avere, ma le ho amate intensamente, tutte senza distinzioni, per ogni attimo che le vedevo passare, per tutto il tempo che aspettavano il treno. E allora sì che mi ingannavo, illuso che anche loro, in quella frazione di tempo, mi avessero amato, perché avevo sorriso, perché da cavaliere avevo concesso loro il posto, oppure le avevo lasciate passare, oppure aiutate, oppure sfiorate, le belle passanti della stazione di Orléans, conosciute appena o mai conosciute, perché distratto dai miei pensieri o impegnato a guardare altre gambe, belle e straniere, dritte e francesi, e forse davvero sarebbe valsa la pena.

Loro scorrevano come un cinema muto, ognuna con la propria andatura, la propria poesia, ognuna con il proprio viso e i propri doveri, anche se tutte si somigliavano indistintamente, quelle da immaginare o quelle già sognate, quelle con le quali avevo già fatto l’amore, per quanto di fretta fossero andate, per quanto lentamente avessero aspettato. Erano lì in bianco e nero, legate da una storia o dentro un destino, in attesa del treno o viste affacciate al finestrino, che salutavano un volto, una storia, una mano, un cappello che mai sarebbe stato identico al mio.

Ed io le ho viste alzare la veletta per gustarsi un caffè o una fetta di torta, e io le ho viste che prendevano il treno, o quelle che non lo avevano mai preso, lì seduto in quel bar, col mio tabacco di Latakia, con il mio panama beige e il mio vestito bianco, nello strascico dei sensi che saziavano i miei occhi, e mi gustavo una menta di zenzero e limone, e in disparte le osservavo nutrendo il mio ardore, dipingendo quei dettagli, tingendo gli spazi, perché alla stazione ci tornavo ogni giorno, e rivedevo quell’afflato d’accordi, gesti e suoni, il vapore di quei treni, il velo e i baci buoni, l’enigma dei gesti, la trama del mistero.
Seduto in quel bar dedicavo la mia penna, la mia barba candida nella nuvola di fumo, alle mie compagne di viaggio, a quelle gonne strette, alle valigie pesanti alle graziose pochette, a quei profumi inebrianti di femmina e gelsomino.

Io le ho viste nelle ore di punta, o in quelle lente della domenica pomeriggio, le ho viste fuggire da una relazione, o solo illudersi per una carezza, belle passanti tradite dalla vita, o dalla vita ripagate per un segreto piacere.
Sì che le ho viste farsi tagliare le ali come i capelli, ripassare il rossetto per un bacio mai dato, e tuffarsi ingenue e desiderose, nella stretta di un abbraccio di una morsa assassina.

Sì certo loro, le belle passanti, in attesa di un uomo, un cappello, una rosa, di quel treno che mai sarebbe arrivato, perché lui era sposato, perché padre o solo promesso, ed eccole qui, le belle passanti, immagini seppiate di un’antica gentilezza, consapevoli che un attimo dopo sarebbero state di nuovo folla, confuse ed anonime nei loro pensieri, nei loro ritorni.
Eppure indugiavano per farsi ammirare, per essere l’unico sogno notturno, e stelle comete e lune di miele, attrici di scena e ballerine di fila, amanti per un solo raro minuto o per tutto il tempo che le vedevo passare, senza seguirle se non con lo sguardo, senza il piacere di sfiorare loro la mano, e gongolarmi nel desiderio mai domo, di ciò che sarebbe potuto succedere e mai è successo.

Sì proprio loro che conoscevano l’ardire e le mosse delle dive, le manie dei poeti in cerca dell’ispirazione, rimatori da strapazzo, scrittori senza storie, clienti potenziali oppure semplici guardoni, oppure perditempo seduti ai tavolini, che a schiere ed a fiumane riempivano quei posti.
Sì proprio loro, diverse da tutte le passanti delle altre stazioni, perché avevano i sogni più belli e i baci più caldi, gli addii più intensi e le gambe più dritte, e i fianchi più curvi come le crome di Hendel, le stoffe più morbide ingentilite da pizzi e merletti, e cucite a mano dalle madri o dalle sarte, mie belle passanti della stazione di Orleans.

Ed è proprio in quei momenti che torna lei musa tra le muse, quando il rimpianto diventa abitudine, quando il rammarico un’amabile suggestione, e davo forma alla nostalgia, un senso al ricordo.
Eppure sì una volta è successo, l’ho seguita a pochi metri, come un cane ad occhi chiusi, attratto da quel profumo d’oriente e di vaniglia, da quel miele insaporito da resina ed incenso.
Sì che l’ho seguita, sì che lo ricordo, nel velo scuro del crepuscolo, nel buio rosso del tramonto, e c’era un vento forte lungo la coda dell’estate, sotto la gonna di quel tailleur nero e grigio fumo, che spirava come amante risalendo tra le gambe.
Ed era un vento che portava via odori, delle sue labbra grandi, rosse d’amarena, e lasciava all’eco treni e foglie, che verdi e gialle danzavano sospese, sulle traverse dei binari, dove passavano i locali, e passeggiate lungo il viale, sotto gli ombrelli dei signori, lungo la strada sotto i pioppi, coi cani che facevano i bisogni, coi cani che facevano l’amore, oppure l’avevano già fatto.

Ed io l’ho seguita, sì che l’ho seguita, sentivo il rumore dei suoi tacchi alti, la grazia del suo invito che lezioso mi esortava, e sembrava una musica che fioriva tra le note, e sembrava un Bolero che lento lievitava, in un soffio armonico di fiati e di violini, come scale ed accordi che s’inseguono e poi vanno.
Dio com’era bella, i suoi capelli come seta, la sua forma come un’anfora romana, il taglio della gonna uno spacco in fondo al cuore, la pelle del suo viso un germoglio di cotone.
Dio come era bella lungo la coda di settembre, lungo i suoi passi dove mai sarei potuto andare, sì perché d’improvviso si è fermata, sì perché un’ombra scura l’ha baciata, e in quell’abbraccio c’era un’altra casa, e in quella stretta altre notti, il taglio corto dei capelli, la cena a lume di candela, il suo vestito nuovo e un brivido lungo la schiena.

Lui era in giacca scura con il bavero alzato, forse aveva freddo o era solo un vezzo, poi un bacio improvviso che racchiudeva una storia, e poi braccia e mani strette in quell’alcova, a volte si odoravano, altre si baciavano, come se in quel mondo non esistesse più nessuno, come se in quel posto ci fosse solo vento e treni, ed odore di penombra, di promesse e d’abbandono, e nessun’altra anima viva, tranne me a distanza che osservavo quell’alone, spesso come la coltre della nebbia di laguna, e seguivo quella scena dalla vetrina che sfumava, di quel bar dentro il quale mi ero rifugiato, e appoggiato al bancone fissavo quella strada, fissavo quanto amaro fosse il mio bicchiere, e come in un dipinto di Hopper o di Degas, ridevo al cameriere, facevo finta di ascoltare, cercando in tutti i modi di non essere scoperto.

Eh sì che ho fatto l’amore con lei, ed sì in quell’istante e nei giorni a venire, invidiavo quell’uomo, il cappello e la sua sciarpa, e come la stringeva, e come l'abbracciava, e mi piaceva pensare che fossi stato io, a baciarla, a toccarla, a dirle “Mi sei mancata”, e poi ancora “Amore mio” e finire in un “Ti amo”, in quell’abbraccio caldo, nel bacio lungo quanto un treno, nell’adagio delle aiuole, le sue parole ad onde e fiumi, i corpi caldi di un saluto.
Non so quanto sia durato, non so quanto abbia tenuto in mano quel bicchiere, e quanto lui l’abbia stretta, e quanto il cameriere avesse poi intuito, so solo che lei si è voltata, eh sì che mi ha guardato, certo mi ha sorriso, muovendo le sue labbra in segno di malizia, e poi stretta a lui si è allontanata, fino a diventare un punto grigio, fino a scomparire.

Sarà stata l’anisette, sarà stato il cuore gonfio, la coda dei minuti dopo le smanie dell’amore, il velo di penombra che sfuma la mia luna, e mi segue e mi precede come amante tempestosa, ma ora sono qui impaziente che cammino, le mani in tasca e il vento in faccia, i ricami di un sorriso, le rime delle muse, e torno alla banchina, aggrappato a un filo rosso, in cerca di emozioni, malato di passioni, malato di passanti nella stazione di Orleans. ..

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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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Photo  ToniFrissell

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