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Adamo Bencivenga
Mia fanciulla del deserto
Mia fanciulla del deserto,
mia giovane amante, le mie orme sono stanche, ad ogni
passo più profonde, infiacchite dalla notte, da ogni
luna più pesante, perché i miei sacchi sono pieni, di
seta e di broccato, il mio tragitto una curva, la mia
strada un tornante, anche se m’illudo ancora, che sia
una linea retta, la strada più spedita per raggiungere
la meta. Perché domani sia un’alba, leggera e rosa,
chiara, perché domani sia l’alba nel villaggio di
Menshur, e possa vendere la merce ai mercanti di Giudea,
e guadagnarci quanto basta per volere del buon Dio, per
tornare fino a te, e riscattare il mio cammello, per
tornare fino a te, e comprarti a peso d’oro.
Mia fanciulla del deserto,
mia giovane esperta, cinque perle in una tasca per
ricordarmi del tuo nome, mi hai dato la tua bocca per
dissetarmi lungo il viaggio, mi hai dato i tuoi occhi
per distinguere nel buio, ed orientarmi con le stelle
nella notte cupa e pesta, e vedere a due passi, le tue
forme nude e snelle, come se bastasse un braccio, per
placare la mia brama, come se bastasse un niente per
baciare i tuoi capelli. Mi hai dato il tuo seno, mi hai
dato il tuo latte, perché io abbia la forza, lungo
questa pista secca, e non temere questo nero e le ombre
del deserto, e combattere i predoni per arrivare a
Menshur, ovunque ora sia, distante o più vicina, e non
vada per errore dall’altra parte del cammino.
Mia
fanciulla del deserto, i miei piedi sono gonfi, feriti
dalle spine come lame di pugnale, e mi chiedo come farò
a ritrovare questa pista, e frugo nella notte le pietre
in fila indiana, e tengo a mente le più grandi, le forme
ed i contorni, e qualche albero di fico, e pastori senza
denti, che immagino oltre le dune, con gli occhi bianchi
della notte, dentro case, smorte e sparse, di sassi e
senza tetto, troppo uguali perché domani, diventino
ritorno, troppo identiche a quest’ora per darmi almeno
il verso. Mi hai baciato con un sorriso, sfiorandomi la
fronte, “Tornerai fino a me, guidato dal mio amore…
Sentirai il mio odore qualunque cosa faccia, dentro
strascichi d’organza indossati per mestiere.” Ricordo le
tue parole, tra gemiti e sospiri, frasi secche e
disarmanti di vita e di deserto: “Qui non si ha dolore
perché non si conosce il bene, qui non si può morire
perché mai siamo nati.”
Mia
fanciulla del deserto, mio miraggio sulla sabbia, qui è
buio pesto, non vedo le mie orme, anche se all’orizzonte
una luce incandescente, scontorna i profili, poi a
tratti li ricurva, poi a tratti li scolora sfumandoli
nel sogno, lasciandoli sospesi perché tu sia qui
presente. Perché tu sia il riflesso e l’ombra, spiraglio
della luna, profumo del tuo corpo, pertugio di piacere,
come incanto che consola nella coda degli spettri, e
guarisca le ferite con succo d’agave più denso, e
ristori la mia pelle, insecchita per il vento, e mi
guidi fino al pozzo, dove sgorga acqua pura.
Mia fanciulla del deserto,
mia forza nelle ossa, se incontrerò un cammello fa che
lui mi ceda il posto, se incontrerò un viaggiatore gli
offrirò il mio saluto, gli rivolgerò la mia parola, lo
aiuterò se ha bisogno, perché sia il benvenuto, perché
sia mio fratello, in nome della Legge, di Dio e del
Deserto. Come tu hai fatto allora, porgendomi il tuo
secchio, sangue del mio sangue, sorella della notte,
offrendomi i contorni sfumati del tuo seno, tra le tue
sabbiose dune, levigate dal buon vento, d’onde
increspate, dorate all’orizzonte.
Mia
fanciulla del deserto, mio miraggio tra le stelle, oh
mia carne di montone, acqua che disseta, la spezia più
piccante che fa buona la tua carne, m’assalgono i dubbi
come i crampi della fame, che t’abbia mai incontrata,
che t’abbia poi baciata, tra la luce del risveglio
nell’alba immacolata, tutto intorno sabbia gialla, e
polvere e carovane, e branchi di sciacalli e viaggiatori
e movimento, perche qui non è possibile, fermarsi e poi
restare, qui non ci sono piante che affondano radici,
solo vento che cancella le tracce di passione, perché
sia di nuovo illeso, tutto vergine e inviolato.
Mia fanciulla del deserto,
mia giovane Amina, in arabo fedele, madre del Profeta,
ti ho incontrata lungo il viaggio, sulla luce del
tramonto, eri lì che mi aspettavi, seduta sul destino,
mi hai visto e mi hai sorriso, accarezzandomi la fronte,
e muta mi hai condotto nell’oasi del tuo verde, tra case
di fango secco e grida di bambini, e mano per la mano
tra dirupi e gole fonde, nel ventre del deserto fino al
tuo villaggio. “Che tu sia il benvenuto!” Ha detto tuo
padre, porgendomi la mano come fa un uomo bianco,
porgendomi una brocca, una bevanda gialla e densa,
ordinandomi di bere senza mai staccar la bocca, quel
succo di palma legbi, spacciato per buon vino. “Che tu
sia un uomo forte!” Ha detto tua madre, poi mi ha fatto
accomodare porgendomi un cuscino, nel posto riservato
all’ospite gradito, apparecchiando sul tappeto carne di
pecora bollita, all’aglio, al coriandolo e pepe e
cardamomo.
Dopo
cena alzando il calice, stracolmo di quel succo, tuo
padre ha pronunciato parole di consenso: “Che sbocci un
grande amore, come una rosa del deserto! Che fortifichi
stanotte, benedetto dal buon Dio, sopravviva senza acqua
come qui le piante grasse!” Tu senza fiatare, al centro
della tenda, hai tolto lentamente i veli dal tuo seno,
mi hai offerto la tua bocca come se m’appartenesse,
invitandomi a ballare con le tue sorelle in cerchio, una
specie di danza berbera per fanciulle date in sposa, che
svelano le labbra, tinte di pepe rosso, e baciano un
lembo di una seta a quadri chiara, perché ne rimanga
impressa la forma della bocca, su cui l’uomo, quello
scelto, poggerà le proprie labbra.
Pensavo fosse un rito per
l’ospite gradito, come prima il montone, come ora il the
alla menta, mi hai offerto in trasparenza il tuo seno
grande e nero, io un uomo bianco, la prima volta in
assoluto, che accarezzavo quella pelle, cotta al sole
del Sahara, e tu donna ambrata mi hai guidato
nell’alcova, e mi hai detto amore nella tua lingua, ed
io ti amo nella mia, faceva strano ed abbiamo riso,
faceva caldo e ci siamo amati, fino a quando l’orizzonte
è diventato giorno vero, e il profilo della duna la
forma del tuo seno.
Mia
fanciulla del deserto, mia giovane signora, le mie orme
sono stanche, a ogni passo più profonde, i miei sacchi
sono pieni di seta e di preziosi, il mio tragitto una
curva, la mia strada un tornante, sono giorni che
cammino, che arranco, vago e giro, senza che durante il
viaggio abbia visto un solo uomo, una capra od un
qualcosa che somigli ad una vita, anche se in lontananza
vedo le luci di Menshur, vedo acqua e sento voci,
accompagnate dai tuoi baci, come le stelle fino
all’alba, guidano un viandante, in questa pista secca,
come nell’altra faccia della luna, in quella tenda buia,
fino al fondo del tuo corpo.
Mia
fanciulla del deserto, mio miraggio sulla sabbia, eri
esperta e me lo hai detto che non ero stato il primo,
che non ero stato il solo, a gustare nettare di palma,
tu, bella come l’acqua, farina del tuo pane, tu, sorella
di altre cinque, ma la sola maggiorenne, e le femmine
nel deserto non sono buone per la terra, né per
pascolare, cavalli berberi e somari, neppure per
difendersi dai predoni e gli assassini, ma solo per
accogliere tra le grazie il viaggiatore, ma solo per
accogliermi in quella notte pesta, e dirmi che ero
diverso, senza dirmi la ragione, e dirmi che mi amavi,
senza conoscere il mio nome, per strapparmi una
promessa, dopo il viaggio a Menshur, di perderti per
sempre o riscattare il mio cammello.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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Photo
Anna Koudella
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