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Adamo Bencivenga
Nei mattini freddi
E’ nei mattini freddi di queste notti senza fine, che sento da lontano il
ticchettio dei suoi passi, inconfondibili al rumore che struscia
sull’asfalto, che sa di fianchi ad ore, fasciati nella nebbia, che sa di
donna sola, di fatica a fine turno.
E’ in quei mattini freddi avvolta in un mantello, col suo strascico di
gelo e il dai e dai della notte, che mi sorride già dal fondo, appoggiata
alla vetrata, ma è un ghigno d'esperienza, di stanchezza e di mestiere,
incastonato negli specchi di questa sala troppo grande, che amplifica la
danza della sua gonna da lavoro, che riflette su questo marmo di un
albergo a cinque stelle, a due passi da chi parte vicino alla stazione.
E’ nei mattini freddi che mi riempie occhi e cuore, col suo rossetto
ripassato chissà per quante volte, e quante poi sbafato dentro il buio
della notte, con quell’aria un po' d'artista che cola sotto gli occhi, dove
s’increspa la matita di un verde ormai stantio. Mi saluta con un “tesoro”
come se fossi un cliente, come se per una volta fossimo stati dentro un
letto, alle volte anche “amore” che conservo premuroso, e la vedo nei
contorni dell’ombra contro il muro, mentre scivola
bollente quando il sogno mi rapisce, o quando nel mio letto lo ripeto
ossessivo. Ed allora sì
che non è un intercalare, e diventa una carezza che accompagna la mia
mano, pensieri allo specchio che disegnano le forme, senza illudermi che
un giorno possa essere reale, perché non sono il tipo da riempire i suoi
sogni, che poi non sono sogni, ma tasche e reggiseni.
E’ nei mattini freddi che la vedo soddisfatta, e mi dice quanti soldi son
passati per le mani, o nelle notti quando a volte non è sola, e ride ed
è contenta con il cliente sottobraccio. Ed io penso a quanto amore ha
spettinato i suoi capelli, e quante volte riordinati in uno specchio
tremolante, quando l’auto in corsa la rimette al proprio posto, in un
angolo di strada dove tira sempre il vento. E’ in quei mattini freddi dove
l’alba è distante, appoggiata alla serranda sopra un tacco come un cigno,
tra i palazzi di una Roma dove la luna arriva sempre, ed il sole a
mezzogiorno è impegnato in altre parti.
E’ in quelle strade fredde che s’aggirano sparute, quattro facce orientali
che le chiedono per quanto, con lingue incomprensibili di cinese e di
borgata, di una Roma che a quest’ora offre tanta concorrenza. Ed immobile
lei fissa un punto che non vede, nell’attesa quasi certa che il prossimo
che passa, è solo un altro tizio che ha fatto un altro giro, ed i numeri
non mentono come il seno in bella mostra, ogni tre una richiesta che
s’informa quanto vale, ogni cinque un “andiamo” in albergo o dentro un
treno.
E’ nei mattini freddi che la vedo ritornare, con i gomiti sul bancone che
mi chiede la sua chiave, e vedo i suoi seni come arnesi da lavoro, e non
posso non pensare che sono nidi per chi vuole, riposarsi quel che basta e
poi in fretta ripartire. La guardo e faccio finta di non ricordare la sua
stanza, per un attimo un istante che mi sazi ore intere, per fissarli
nella mente e perché non si sa mai, magari un pensiero o i miei occhi
verde bosco, o solo un cruccio strano un desiderio nato a caso, per sapere
se un portiere sia all’altezza o poco meno.
E’ nei mattini freddi che la vedo risalire, che cerco nello spacco un
dettaglio per capire, quale sia la differenza di pagarla o andarci gratis,
d’essere un cliente o un amante ufficiale. La vedo che cammina stretta
nella gonna, che sale venti scale a malapena sui suoi tacchi, tra la trama
della calza sulla riga che scompare, e mi invita nei suoi fianchi senza
dire una parola. Lo so che non è vero ed ha solo voglia di dormire, e
quello che le offro non è per nulla un diversivo, ma pratiche e scartoffie
come fosse un ragioniere, ma sveglie o cene in camera come ad un portiere.
Lo so che non è vero ma riempie la mia notte, nell’attesa che mi chiami
per un cuscino o un calmante, per un banale mal di testa o un nervo che
s’infiamma, o soltanto una rivista perché è difficile dormire. Lo so che
non è vero ma l’alba arriva prima, pensarla in sottogonna che aspetta uno
squillo, oppure un toc toc discreto in piena notte, o meglio questa chiave
che apre ogni porta. Trovarla alla finestra che non si gira e non si
volta, trovarla alla finestra che fuma e guarda Roma, e mi dice
sussurrando di entrare e fare piano, perché non serve il rumore tanto meno
le parole, nemmeno la mia faccia che conosce a memoria, e se solo si
voltasse finirebbe di sognare.
E’ nei mattini freddi che rimango lì impalato, in attesa di un suo cenno
per avanzare di due passi, e chiederle permesso, discreto e sottovoce, per
il timore di urtarla o essere di troppo. Guardarla che si spoglia che
srotola la calza, e mi lascia un odore d’essenza e di pelle, e vedo i suoi
seni come cime innevate, come coppe di gelato di fragola e di panna. Mi
stupisco quanta carne le riempie in abbondanza, quanto siano
intatte, fresche e rigogliose, come fossero per anni rimaste in attesa, e
nessuno questa notte le avesse strapazzate, di mani e poi di bocca e poi
usate come spugne, che s’avvolgono intorno al piacere duro e maschio.
E’ nei mattini freddi che mi chiama con il mio nome, ed io sento il mio
cuore che rimbomba e batte forte, come fosse una sera diversa dalle altre,
di quelle che la mente non potrebbe cancellare, ma annoiarci poi nipoti
per almeno cinquant’anni. Distesa nel suo letto mi invita dolcemente,
sfiorata da una luna che entra e si riposa, proprio su quel seno lo stesso
dei miei sogni, quando l’accarezzo e si lascia accarezzare, quando poi la
bacio e lo sento che mi vuole. Perché non c’è barriera e nemmeno
differenza, perché lei è una puttana ed io un portiere, che poggia il
vassoio di tisana alle erbe, e le dice buonanotte e torna sui suoi passi,
e spegne poi la luce senza più rivoltarsi.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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