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Adamo Bencivenga
Olga
.. .Dicevo, vivo in una casa molto grande al centro di
Roma, di fronte alla Fontana delle Rane nel quartiere Coppedè,
dalla mia finestra vedo i tetti rossi e le terrazze, che si
incastonano perfettamente con i chiari e scuri delle mie
giornate. Alle volte vedo il mare, dei tavolini all’aperto,
degli ombrelloni chiusi come fosse inverno pieno, ma so che è
solo un sogno. Non lavoro, non l’ho mai fatto e non ne ho
bisogno, ma scrivo, da vent’anni scrivo il mio romanzo, ogni
volta lo finisco, ogni volta lo riprendo. Altre lo lascio
decantare come un buon rosso d’annata, in modo che la sensualità
delle parole scritte, sprigioni i profumi tipici della
leggerezza, alla stessa stregua di una seta tenuta a lungo in un
cassetto.
Dicevo, il mio romanzo è il filo conduttore
della mia giornata, come del resto Olga, la mia donna di
servizio, è di origine lettone, ma non ho mai saputo il suo
cognome, al punto che, se non dovesse un giorno più venire, non
saprei dove rintracciarla. Puntualmente ogni mattina alle 8,
cascasse il mondo, apre la porta di casa. E’ così silenziosa che
non l’ho mai sentita entrare, anche perché a quell’ora di solito
dormo, oppure sogno, il mio romanzo naturalmente. Lei sbriga le
faccende di casa ed apparecchia la tavola, prepara la colazione
senza fare il minimo rumore e alle dieci in punto mi sveglia, mi
sveglia da nove anni con un brano di Franz Liszt, Rêve d'Amour,
sempre lo stesso, e mentre la musica si diffonde, lei apre
leggermente la finestra e dalla campana di San Michele echeggia
l’ultimo dei dieci rintocchi.
Dicevo, San Michele è
un convento di suore paoline, dalla mia terrazza vedo la
facciata in stile, anzi la intravedo tra i pini dei Villini
delle Fate, Olga invece ha quarantatre anni, all’incirca dieci
anni meno dei miei, i suoi occhi sono di un azzurro intenso,
oserei dire come il mare, i suoi capelli invece sono biondi,
esattamente come il grano, ma la sua pelle, nonostante la sua
età, è appassita come un fiore reciso. Veste spesso con un abito
nero, e non posso non notarla mentre riordina il mio studio, e
non posso non pensare ad un concetto di sesso alla buona, ma è
un pensiero flebile, da maschio che non m’appartiene ed in
effetti si esaurisce non appena esce dalla stanza. Non ho mai
capito se sia vedova o suo marito sia rimasto in Lettonia, so
che lei viveva in una città chiamata Jurmala che si affaccia sul
mar Baltico vicino Riga. Di suo marito non so, ma non credo che
tutto sommato mi interessi.
Dicevo, lei parla bene
l’italiano, ma non usa mai i congiuntivi. Il più delle volte
mette il verbo all’infinito altre preferisce rimanere in
silenzio, perché ha sempre tanto da fare e il suo tempo è sempre
scarso. So che vive in periferia con i suoi tre fratelli, due
cognate ed un nipote, in una casa molto piccola e il bagno in
terrazza. Non so altro di lei anche se da nove anni trascorre
con me l’intera luce di ogni giorno, comprese feste, domeniche e
malattie. Non credo si sia mai seduta su questo divano oppure
per qualche strano motivo abbia passato parte del suo tempo a
conversare. Già, il suo tempo, perché il mio è tanto, è tutto, e
lo distribuisco perfettamente durante la giornata.
Dicevo, non ho mai fatto l’amore con una donna, anzi no, non
l’avevo detto, ma credo sia importante per il resto della
storia. Non so cosa sia il sapore di due labbra, il velluto e la
morbidezza, anche se poi lo scrivo, e cosa significhi
accarezzare due gambe, anzi due calze di seta nera perché di
quello avrei bisogno, ma del resto non saprei come fare perché
non conosco altra donna tranne Olga s’intende, la portiera dello
stabile e la contessa ungherese che abita al secondo piano. A
parte ciò che scrivo, nella vita reale il mio concetto di donna
è molto semplice, non riesco a concepire una donna che non
sappia cucinare o stirare, che non sappia rammendare o se a
volte succede fare sesso e non l’amore con l’unico scopo di
ispirare le figure minori del mio romanzo.
Dicevo la
portiera dello stabile si chiama Ivana è molto gentile con me,
ogni giorno bussa alla mia porta, mi porta la posta e si informa
se ho bisogno di qualcosa. Ho sempre pensato che dietro quella
gentilezza si nasconda altro, beh lei sa che sono ricco e in fin
dei conti è una donna piacente anche se non usa mai rossetto e
porta spesso calze a rete. Dal suo sguardo mi accorgo che sa di
piacere, d’essere in qualche modo una donna attraente. I suoi
occhi dicono molto di più delle parole che dice, ed in effetti
dice spesso che ha poco tempo, ma sono tempi diversi da quelli
di Olga e sono sicuro che per me lo troverebbe, se solo una
volta la invitassi, se solo tutte le volte non la lasciassi
sulla porta. So che ha un marito che lavora alle Poste, ma credo
che questo non sarebbe un problema, e una figlia all’Università
che studia Biologia, ma questa è un’altra storia.
Dicevo,
passo tutto il tempo in casa, mi trascino dallo studio al
salotto, alle volte esco in terrazza ad annaffiare i miei
ciclamini rossi, le mie begonie brasiliane, altre solo per
prendere una boccata d’aria, con indosso una giacca da camera,
d’inverno di lana a quadri, d’estate di un leggero lino beige.
Non metto mai altri vestiti anche perché non esco quasi mai, non
ne ho bisogno e non ne ho voglia, tranne le rare volte quando
vado al cimitero e porto un fiore a mia madre, un saluto a mio
padre, o quando la domenica, ancora più raramente, vado a pranzo
da mia figlia Irene.
Dicevo, Irene è mia figlia
adottiva, è sposata con un cantante lirico, hanno due figli, un
grosso cane ed una casa al mare che non ho mai visto e non mi fa
voglia vedere. Mia figlia mi fa visita all’incirca ogni
settimana e tutte le volte mi esorta ad uscire ed incontrare
gente, dice che sarebbe un modo per distrarmi, anche se io non
ne ho mai sentito la necessità, né credo di essermi mai
lamentato. Dice che qui a poche centinaia di metri hanno aperto
da poco una sala bingo con annesso un locale da ballo e sempre
Irene dice che ci vede spesso signore eleganti ed uomini
distinti, ma io le ripeto ogni volta che non so ballare. Ma lei
lo dice tanto per dire, sa di non avere altri argomenti in
comune tranne quello del tempo, anche lei, a quanto pare, ne ha
poco. Sono sempre più convinto che il poco tempo sia un concetto
per sole donne.
Dicevo, non ho mai fatto l’amore con
una donna vera, ma non mi manca nulla, passo le mie giornate nel
torpore di un divenire, ma non è un’attesa e nemmeno una
frenesia. Comunque se dovesse capitare mi accontenterei di poco,
forse tralascerei anche il sesso se non fosse strettamente
necessario per l’amore. Ad esempio alle donne del mio romanzo,
prima di fare l’amore, non ho mai chiesto troppo. Una goccia di
essenza al gelsomino, una tinta di rosso scuro sulle labbra ed
un vestito leggero, alle volte nero, altre grigio perla che
copre e scopre il velo di un paio di calze raffinate. Odio le
calze a rete, le trovo volgari. Un giorno o l’altro metterò al
corrente la signora Ivana dei miei gusti, come del resto le dirò
che adoro i tacchi alti, quelli sì, sono essenziali per una cena
a due o un sobrio scambio di pareri anche in piedi sulla porta
di casa.
Dicevo, i miei giorni sono tutti uguali,
scorrono lentamente senza mai trovarli noiosi, oltre a scrivere
il mio romanzo colleziono francobolli esteri che la signora
Ivana mi procura, o meglio il marito della signora Ivana. Lui
non sale mai a bussare alla mia porta, tranne per qualche
urgenza di piccoli lavori in casa. Posso intuire il motivo, ma
tra uomini si parla meglio e non avrei alcuna difficoltà a
dirgli che odio le calze a rete e lui sicuramente non ne avrebbe
altrettanta a riferirlo a sua moglie. So che lo metterei al
corrente del mio romanzo e che una delle figure minori
assomiglia molto a sua moglie. Certo non gli direi che fa la
sguattera nel castello del Re e che una volta è stata anche
violentata dal maggiordomo, ma gli direi senz’altro che se sua
moglie non indossasse le calze a rete potrei invitarla alle
cinque di una domenica pomeriggio per un thè e dei pasticcini.
Forse è un’idea bizzarra, ma so che lui capirebbe.
Dicevo, i miei giorni sono tutti uguali, scorrono lentamente
senza che mai li trovi noiosi. Da che ricordi negli ultimi due
anni solo una volta qualcuno ha bussato alla mia porta senza
avvertire. Era la signora Tamara, la contessa ungherese del
piano di sotto. Lei sì che è una donna piacente e raffinata.
Credo abbia all’incirca la mia età. Si è scusata più volte per
quell’intrusione, ma era preoccupata per il suo gattino finito
per chissà quale motivo sulla mia terrazza. Naturalmente l’ho
pregata di entrare anche se poi non amo molto gli animali. Ecco
in quel momento ho apprezzato il suo modo di fare deciso ma non
invadente, da femmina consapevole a cui è concesso tutto. Mentre
cercava il suo gattino ho avuto modo di apprezzare i suoi
fianchi, simili a due curve morbide d’anfora antica. Quando si è
congedata, scusandosi di nuovo, ho trascritto immediatamente
quelle forme armoniche sulla mia Moleskine abbozzando
addirittura un piccolo schizzo sicuramente utile per un prossimo
capitolo del mio romanzo.
Dicevo, vivo il mio momento
bello quando a sera l’imbrunire vela la mia casa. Olga
apparecchia per la cena e spegne la luce in sala. Di solito sono
ancora nel mio studio a scrivere il mio romanzo. Attraverso la
porta chiusa mi chiama. Non bussa, ma aspetta. Olga mi chiama
dottore, da nove anni mi chiama così, alle volte penso che non
abbia mai saputo il mio nome. Io la chiamo Olga, dandole del
lei, una sola volta l’ho chiamata signora, ma non funziona, non
dà l’esatta misura della distanza tra me e lei.
Dicevo,
vivo il mio momento più bello dopo il tramonto. Nella penombra
della sala Olga si muove pesantemente, ma con la grazia di una
ballerina in sovrappeso. Delicatamente poggia al centro della
tavola il mio menorah, il candelabro a sette bracci, e poi
lentamente, come fosse un rito accende ad una ad una le candele
sempre nuove. Subito dopo serve a tavola mentre estasiato
assaporo dal mio calice preferito un dito di Shiraz siciliano.
Le zuppe di verdura e legumi di Olga sono a dir poco squisite,
ogni sera diverse, le gusto lentamente indovinando gli
ingredienti. Ecco questo è il momento in cui avrei bisogno di
una donna, non so come dire, ma davanti a me si nota l’assenza
di una figura che ingentilisca la mia cena, che assecondi i miei
discorsi, oppure rimanga semplicemente ferma e riempia quel
vuoto di sole ombre.
Dicevo, tutte le volte rimango
un attimo nel dubbio, lascio che i miei pensieri si adagino
sulla tovaglia e un momento dopo chiamo Olga pregandola di
sedersi sulla sedia di rimpetto. Olga sa che questo è il
momento, non ho bisogno di dire altro. Lei si assenta il tempo
giusto per dare un tono alla mia attesa, poi torna, tutte le
volte torna. Ovviamente è tutto un sogno, ovviamente non è vero
e allora immagino i suoi tacchi da lontano, lungo il corridoio,
sento il suo profumo al gelsomino, il fruscio della seta tra le
gambe. Immagino le sue labbra rosse, le sue calze un velo nero.
Spesso immagino che raccolga i suoi capelli, altri che li lasci
ad onde sulle spalle.
Dicevo, so che non è il mio
tipo e se davvero la guardassi non esprimerebbe a pieno il mio
concetto. Il suo viso è sempre lo stesso, l’aria dimessa quasi
assente, propria di chi non capisce o meglio non le interessa
poi capire. Per lei è solo un’incombenza come stirare o pulire,
e mentre nella stanza si diffonde il Rêve d'Amour di Liszt, lei
si siede con il suo vestito da poco, ma io la immagino con un
abito da sera ed una scollatura profonda e immagino di guardarle
il seno attraverso il candelabro, alle volte tra il terzo e il
quarto braccio tra gli aloni delle fiamme rosse, altre dopo il
settimo per vedere più nitidi i contorni. La guardo e la
riguardo, finché assume altre sembianze, alle volte è Ginevra,
la protagonista del mio romanzo, altre semplicemente Elettra la
moglie del Governatore.
Dicevo, Olga è paziente, non
mangia e non parla, ogni tanto guarda l’ora, ma sa di essere
essenziale, quanto un Mondrian su una parete bianca, quanto un
soprammobile sopra un Luigi in stile. Ecco, questo è tutto
quello che conosco dell’amore, alle volte mi chiedo, semmai
dovesse capitare, come possa essere un amore senza candelabro e
senza questa zuppa che fuma e mi riscalda, e quali sensazioni
potrebbero avere le mie mani, perché conosco bene quelle dei
miei occhi, gli odori ed i sapori, perché Ginevra accavalla le
sue gambe anche se non la sento, perché Elettra prende il calice
per il gambo anche se non beve. Poi Olga ora si alza da tavola
perché sono le otto in punto ed io ho terminato la mia cena. Lei
mi saluta e corre a casa, anzi prima va nell’altra stanza, si
spoglia e si riveste, anche se non è vero, anche se fa finta, ma
sa che se la immaginassi con l’abito nero da cameriera, che del
resto porta, rovinerebbe per sempre la mia serata.
Dicevo, Olga ora è andata e il Rêve d'Amour è finito, pago
della serata, mi fumo un sigaro in silenzio e guardo la sedia
vuota come sempre, ma è rimasto indelebile l’alone, la forma di
una donna che amabilmente parla, oppure ascolta attentamente la
trama del mio romanzo, finché sembra svanire anche l’ultimo
contorno, lasciando il desiderio intatto come sempre e la
convinzione che in amore nulla è scontato neanche il sesso se
non è strettamente necessario.
Dicevo, alle volte
penso di chiedere ad Olga di rimanere un’ora in più, oppure se
possibile di trattenersi fino a tardi. Altre penso alla signora
Ivana, ma senza calze a rete, altre ai fianchi aristocratici e
morbidi della signora Tamara, a Ginevra e ad Elettra senza
tuttavia farle ingelosire. Altre ancora mi rendo conto di essere
davvero stanco e che di tutte queste donne potrei davvero farne
a meno.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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