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Adamo Bencivenga
Parco degli Aranci
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..Sarà che stasera indossi una gonna, a maglie più larghe
perché s’intraveda, l’infinito bisogno d’essere certa, che una femmina è
femmina quando nel ventre, percepisce l’essenza d’ogni essere e cosa, la
consistenza e i contorni dell’intorno che entra, nell’unico senso adatto a
sentire, nell’unico verso che natura ha deciso, e diluisce il tuo sangue,
e ti fa leggera l’essenza, come se a breve agitando le braccia, potresti
emulare quel gabbiano che vola.
Sarà il tuo respiro che ad ogni passo s’ingrossa, queste foglie sul viale
che si spostano ad onde, e lasciano polvere che s’aggruma e s’annida, nel
vuoto rimbombo di un’eco lontana, d’una Roma assopita distratta e deserta,
che t’accoglie nel ventre di un umido sole.
Perché ora cammini lasciando la scia, perché ora ti siedi in faccia al
tramonto, e sul parapetto ti lasci rapire, per accogliere il mondo e
goderne bellezza, per sentire la sagoma dell’ombra dei pini, e dare una
forma al cielo che rosso, ti modella le pieghe delle gambe che offri, in
un rapporto di carne senza uomo né donna.
Perché non sono gli occhi che danno misura, né il naso l’odore d’essenza,
né le mani il concetto di forza, come quando bambina assaggiavi ogni cosa,
sentivi le forme attraverso la bocca, di qualsiasi oggetto non bastavano
gli occhi, ma il palato, la lingua per limitarne i contorni, come ora da
grande non serve la vista, per dare il profilo ad ogni cosa che incontri,
quando sola per strada ti lasci rapire, per sentirla più dentro quando
chiudi le labbra, per sentirne il vigore, l’oggetto, la forma.
Respiri più forte per non perdere nulla, ogni dettaglio che dà conoscenza,
la convinzione che sei parte del cosmo, che t’entra e riempie le vene e le
ossa, come bocche di pesce che restano ferme, in attesa di un branco che
viene al contrario, si saziano e sfamano la voglia infinita, d’ingoiare
ogni forma della stessa natura, di acqua di mare, di carne e di lische,
per espellere scarti e trattenere il bisogno, nel ciclo perenne che
arricchisce la vita.
Chissà che direbbe chiunque passasse, che ha visto una donna fare l’amore
con l’aria, con il vento, i colori, gli odori di muffa, con questo
imbrunire che a strati dipinge, le cupole e i tetti d’una Roma che ami,
che senti violenta in mezzo alle gambe, che senti leggera dalle parti del
cuore, in un andirivieni di sensazioni che a pelle, ti stipano il ventre e
ti trapassano il cuore, come se davvero non avessi più fondo, come se
davvero fossi foce di fiume, e l’anima tutta fosse fatta di vuoto.
Sono gatti ed antenne, sono vicoli e piazze, che a forma di sesso
t’inzeppano il collo, sono chiome di pini, cupole e croci, che s’accalcano
maschi e ti danno misura, di quanto infinito è fatta una donna, di quanto
calore emani e trattieni, nella tana di figli, nell’alcova di padri, in un
letto disfatto sterminato di foglie, in un orgasmo perenne che dura una
vita.
Ecco ci sei! Ti senti madre del mondo, origine e terra, culli e trattieni
ogni specie di seme, per poi partorirlo finché natura ha deciso, nel gioco
infinito che chiamano vita, mentre gli uomini tutti che mezzo che hanno,
per sentire l’amore e sentirselo dentro? Che mezzo che hanno senza un
grembo materno? Nutrono la brama senza avvolgerla dentro, giudicando la
forma dall’obbedienza del dietro, che offre una donna mentre allo specchio
si trucca, come se abbellisse per il proprio bisogno, la faccia, i
capelli, mentre si guarda, lasciando a quell’uomo la parte più sporca.
Tra poco riprendi la via di casa, e sfami il respiro e saturi il seno,
contenta davvero che anche stasera, ti sei saziata al tramonto su un
parapetto di Roma, spargendo le tracce del tuo orgasmo bollente, come semi
di grano su una landa assolata, sulla terra che nutri e feconda l’istinto,
come polline e ceneri trasportate dal vento, che si posano sopra i tetti
di case, d’altre femmine ora accovacciate nei letti, che chiedono amore e
lo reclamano invano. Se solo sapessero cosa si prova, sentirsi l’anima in
ogni senso del corpo, dalla vista al tatto, dall’udito al palato, e
spalancarli al bisogno dell’immenso che preme, dello spazio e del tempo
che si fanno misura.
Oddio che daresti per questo mondo che senti, per questo universo che
entra ed accogli, ed ogni volta a quest’ora ti strappa l’istinto, di
dipingerti il viso, gli occhi, le labbra, con i colori rossastri di questo
tramonto. Ringrazi il cielo di portare una gonna, sentire la brezza a
contatto di pelle, che sale dal fiume, che va verso Ostia, e leggera
t’asciuga la voglia che imperla, le pieghe a conchiglia che non copri di
nulla. Perché una femmina è femmina se si lascia rapire, da tutto
l’intorno che le preme nel mezzo, perché il mondo è fatto di cose, di
eventi e persone che s’accoppiano insieme, divise nei ruoli di femmine e
maschi, ma non è il sesso che soddisfa i tuoi sensi, non è il sesso che
decide la parte. Come farebbe allora il vento ad essere maschio? Come
farebbe il fiume ad entrarti nel ventre? E i tetti, le case, le cupole
gialle, le antenne, le croci, le chiome dei pini?
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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