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Adamo Bencivenga
Radici
(Racconti di terra)
NDICE
Bella la mia matrigna
Abbandono La cagna La compagnia
L’albero di fico L’amore che avevo I
giorni della Merla L’amore che sento Notte
di luna piena Fili di rafia La padrona di
casa Il tuo cappello Il vento Il tuo
racconto Seta
...
.Bella la mia matrigna
Bella la mia matrigna,
profumo di pelle e sapone, d’acqua di rose e seno
capiente, a portata di mano sotto le maglie di lana,
a portata di bocca nei sogni di notte, libero e nudo
per essere pronto, zeppo e ricolmo come buste di
latte, seno materno per farci l’amore. Perché era
bella la mia matrigna, trent’anni compiuti e la
leggerezza nel cuore, tra gemiti caldi nel
sottoscala di giorno, rumori assordanti che non
erano topi, che non erano gatti o cani randagi, ma
passi pesanti che sentivo salire, e passi leggeri
che scendevano in fretta, dentro i miei sogni, lungo
la scala, m’immaginavo le forme, m’immaginavo i suoi
fianchi, gambe belle per camminare, gambe grasse per
farci l’amore.
Bella la mia matrigna, sapore
di campagna e sudore, di camini e di fumo quando
viene l’autunno, di cipolla tagliata e funghi a
seccare, che asciugava i capelli al sole d’inverno,
che puliva le scarpe infangate nell’orto. Vestiti
imbiancati d’intonaco e calce, per un bacio di
fretta lasciato in sospeso, e labbra screpolate e
mani di calli, per governare la casa, per farci
l’amore, per lavarmi le braccia e lavarmi i capelli,
il sabato all’alba quando riempiva la vasca, d’acqua
scaldata sui fornelli in cucina, quando felice le
sbirciavo le tette, pensando che un giorno l’avrei
potute toccare e nel letto la sera pregavo il buon
Dio che rimanessero intatte, che rimanessero grasse,
belle per poterle baciare, grandi per farci l’amore.
Bella la mia matrigna, le scappava da ridere
fingendosi austera, perché la mia bocca sapeva
ancora di latte, perché troppo bimbo per pensare
all’amore e ancora tanto pane avrei dovuto mangiare
e ancora tanta acqua sarebbe dovuta passare, sotto
il ponte di legno dove giocavo al tramonto, tra le
pozzanghere d’erba dove catturavo le rane. Perché
era bella la mia matrigna quando con cura le
preparava per cena, fritte dorate con un po’ di
farina, con mio padre assonnato di fatica e lavoro
che s’addormentava sul tavolo apparecchiato in
cucina e lei che rideva per un dito di vino, e lei
che rideva perché le girava la testa, troppo poco
per gustarlo davvero, abbastanza per farci l’amore.
Bella la mia matrigna, di gambe scomposte e
passioni sgraziate, chiuse come vicoli stretti,
larghe come foci del mare, ripassate ogni volta come
verdure, dal primo capace d’infiocchettarle parole,
dal secondo più esperto per saperla guidare e farla
sognare e ricamarci le storie di principi e conti e
castelli di fate, per passarci le notti, per
riempire le ore, per farla impazzire, per farci
l’amore. Perché era bella la mia matrigna, cuore di
cane sfamato, passera nel nido che schiudeva le
penne, cavalla da monta, fiera ed altera, ogni volta
toccava e si faceva toccare, e sapeva di buono, di
nettare e miele, e sapeva d'incenso, di resina e
legno, senza che in quel posto s’annidasse la colpa,
uno scrupolo tanto per ripensarci di giorno, un
peccato qualunque per dire preghiere.
Bella
la mia matrigna, che sentivo cantare all’alba in
cucina, rumore di pentole e piatti a scolare e
sentivo sfornare pane e biscotti, quell’odore che
denso saliva le scale, con la vestaglia slacciata ed
il seno abbondante, infarcito e ripieno come torta
di mele, da mio fratello più grande che si lasciava
la notte, per avere più tempo, per farci l’amore,
per farla godere di santa ragione, mentre nel letto
correva il mio sogno e mio padre nel suo continuava
a russare.
Abbandono
Scorre la notte umida ed afosa, scorrono i
giorni senza un alito di vento, guardo il gelso
antico appena piantato, vicino al recinto in una
terra non sua, dicono che seccherà, ma ha foglie
folte e più verdi, ha ombra fresca da offrire, ad
ogni viandante che sale quassù. Tutti i giorni lo
annaffio, ne accarezzo le gobbe, di croste
raggrinzite di anni e di pioggia, di vento e di sole
passati in filare al limitare di campi di grano e di
maggese; tutti i giorni lo annaffio perché l’estate
riarsa non ne bruci le gemme a forza rinate dalle
deboli radici strappate.
Scorre buia la
notte, non ha forma e colore, né voce, ma la guardo
e l’ascolto sapendo ugualmente che esiste là fuori,
oltre il vetro senza persiana, oltre il confine di
siepe d’alloro, dove ho costruito questa casa di
mattoni e sudore, di intonaco bianco e grondaie di
rame. Siedo sugli scalini di legno di olmo sapendo
che è solo questione di ore, una luce leggera
comincerà a spandere colore alla terra, ai profili
grigiastri dei seni dei colli, d’arancio tingerà
l’orizzonte e la palla del sole salirà veloce ad
accecarmi gli occhi.
Io ti amo penso, ti amo
sempre. Ti annullo in altri uomini, con mio immenso
piacere. Mi ubriaco di baci diversi e di vino. Temo
di diventare folle, se sapessi cos’è la follia, se
sapessi cosa fa una donna pazza. Forse le stesse
cose che faccio io, ma penso di non esserlo mai
stata. Ma tu lo vuoi, vero? Tu imperterrito, uomo
testardo. Tu, dolcissimo sorriso di traverso che non
ricordo. “Non ti cercherò più!” Mi dico, ti dico, mi
prometto e ti giuro. Ma ti cerco in altri baci, in
altre carezze. Mangio poco, pochissimo. In compenso
bevo vino, come non avevo mai fatto.
Scorre
la notte, scorre buia e cupa la notte, penso a te, a
tua moglie, ai tuoi figli, al danno che ti farei, al
dolore vero che hai dentro, che ti allontana da me,
che deve essere pure lasciato libero di vivere
perché tu compia quello che devi. Penso ai giorni
che verranno e mai ci vedranno insieme, penso al
silenzio e sono pure felice. A volte ragiono come
vedi, ma ormai sono solo barlumi, lampi tenui di
luce senza coda, come il giorno a febbraio da queste
parti!
Penso ai giorni in cui guardavo da lontano
le cime dei tuoi monti imbiancate e pensavo: "Avrà
freddo?" A quando a volte sentivo il vento ululare e
nuvole grigie addosso e pensavo dove sarà?
Quale strada percorrerà, in quali e quanti guai si
sarà cacciato? E poi al sole. Il sole che indorava
la terra, già splendida dei suoi colori, in quel
periodo. I colori dell’autunno. I miei colori!
Quell’anno le piante avevano mantenuto le foglie ed
era un’esplosione di toni gialli e rossastri. Ti
struggevano l’anima. Mi struggono l’anima.
Là
fuori c’è tutto quello che ho costruito. E’ buio e
non vedo, ma ho fatto tutto io. Ti volevo solo
vicino, mi bastava che tu fossi qui. Anche se poi
ogni tanto andavi via, lo sapevo, mi rabbuiavo, ma
capivo. Io sapevo che lei non sapeva, nonostante tu
mi rassicurassi, sapevo che non ne avresti mai avuto
il coraggio, ma mi bastava quello che mi davi,
quell’amore anche se clandestino, anche se
intermittente.
I roseti rampicanti invadono
la rete. Colori forti rompono gli spazi. Presto ci
sarà un profumo intenso di rose e di gelsomino e
sarà il profumo della mia vita, della mia anima,
sempre solitaria e sola, eppure tenera. Sento il tuo
silenzio da lontano e la mia voce da dentro, sicura,
serena.
E t’amo, t’amo sempre e non ti
cercherò più! Non mi vedrai più sola! Non mi vedrai
sola. Mai per te. Mai più.
Lo ripeto
monotona e lenta per calmare le parole che salgono
da dentro con cui vorrei spiegarmi e spiegarti una
vita che all’improvviso ha avuto bisogno di te, che
t’ha incontrato per caso dicevi, per destino
ripetevo. Ma non sono pentita sai, vorrei rifare
quella strada e rivederti con l’auto in panne. Ti
vedevo anonimo, ma ero già consapevole che non avrei
fatto altri due passi senza di te.
Ho
chiamato Ernesto, il figlio di una mia cugina,
poverino ha cercato di far ripartire la macchina
senza riuscirci. Era tardi ormai, il sole era
andato, ma ridevi, ridevo…
Un pasto caldo
non si rifiuta a nessuno, mi imbrogliavo. Sono
sposato mi hai detto, non me ne frega nulla ho
pensato, quando stringendo gli occhi ho sentito quel
bacio, caldo, bollente, quelle mani. Dio quelle
mani, fuori e dentro me. Quella tavola appena
apparecchiata, pasta con i carciofi e vino rosso.
Già è patetico ricordare! Mi ripeto monotona e lenta
fino a scolorire il dolore fitto dei ricordi che mi
attraversa le spalle, che mi stringe il petto e
soffoca il respiro. Non mi vedrai più sola e questa
casa bellissima è la mia.
Non so più quanto tempo
sia passato, quante volte sei andato e tornato, ma
mi riempivi l’attesa ed io stavo bene, fino a
quell’ultimo pomeriggio di una lunga estate, fra i
monti, fra erbe che stavano rinsecchendo e che non
saprei ritrovare.
Ti sto riascoltando sai,
seduto sugli scalini di olmo, con quel tuo intenso
raccontare e raccontarti, con quel tuo sorriso
soffuso, gli occhi distanti nel futuro che dicevi
era l’oggi, le nostre mani intrecciate davanti al
tramonto, le bocche sorprese a riempirsi dell’anima
dell’altro.
Scorre, scorre la notte e t’ amo e
t’amo infinitamente, le gambe sfinite da un altro
uomo. Ieri, è stato ieri. Anzi stanotte. Non credevo
fosse così facile abbandonarsi al piacere, gridare,
gridare e sentire che in fondo, un uomo che entra è
un uomo soltanto, un uomo che poi esce chiude solo
una porta. Mordeva, mordeva anche lui, mordeva il
mio sesso, le labbra, il mio seno, ma non eri tu.
Ero bella sai, bella almeno lui diceva, dentro
questa casa, in cucina, in sala da pranzo. Dentro il
nostro letto, dentro questa casa mia, ero bella per
lui, per me, per te, perché tu hai voluto perdermi
ed io ti sto accontentando. Giorno dopo giorno…
Ti accontenterò ogni sera che si rabbuia, quando
cala il tramonto e fa male, dentro questa casa mia,
dentro la mia anima, che s’adombra e si ribella. E
ci saranno altri uomini, ho giurato mai lo stesso,
tanti, tanti per non farne uno! Per non fare la tua
faccia che rimarrà unica, la sola.
Ci
saranno altre voci, la tua non tornerà più, eppure
ce l’ho dentro, lenta, monotona, a cantilena. Le tue
risate, i tuoi racconti che ogni tanto rileggo,
quali mi hai chiesto, a caso ti ho risposto, ma sai
che non è vero. Mangio, divoro e rileggo i nostri,
quelli che hai scritto qua accanto a me, per me,
vedendo il gelso, potando le rose. Mi manca sai quel
tuo modo di guardarmi, di spogliarmi vestita, quel
tuo viso stretto, dissonante e ruvido.
Ti
amo infinitamente, t’amo.
Strappo erbacce dal
mio campo e mi pungo e tu sei la ferita, la terra in
cui affondo le mie unghie. Tu sei lì, sei la mia
terra, il mio cuore, la mia anima. Tu sei il respiro
profondo al mattino, quando esco a respirare l’alba
e a toccare il sole. Tu sei il gelso che si difende,
tu sei il pero che non si decide, quella rosa gialla
di fuori stagione, quelle tegole accatastate, la
grande magnolia piantata insieme. Tu sei lì
immancabilmente, tu sei me.
La notte avanza,
il buio è schiarito, tante stelle e ancora terra
nera, desidero dormire. Sfinita e femmina desidero
dormire. Sola nella notte come sempre. Io e il buio,
il freddo e le stelle e terra nera.
La cagna
Questa sera il cielo è
più buio, ma buio davvero, in lontananza si sentono
lupi abbaiare, mi domando se per fame o per amore, o
semplicemente per non essere soli. Come me che in
questa casa troppo grande, ripenso al mio amico
unico e vero, che all'alba di un giorno normale ha
trovato un buco nella rete, portandosi via la voce e
l’odore.
Pensare che prima d'allora non
conoscevo l'amore, non capivo per quale motivo gli
uomini s'accoppiassero, e quale magnete potesse
generare figli e destini. Consideravo tutto ciò
fragile ed insicuro, sospeso in precario equilibrio
sopra un flebile filo, che una qualsiasi vertigine
avrebbe potuto annullare, cadendo nel vuoto senza
rimedio. Mai nel tempo mi ero sorpresa ad offrirmi,
ad invaghirmi a caso di qualcuno, senza che la
ragione m'avesse dato il consenso, senza sapere come
sarebbe finita. Non credo di essere mai stata sola,
tranne quando per libera scelta li accomodavo alla
porta, perché era facile liberarmi di loro, era
semplice non sentirsi in difetto, quando non
s'avverte nessuna emozione, e il cuore pompa come
qualsiasi muscolo senza altra funzione. Mi spiace se
qualcuno ne abbia in qualche modo sofferto, in preda
a questa malattia che ora m’assale, ma i patti erano
chiari sin dall'inizio, sin da quando m'appoggiavano
gli occhi o li sceglievo tra i tanti, perché
l'astinenza non conosceva rimandi.
Vivevo in
una villa fuori dall’abitato, ereditata da tempo
insieme ad una rendita, che mi permetteva di
coltivare zucchine, melanzane e pomodori senza per
forza viver di questo. Le rose sul vialetto
m'impegnavano le giornate, come i bulbi d'inverno e
la siepe d'alloro, che fitta potavo ai primi freddi
d’autunno. Degli uomini no non ne avevo bisogno, ma
solo del sesso ad intervalli precisi, nei giorni di
festa o nella bella stagione, o quando il freddo
s'infilava sotto le gonne, e mi ricordava che niente
più scalda del caldo di un uomo, e niente davvero
provoca più brivido quanto il tepore acquoso di un
fiato eccitato.
Li andavo a cercare in mezzo
alla folla, al mercato del venerdì o al bar sulla
statale, dove non rischiavo d'incontrare le solite
facce, perché due volte a nessuno era permesso.
Erano camionisti stranieri e rappresentanti di
merce, bambini cresciuti o mariti sfiancati, in
cerca di rivincite sulle mogli e il lavoro, che ti
montano meglio perché scaricano rabbie e ti montano
forte per sentirsi diversi. Bastava niente ma niente
davvero, che potesse di colpo fargli invertire il
tragitto, che potesse scrollarli di un pensiero di
troppo, quando davanti ad una donna che accavalla le
gambe, non rimaneva che attendere un lasciapassare,
un visto di frontiera che scavalca confini, un cenno
d’intesa che immancabilmente arrivava. Mi seguivano
premurosi accomodandosi in giardino, ridicoli con la
voglia che già pesava là sotto, tra le gambe
malferme e il timore stampato, di non farsi scappare
una preda sicura. Gentili e galanti sorridevano a
comando, inconsapevoli che solo il tempo può fare di
meglio, ma il tempo s'esauriva nel rendersi conto,
che erano davvero arrivati in Paradiso, nel salire
le scale ed attendere qualche secondo, che la voglia
ingrossata indovinasse il percorso.
Si
spogliavano senza vergogna, perché non erano lì per
piacere, perché domani non sarebbero esistiti, non
sarebbe rimasto nemmeno l'odore dei loro vestiti da
viaggio e il loro sesso ambulante. Senza remore
pigiavano dentro, senza timore spingevano come
dannati, anche quando il sesso non seguiva il
cervello, ed accennavano a figli, o alla mancanza
d’amore. Non m'interessava nulla di loro, del loro
passato da dimenticare, di una madre malata o delle
mogli in attesa. Non era per questo che mi
concedevo, non era per questo che avrei potuto
cambiare idea o convincermi che governare un uomo,
fosse comunque meglio che restare da sola, a
coltivare zucchine ed abbellire il vialetto. Non era
per questo che li trattenevo per poco, il tempo più
giusto al mio bisogno, anche quando il mio sesso non
s'era saziato e stretto tra i denti reclamavo altro
tempo. Mi prendevano di giorno come fosse di notte,
come se improvvisa si rischiarasse la luce, cose se
davvero fossi una di quelle, confusa tra la fila dei
lampioni per strada, nascosta dalle siepi e dai rovi
di more, ma non c'era tariffa che allontanava il
desiderio, non c'era poesia che appassiva le voglie,
ma soltanto il sesso che umido accoglie, quello duro
di marmo di pietra di maschio e nulla e nient'altro
volevo che fosse.
Mi offrivo per tanto e per
tutto, inseguendo il piacere dall'uomo di turno,
perché non c'era domani che frenava l'istinto, non
c'era ricordo che fermava quel sesso. Poi di colpo
soltanto l’odore, la calma piatta che mi sorprendeva
nel letto, arrossata e dolente mi rigiravo contenta,
perché nessuna promessa s’era fatta parola, nessun
impegno per altre due ore.
Ma fu proprio una
mattina di pallido sole, davanti ad un caffè sulla
statale, che mi si avvicinò un uomo che non avevo
previsto. Dimesso mi chiese un favore, di essere
considerato alla stregua dei suoi desideri più
reconditi.
"Signora, sono il suo cane." Mi disse
rimanendo in piedi in attesa.
"La prego, non mi
dia più considerazione di quanta ne chiedo, non
vorrei essere altro che quello che ho detto."
Timidamente s'informò se avessi un giardino, e se
potessi evitargli la museruola di notte, “quando la
luna già alta ti chiama e tu la respingi abbaiando
deciso.” Era un bell'uomo con l'aria vissuta, le
mani bianche di chi aveva conosciuto il peccato e
una luce opaca negli occhi chissà per quale
distratto destino.
Elegante a suo modo si
mise a sedere, non prima di avermi chiesto il
permesso, guardando le mie gambe scosse la testa, mi
disse che di femmine ne aveva già fatta collezione,
di nomi di donna ne avrebbe potuto recitare un
rosario, sgranando più volte le perle e
ricominciando daccapo. Ora povero in canna di soldi
e futuro, non possedeva altro che quel che vedevo:
una giacca lisa ed una cravatta unta, una camicia
bianca che aveva conosciuto candori migliori. Come
un cane randagio per strada, erano mesi che cercava
una padrona, mesi che cercava un guinzaglio, una
catena che lo strozzasse alla gola, ogni volta che
l'istinto di uomo prendeva il sopravvento, come per
anni era stato convinto, che nessuna donna sulla
terra potesse arrivare al suo pari.
Ora cercava
di distruggere il suo passato, andando in giro per
città e campagne, bordelli e stazioni ad offrirsi da
cane, a femmine belle che lo capissero in fondo. Non
uomo ridotto in rovina, ma cane, soltanto cane
orgoglioso di essere, orgoglioso di fare la guardia
e chiedere di uscire per qualche bisogno.
Non capivo e non capii nemmeno me stessa, quando gli
feci cenno di andare, lui mi seguì con la lingua di
fuori, tenendosi discreto ad un passo distante,
perché uomo e animale non possono avere la stessa
cadenza, mi diceva da dietro e poche volte davanti.
Rimase per tutto il tempo in giardino, ad annusare
gli odori più intensi, a limitarsi il terreno dalla
casa al recinto, a chiedermi solo una ciotola
d’acqua. A sera non ci fu verso di farlo rientrare,
di godere da uomo di quel tepore di casa, che a
mille altri era stato concesso, di togliersi le
scarpe ed appendere il cappello, varcando la soglia
come il mio sesso. Mi chiese solo una coperta di
lana, ritirandosi comodo dentro una cuccia,
rannicchiandosi beato come se davvero di meglio, mai
nel tempo gli fosse stato concesso. Durante la notte
lo sentii abbaiare, avvicinandosi al recinto ad ogni
rumore, a bere dell’acqua nella ciotola accanto, a
rovistare nel secchio gli avanzi del giorno.
La mattina lo vidi soddisfatto davvero, si fece
accarezzare e mi chiese una corda, per limitare il
suo spazio e non andare più oltre, perché dell'uomo
che risiedeva al suo interno, diceva ogni volta non
che non dovevo fidarmi.
Passarono lune e
giorni uguali, dove ruoli e distanze rimasero
intatte, senza che accennasse a diventare umano,
senza che il mio istinto s'abbassasse di un niente
per essere pari e diventare una cagna. Alle volte
sembrava contento, altre pensoso, rimanendo per ore
a fissare il sentiero, che curva all’orizzonte tra i
desideri e le more, tra la gioia di sentirsi animale
e la malattia ostinata di non voler più guarire.
Alle volte sembravo serena senza nessuna smania
apparente, rilassata al punto di godermi l'intorno
di pace, che rilassa la carne e dà benessere ai
sensi. Ma ad ogni respiro sentivo il mio cuore,
irrorarsi di sangue caldo bollente, come se
quell'animale riempisse un vuoto, che mai fino ad
ora avevo avvertito, come se quell'essere così
sottomesso, parlasse direttamente al mio bisogno
nascosto, d’amare qualcuno che ti protegge la notte,
d’amarlo più forte se t’accompagna di giorno.
Senza avvertire la sua presenza, passarono
ancora giorni e passarono lune, mangiava gli avanzi
e beveva acqua sporca, alle volte voleva giocare
rincorrendo contento il lancio di un sasso. Lo
vedevo felice ed a me non dava fastidio, finché il
suo muso per caso, riportandomi il sasso, s'infilò
senza malizia tra le mie gambe sotto la gonna. Umido
e protettivo leccò la mia pelle, cercando di
mostrarmi la sua infinita riconoscenza, d'averlo
accolto come nessuno avrebbe mai fatto, come in
nessun altro modo avrebbe voluto. Ma i miei battiti
avevano cambiato rumore, le mie cosce non rimasero
inerti a quella lingua morbida e grassa che andava
oltre la gratitudine fino a sfiorarmi il sesso che
nudo non era, ma avrei giurato senza mutande.
Sorpresa l'allargavo rapita, senza che un uomo
mi chiamasse puttana, perché nei miei incontri
l’avevo sempre preteso, per allontanare la minaccia
che chiamano amore, per mettere in chiaro che non
volevo nient’altro, nemmeno il denaro che qualcuno
m’offriva. Allargavo le cosce e mi sentivo una
cagna, ma cagna nel senso di compagna di cane, che
mi cercava nell'intimo per ringraziarmi soltanto,
senza altri fini che fanno del sesso, qualcosa che a
breve ti cambia di netto, ti fa dire tesoro a chi
non conosci e gli affidi la vita come fosse una
bocca.
E così successe perche doveva e volevo, e
mi voleva da dietro guardando la luna, mi voleva
carponi per darmi piacere, guardando il recinto tra
le foglie d'alloro, leccandomi il collo fin sotto i
capelli. Guaiva e gemeva ed io ero contenta, perché
solo un cane ti prende da cagna, senza pensarti che
sei donna ormai persa, perché ti concedi senza
guardargli la faccia. E godeva il mio cane di
piacere convinto, colando saliva dalla lingua
infuocata, senza che la voglia s'annidasse perversa,
nel vedermi umiliata davanti alla luna, nel vedermi
già preda come gli uomini tutti, ti giudicano troia
se fai bene l’amore.
Passarono giorni e
ancora le lune, amandoci paghi sotto la pioggia,
reclamando il piacere dietro il muro e la fratta,
dove l'odore di pipì stagnava più inteso e copriva
le parole mute mai dette, dove come cane e cagna
l’istinto d’amore, svaniva di fretta dopo l’orgasmo.
Perché dopo l'amore non c’era ragione, di
guardarsi negli occhi o scambiarci carezze, come
cane e padrone, come gioia e dolore, che s'avvertono
insieme senza mai mescolarsi. Ma ogni sera prima di
chiudere a chiave la porta, chissà perché mai lo
invitavo ad entrare, a cenarmi davanti o dormirmi di
fianco, ed ogni sera il suo dubbio gli imperlava la
fronte, e le sue resistenze erano sempre di meno,
finché un’alba più scura lo vide deciso e un buco
nella rete lo fece scappare.
Ora ripenso
quando di giorno, s'appisolava contento tra le rose
in giardino, o quando di notte s’accomodava
appagato, nella cuccia in disuso o davanti al
cancello, senza mai pretendere in nome dell'amore,
di essere altro soltanto che cane, senza mai
arrogarsi qualche diritto, per avermi montata per
bene e per sempre, come sua pari in faccia alla
luna.
La compagnia
Verrà di nuovo il temporale e sarà poi buio
fitto, annuserò l'odore della terra come il dolce
miele dell’addio. Finirà l’estate, questo prato
fitto d’erba e margherite, finiranno le tue corse a
piedi nudi. Già ti vedo come ogni anno che recidi
un’altra rosa, gialla come sempre, che sboccia a
fine agosto.
Tutti i colori hanno un senso,
questo mi hai detto.
Perché l'inverno sarà
freddo, perché l'inverno sarà duro, perché l'inverno
è una tana che non posso più offrirti, è una donna
che cammina di spalle controvoglia, è un brivido
profondo di freddo nelle ossa.
So dove ho
mancato e quanto ho dato troppo, e quanto ho
perdonato, ma i patti sono patti.
Lo so, ai
primi temporali gli stessi miei pensieri, che ti
velano il viso e non ti danno più la forza, un mese
dici sempre, sorridi e poi mi baci. Tre mesi penso
sempre, e non sbaglio quasi mai.
Mi baci sulla
fronte, sento il tuo profumo, t’annuso come un cane,
qualche goccia mi hai detto.
Quella seta sopra il
letto e la valigia ancora aperta. Hai messo un
cappello di lana verde bosco, stai bene ti ho detto,
davvero lo pensavo. Lo sapevamo tutti e due, a volte
mi ripeti, come se dirlo ancora alleviasse questo
male, come se dirlo sempre scongiurasse il tuo
partire.
Verrà una signora, è la moglie del
vicino, ogni giorno dopo pranzo quando tu riposerai,
sa cosa deve fare non occorre che ti alzi, porterà
un po’ di spesa, mi dici e mi ridici. Fuori farà
freddo e non voglio che tu esca, sai i tuoi dolori,
la schiena e il mal di ossa, devi riguardarti mi
guardi e mi capisci, che non posso dire altro, non
posso più fermarti.
Verrà di nuovo inverno e
buio alle cinque, i tuoni all'improvviso e le albe
attese invano, coprirò le nostre piante, per il
freddo e per il gelo, leggerò i tanti libri in pila
sul divano, come segno la tua rosa, gialla come
sempre, tutti i colori hanno un senso, questo
ripetevi. Almeno quell’odore se non posso avere
altro, questo non ti ho detto, ma forse lo sapevi.
Ghiacceranno i tubi fuori, andrà via la corrente,
nella credenza in basso a destra, da mangiare per i
gatti. Perché l'inverno sarà lungo, perché l'inverno
sarà duro, perché l'inverno è un nido caldo che non
posso più offrirti, un uccello migratore che vola
sopra il mare, sono giorni senza sole e legna umida
in cantina, l’odore della zuppa di sedano e cipolla:
“Chiudi il gas ripetevi, lo so che sei distratto!”.
Lo sapevamo tutti e due e i patti sono patti,
annuisco con la testa come fossi un bambino, mi
convinco e ci rifletto, è difficile accettare. Ormai
sono anni che non facciamo più l’amore, per via dei
miei problemi che hai cercato di capire, e poi
medici e terapie senza risultato, senza alcun
effetto nelle notti di sudore. Ormai sono anni che
l’inverno viene presto, ed anni che vai via quando
il buio viene prima, dici da una cugina, una parente
alla lontana, penso che sia altrove ma non oso
domandare.
La nostra casa è troppo grande, non
riesco ad orientarmi, a riempirla col pensiero, a
volte all’improvviso strane angosce sopra i muri, lo
so che sono crepe che s’allungano al soffitto, lo so
che sono tarli del mobile all’ingresso. Sento rumori
dappertutto, diversi e sconosciuti, già il temporale
che batte sopra il tetto, di sicuro non sono topi,
ma riempio tutti i buchi, di sicuro non sono ladri,
ma sprango le finestre. Di sicuro non sei tu che
riordini la stanza, tu sei altrove che scaldi un
altro letto, stanotte come sempre dormirò sulla
poltrona, la legna ancora arde e la luce è sempre
accesa.
Verrà di nuovo primavera e sarà poi
giallo ed arancione, sarà il mandorlo in fiore che
mi illude troppo presto, ma finirà questa pioggia
senza strascico né coda, germoglieranno le tue rose,
quella gialla ha già una gemma, pronta per l'estate
e per un altro segnalibro. Verde tutt'intorno per le
tue corse a piedi nudi anche se ancora non ti vedo,
anche se è ancora presto.
Conto i denti ai
francobolli, la mia nuova collezione, conto di
fretta i giorni lenti per mandarli più veloci, come
grani di un rosario dove ne manca sempre uno.
Ti
vedrò oltre il sentiero dove curva l’oleandro, dove
il sole batte forte e maturano le more. Sentirò la
tua voce, sarà alba nel tramonto, sarà giorno nella
notte, un bacio in un abbraccio.
Mi dirai
dove sei stata, che ti son mancato tanto,
racconterai quello che vuoi e quello che non dici.
Saranno sottintesi che m’aiutano a sperare, che è
davvero una cugina, una parente alla lontana. Avrai
il viso stanco, le borse sotto gli occhi, farai
fatica a parlare ed io a domandarti.
Già, non
servono le parole se è passato un altro inverno e tu
ritornerai a tenermi compagnia…
L’albero di fico
Sarà
quest’inverno che piove da sempre, che mi fa
ritornare da mia nonna da bimba, tra i sentieri di
fratte, di funghi e lumache ed un sole spaurito che
filtrava tra i rami, ed io ero attenta a non
sporcarmi le scarpe, per via di mia madre che
m’avrebbe sgridata, perché erano bianche lucidate a
bianchetto, la domenica presto sul davanzale di
fuori.
Sarà questa pioggia che stinge quei muri
ed io battevo con forza la mano contenta e gridavo
convinta tana libera tutti, credendo bastasse un
cielo e una mano per toccare con un dito l’azzurro
più intenso. Credevo che il mondo non fosse altro
che un sogno che finiva al mattino tra il
dormiveglia nel letto, di ferro battuto dipinto
marrone e le coperte di lana e la stufa di cotto.
Credevo che il mondo fosse tutto lì dentro, tra
i rumori in cucina e l’odore di latte, nella stanza
che dava a valle sull’orto, con i rami del noce che
entravano dentro e sarebbe bastato allungare una
mano per raccogliere i malli verdi d’ottobre.
Sarà che ricordo di quella casa ogni punto, i
disegni, gli stipiti la carta sul muro, che ogni
tanto per rabbia ne staccavo un pezzetto e poi
l’odore di muffa e di erba murana che saliva dai
vicoli ammattonati e consunti, i suoi pianciti
corrosi smembrati e sconnessi, mi rinnovavano il
sentore della vita e la morte di quanto effimero
fosse lo scorrere in fretta, delle stagioni e del
tempo da quel giorno per sempre.
Sarà che la
notte la vedevo più nera, quando al tramonto
m’attardavo nel buio e giocavo a nascondermi tra la
siepe più fitta e mia madre da casa mi chiamava a
gran voce. Come vorrei risentire quel freddo, quando
zuppa correvo per ritornare nel grembo ed essere
sgridata per via dei malanni che puntualmente
prendevo con trentotto di febbre.
Era il
primo novembre nel giorno di festa, ed avevo da poco
compiuto nove anni e rincasavo bambina dalla messa
dei Santi, trovando il vicino a sbarrarmi il
passaggio, mi racchiuse tra le braccia vecchie
insecchite, perché nonna era andata via per sempre e
lui colava di pianto lacrime mute, l’inutile rabbia
sopra i suoi baffi. Non ho mai capito ed ancora mi
chiedo, se quell’abbraccio fosse per consolare una
bimba, alla prima esperienza di morte e dolenza, o
volesse acchetare il suo stesso dolore, perché
sapeva in cuor suo che sarebbe partito, a breve
anche lui per l’identico viaggio.
Quella notte
dormii da parenti vicini, ci riempirono di premure
caramelle e regali, fogli bianchi di Fabriano e
matite a colori, in una casa pulita che sapeva di
libri, di famiglia per bene con un impiego alle
Poste, due figlie in procinto di laurearsi a breve.
Quando tornai non trovai più nonna, il suo letto
era vuoto e allora piansi davvero, affacciata nel
mondo da quella finestra, trai rami stecchiti del
noce e la valle. Erano i giorni di neve poco a
Natale, passò l’inverno tornò primavera. Io intanto
crescevo e crescevo in altezza, d’un tratto
orgogliosa superai la maestra, lei piccola e minuta
e tinta di biondo, la sorpassai fin sopra la
cotonatura rigonfia. Iniziò l’estate ed anche il mio
petto, lievitò come i dolci di nonna nel forno, e
infine un bel giorno trovai una macchia, scura di
sangue e sbiancai di paura, nel vedermi le gambe
colate di rosso, nel sentirmi infettata da un grave
malanno, nel pensarmi già morta come la nonna.
Velocemente nel bagno raccolsi i pensieri, mi
guardai alla specchio bianca e convinta, che sarebbe
mancato poco alla fine e dovevo per forza avvisare
mia madre. Piangevo tanto immaginando il suo pianto,
e ci rimasi di stucco vedendo il suo riso. Andò in
camera e tornò poco dopo, con un pezzo di stoffa
bianco di lino, due spille da balia e una specie di
laccio. Durante la cena nessuno fiatava, tra sguardi
e sorrisi conclusi che in fondo, potevo continuare
la mia vita di sempre, e che non ero malata anche se
il mattino seguente, il pannolino era intriso ancora
di sangue. Mia madre mi cambiò e ripose quello
sporco, nella bacinella di acqua che si tinse di
rosso. Mi ricordai in quel momento delle tante
tinozze, viste fino allora simile a quella nel
bagno, pensando che il mio male doveva esser comune,
a quello di mamma, di zia e di altre parenti.
Sarà questa notte che mi fa tornare bambina,
saranno quei giorni passati in campagna, e una
ragazzina del posto mi venne vicino, saltellando
dicendo “Hai il marchese!” Io la guardavo sorpresa
con gli occhi sgranati, e tacendo negavo con tutta
me stessa, con la testa, la mano e poi un grido
strozzato.
“Cos’è?” gridai, “Che dici?”
“Il
marchese! Il marchese rosso!” e mi ballava intorno.
“Il marchese! Il marchese rosso!” e rideva contenta.
A sentire quel colore capii umiliata, ed il pensiero
veloce andò a mia madre, era andata a dire ad
estranei la cosa, e sentii una stretta dolorosa nel
cuore.
“Allora hai anche i peli lì sulla fica” La
ragazzina spietata continuava a ballare, a dire
parole che m’entravano fitte, nella mia intimità
contaminata ed offesa.
Sbiancai nell’udire quella
parola, che non conoscevo ma percepivo volgare, che
non potevo che associare alle spille, che portavo
alla vita e risposi rabbiosa.
“Non ho peli, non
ho nessun pelo!” Scappai piangendo a sfogarmi la
rabbia, sopra il primo albero quello di fico, che
colava stille dolci e collose, e calai le mutande e
purtroppo era vero, il mio pube era colmo di peli e
di nero, era vero davvero e non me ne ero mai
accorta!
Sarà questa sera che sento i cani
abbaiare, e fanno più nero questo buio di pesto, e
fanno più vuoto il silenzio che intorno, mi fa
galleggiare come una nuvola bianca, che cambia la
forma sballottata dal vento, ed io da bambina ci
fantasticavo per ore, ci vedevo dei mostri,
continenti e figure.
Sarà che domani sarà
giorno di nuovo, ed il tempo che passa passa veloce,
e gli diamo misura fissando i ricordi, con un chiodo
puntato sulla pelle del cuore, come una data ed un
nome scolpiti nel marmo. Saranno davvero questi cani
che sento, una ragazzina che balla ed ingiuria il
mio sesso, ed io che scappo di corsa e sui rami,
appesa a quel fico che porta male se cadi, e mi
ritrovo bambina con gli occhi ormai secchi, perché
piansi per ore lacrime amare, piansi finché si fece
buio e poi notte, finché qualcuno da casa mi venne a
cercare.
L’amore che
avevo
L’amore che avevo non ricorda il mio
nome, ha scordato l’odore d’un bacio di notte, quel
vento leggero che mi svasava la gonna, ed una mano
premeva avida e ferma, sui miei fianchi che offrivo
alla musica intensa, sulle mie gambe obbedienti in
un passo e poi l’altro, in un vortice antico in un
ballo sull’aia.
L’amore che avevo non ricorda il
mio seno, di come l’offrivo sotto la camicia di
panna, non ricorda il colore dei miei occhi serrati,
appagati già sazi dal vapore dei fiati, sotto un
portico buio dove cadeva il tramonto, perché l’amore
che avevo mi spaiava le gambe, addosso a quel fieno
che sapeva di marcio, di gatti e pipì e prendevo
l’odore, con un flauto dolce che ci faceva la corte,
ed una luna dipinta che schiariva nell’ombra,
promesse d’amore e parole di sempre.
Mi
ritorna ogni sera quando contro il tramonto, sfuma
la coda di un giorno che passa, tra le paure
imbrunite e i fantasmi sul muro, e il desiderio
nascosto di provare altri occhi. Allora sì che esco
da sola, mi scopro le gambe e mi alzo la gonna, e mi
metto seduta dove ora c’è un parco, al posto del
fieno che sapeva di marcio.
Un respiro strozzato
mi sfiora le labbra, sotto questo incalzare di mani
e parole, sopra questa panchina che si riflette alla
luna, ed io che mi tocco e mi faccio toccare. Come
fosse una pioggia fitta d’autunno, che mi bagna i
capelli, il collo, le labbra, sulla mia stoffa
leggera a forma di seno, sulla pelle increspata dal
vento che soffia.
Sono aghi di pino che bucano
il cuore, foglie d’alloro da farci corone, sono
uomini che passano e scuotono il capo, e si chiedono
increduli perché mi faccio toccare. Se sapessero
invece cosa sento qui dentro, una voglia mai doma
intatta nel tempo, che avvizzisce e poi muore quando
l’aspetto, e la mia pelle più bianca comincia a
marcire, e prende l’odore di fieno e di gatti,
perché nessuno negli anni m’ha più chiamata per
nome.
Lui non molla ed io non lo fermo, lui
insiste ed io mi domando, come può un uomo che io
non conosco, avermi già vinta senza aver detto ti
amo. E’ un passante come tanti e cerca calore, mi
chiama Liù perché sono bionda, perché gli ricordo
un’amica d’un tempo, conosciuta in estate negli anni
Settanta. Lo guardo e mi chiedo perché proprio lui,
e perché non un altro più giovane e bello, che mi
chieda dubbioso perché non lo fermo, ed invece lo
lascio sgualcirmi la gonna, che mia madre ha stirato
perché fossi più bella, credendo davvero che è
quello di sempre, che fedele m’adora e m’ama
soltanto. Se sapesse invece che lui è partito, e sua
figlia a quest’ora si lascia ammansire, si lascia
toccare dove il cuore non batte, dove quello che
offro è carne ed è pelle, che vale la voglia di un
uomo che tocca, una bocca che sbava e ne sento il
risucchio.
Chiudo gli occhi e m’illudo che mi
sto offrendo alla voce, l’unica calda che mi
chiamava per nome, ma lui insiste mi prende e forse
ha ragione, a cavarmi dal seno solo l’amaro che
sento, come se sapesse perché mi offro e mi dono, e
conoscesse ogni punto delle mie tette insolenti, del
ricordo che ora le vorrebbe obbedienti, bagnate di
baci e graffiate dal fieno.
Ci sono dei bimbi
che giocano oltre, chissà che direbbero vedendomi
ora, con un seno di fuori che gode e si sazia, e
quest’uomo ci gioca come fosse una palla, la stessa
dove loro s’accaniscono a calci.
Ci sono dei
vecchi che fanno la fila, perché sanno che a
quest’ora mi lascio toccare, per far passare più in
fretta questo tramonto, per sentire la voce che mi
scaldava il collo, ed oggi sia domani e l’attesa più
corta. Ci sono degli altri che fanno da scorta, ed
aspettano muti oltre la siepe, convinti che ora, tra
poco, all’istante, avrò bisogno di nuovo d’altri
mani capienti, di saliva più densa che ammorbidisca
ogni notte, e l’alba che uccide ogni fine di sogno.
Ma io rimango fedele al sole che cala, a
questa voglia che sfamo e nemmeno conosco, perché
l’amore che avevo non ricorda il mio nome, e chissà
per quante sere sarà lunga l’attesa, e mi farò
tormentare questo seno che vuole, dal primo che a
caso passa e si ferma, e già nudo lo vede per
poggiarci una bocca, e già enorme lo brama per
covarci dei sogni, senza sapere che invece non è poi
tanto grande, quanto uova di passera rimaste
infeconde, perché l’amore che avevo non ricorda il
mio nome, ha scordato l’odore d’un bacio di notte,
quel vento leggero che mi svasava la gonna, ed una
mano premeva avida e ferma, sui miei seni che
offrivo alla musica intensa, che s’appagavano sazi
di baci e di fiati, sotto un portico buio dove
cadeva il tramonto, addosso a quel fieno che sapeva
di marcio, di gatti e pipì e mi spaiava le gambe, ed
una luna dipinta schiariva nell’ombra, promesse
d’amore e parole di sempre.
I giorni della Merla
Erano i giorni
della merla, erano gli anni di bambina, tutto
intorno un grigio cupo, nessuna luce all’orizzonte,
come fosse sempre alba, come fosse l’imbrunire, tra
la neve che cadeva ed il fiato dalla bocca, che
denso usciva a fiotti raffreddandosi all’istante. La
sua faccia una corteccia, i suoi guanti tra il mio
seno, tra la patta un ramo caldo come un bulbo nella
neve.
Erano i giorni della merla, era solo un
uomo adulto, a suo dire un parente, uno zio alla
lontana, incontrato giorni prima alla festa del
santo nano, alla festa di mia sorella che compiva
diciotto anni. Era solo una bocca adulta che sapeva
di buon vino, di fumo acre e di tabacco, di storie
mai sentite, recitate a quattro a quattro come vere
filastrocche. Ed io che l’ascoltavo, a bocca aperta
mi saziavo, di donne prese in fretta, di uomini
guerrieri, di bimbe al primo fiore, come ora tra la
neve, sul collo mi beccava, come galli nel cortile.
Erano i giorni della merla, erano gli ultimi
di un sogno, tra i silenzi della neve sentii un
dolore da lontano, lento caldo avvicinarsi, come un
taglio quando è freddo. Non mi accorsi dei suoi
baci, non mi disse amore od altro, solo denti tra i
capelli, solo brividi di rabbia, che mi colsero nel
punto dove il cuore è più distante.
Erano i
giorni della merla, parole a raffica sul collo,
dette fitte come sputi, come grandine d’agosto che
batte sopra i tetti o scola alle grondaie, sopra la
mia pelle come rutti e singhiozzi, che saziavano il
suo ardore e ripeteva come ossesso, che non ero solo
bella, che ero vacca ed ero troia, che ero merla tra
la neve pronta a darsi per un seme. Poi amore
soffiato appena come fiato urlato piano dentro il
vuoto che fa la neve nel rimbombo all’aperto, dentro
il vuoto di rami secchi che frusciavano silenti.
Erano i giorni della merla, erano gli anni di
bambina, lui mi chiamava senza un nome, come fossi
un uccellino, che ripara sotto al tetto e canta ai
maschi di passaggio, a quelli tutt’intorno che
chiama con un fischio e prepara il suo nido per
accoglierli più caldi. M’accarezzava piano piano
come un gioco il primo giorno quando mi diceva
bella, quando mi diceva amore, senza mai un bacio
buono, senza mai guardarmi in faccia.
Erano i
giorni della merla, erano i giorni senza sole, e mi
diceva ch’ero donna che ero quella come sopra, fatta
su misura per qualunque maschio, per via di questo
seno non proprio di fanciulla, che ancora oggi per
vergogna stringo a morte e lo nascondo. Erano i
giorni della merla, il primo a suo dire, lo invitai
con un sorriso come avevo visto altrove, sul fienile
il giorno prima o lungo il fiume a mia sorella. Tra
sterpaglie fredde e secche m’abbandonai senza
sapere, che per essere una donna sarebbe bastato
poco e niente, ferma immobile in attesa di quel ramo
di nodi secchi, quando distesa ad occhi chiusi, gli
offrii caldo il mio nido intatto, nuda solo in
parte, bocconi sulla neve, alla ricerca di pagliuzze
proprio come fa la merla.
L’amore che sento
Questo ti amo che
sento mi sfibra le labbra, mi penetra dentro e mi
devasta la carne, ed enorme si mostra e m’accappona
la pelle, lungo la strada dove curva il tramonto,
tra foglie e lumache prima che spiova, tra baci
rubati che a stento trattengo. Mi fa ogni volta
tornare bambina, ogni volta più fiera sentirmi più
grande, è una spiaggia di bimbi e castelli di mare,
un dolce sognare quando il sole è già alto. Faccio
tre passi per camminargli di fianco, mi stringe la
mano e m’accarezza i capelli, come ora da grande
vacillo precaria, con i tacchi più alti per sentirmi
signora, col trucco che ama e m’impiastra la faccia.
Perché l’amore che sento mi bussa e s’incazza, mi
scuote la testa e mi manda affanculo, m’inginocchio
davanti e gli chiedo perdono, per averlo tradito con
la melma del cuore, per averla ceduta ad un ragazzo
coetaneo, mentre il cuore batteva e sentivo
d’amarlo, ma ora lo giuro era solo un amplesso, e
lui ha ragione a picchiarmi più forte, perché
l’amore che sento sono mani capienti, braccia
potenti di trent’anni più vecchie.
L’amore
che sento lo sento qui dentro, tra questi seni
asciutti che non sono cresciuti, come fichi di
maggio che aspettano il sole, per maturare
abbondanti ripieni di latte, come quelli di mia
madre sempre occupati, che portano in grembo la
gioia d’aver concepito, la colpa d’aver partorito
una figlia gelosa, di tutte le notti che dormo da
sola, di tutte le notti che mi tappo le orecchie,
per quel letto che cigola e sbatte sul muro.
L’amore che sento è un pene di uomo, e ci appoggio
la faccia tra le spine ed i rovi, chiudo gli occhi e
ha il gusto di bambola, d’un dito che ciuccio
intinto nel miele, come nei sonni di quand’ero più
bimba, come ora da grande che aspetto che sgorghi,
solo seme che sappia d’odore d’amore.
L’amore che sento è lui che mi brama, che mi lascia
pensare che sia vano aspettarlo, perché non c’è
futuro nell’amore che sento, ma solo un presente che
nutre l’attesa, che oggi domani posso ancora
vederlo, quando in segreto fa cenno con gli occhi,
lungo la strada dove curva il tramonto. Che pazza
che sono! Mi gonfio e m’illudo che le chiome di
pini, che scorrono lente che corrono storte, possano
ogni giorno indicargli la tana, che ogni giorno
abbellisco rassetto e profumo, lavo e risciacquo
perché sia pronta e pulita. La pettino felice
davanti allo specchio, perché non sia mai come
quell’altra, vecchia e disfatta slabbrata nel letto,
una specie di sfogo da tappare di notte, un buco di
carne che scomposto si offre.
Perché l’amore che
sento mi chiama e mi vuole, mi pretende di fretta
quando meno l’aspetto, è lui che sospira un nome
alla buona, a volte Maria raramente Giovanna, la
lattaia in paese che si mostra per poco. Perché
sarebbe troppo chiamarmi col nome, che lui m’ha dato
in una notte d’Aprile, cadeva la neve come ora non
smette, e mi bacia i capelli zuppi di voglia, tra
gemiti grassi ed urla più secche, lungo le fratte di
stecchi e lamponi, tra foglie e lumache prima che
spiova. Ha in mano un ombrello ed un faro di luce,
che illumina a giorno la sua prima figlia, e mi
bacia l’ardore ed abbonda saliva, nel posto dove
sento forte l’istinto, per vederla pulita in ordine
e pronta, pettinata di gusto come Lilly sul letto,
la bambola nera dai capelli di stoppa.
Mi
cresce un sospiro che diventa un boato, un’eco che
sbatte ribatte e mi prende, perché l’amore che sento
è saliva abbondante, seni bagnati dallo stesso mio
odore. L’amore che sento sono radici di dentro, mia
nonna che chiama in piedi all’aperto, pane a merenda
e marmellata di more, mio nonno che sputa nubi di
fumo, che beve e tracanna bicchieri di vino, che
sanno di sale, cartine e sambuco. L’amore che sento
è chiuso qui dentro, sa di casa di freddo e sentieri
di fratte, pioggia e lumache i primi a Novembre,
suoni di latta per festeggiare i cornuti, sa di
famiglia e mi inumidisce le orecchie, per sentirmi
più accanto per sentire una voce, che m’illude più
bella come mai sono stata. L’amore che sento è
femmina dentro, bucata nel mezzo l’accolgo e lo
imploro, mi fa galleggiare come un feto un ricordo,
d’essere figlia di quest’amore che sento, che gonfio
e trattengo per sentire il sapore. E sono baci
veloci e minuti contati, il tempo che basta per un
respiro più lungo, per sentire che m’ama perché è
troppa la voglia, per sentire quell’onda il
risucchio la spuma, mia madre da casa che ci chiama
in cucina, e lui si riveste perché è pronta la cena.
Notte di luna piena
E’ quando la luna rischiara l’intorno, che mi
sorprendo a pensare, che senza di te un altro giorno
è passato, nonostante le notti che fanno male e
paura, nonostante quei giorni che mi trovo da fare,
per non pensare che mai rivedrò i tuoi occhi.
Incredibile e vero mi sento più forte, come se il
dolore nutrisse il mio corpo, come se gli spasmi che
sento qui dentro, mi dessero cibo per le mani e le
gambe, è come se il buon Dio m’abbia dato la forza,
il coraggio d’affrontare la fatica e il sudore, di
concimare la terra e potare la siepe, di caricare
fascine per il fuoco d’inverno, e governare questa
casa e gli operai di giorno, che imbiancano i muri e
rimontano il tetto, per le piogge d’agosto per
l’inverno più freddo.
Mi sorprendo a pensare
che senza di te nulla è cambiato, come la merla che
ha rifatto il suo nido, ed ora canta nonostante sia
sola, o come Libero che puntuale ogni sera, fischia
tra la rete ed io scendo di corsa, e mentre parla
della sua vacca incinta, mi versa il latte caldo che
fuma, ed io m’inebrio dell’odore che salendo
m’avvolge, mi riempie i polmoni di stalla e di
terra.
Nulla è cambiato come questa luna che
vedo già tonda ed alzata, padrona del cielo che
sovrasta la valle, signora del mio giardino,
dell’olmo che sbianca, dei gatti in amore al di là
della rete, e fa ombra di tronco piatto sul muro, e
fa luce alle foglie del mandorlo nano.
E’
proprio quando la luna rischiara l’intorno, che
dalla mia finestra che guarda ad oriente, scorgo la
strada che maestra poi volge, oltre il passaggio
breve di colli, oltre quei rovi di spine a
cespuglio, e poi le querce e i faggi del bosco, la
fonte e i tetti di tegole rosse. Rischiara le case
cresciute a funghi, senza arte né parte senza
nessuna decenza, qui e là per riempire un vuoto, che
sono frutto dell’ignoranza e bisogno, e ora sono il
simbolo dell’arroganza che odio.
Ma ho
piantato una rete di gelsomini e di rose, ad
oscurare quei tetti e i mattoni malcotti, le rose
sono gialle come tu mi hai chiesto, e d’aprile
s’affollano di spine e di foglie, e di maggio
esplodono a macchia sul muro, senza mai smettere
nemmeno d’inverno, quando tutto l’intorno si vela di
grigio.
Di maggio la luna si leva già rossa,
e da dietro il profilo del monte di ulivi, s’alza
lenta sopra la rete di rose, e indugia e mi sfiora
il mio tetto di coppi, come allora, come adesso,
come ogni volta che ti penso vicino, quando su in
casa m’illudo che dormi, quando al camino ti penso
che scrivi.
La guardo la luna respirando
l’odore, che dalla terra si alza ed alla terra
ritorna, ed è odore d’amore, di femmina sola, di
vita che torna, di sangue che vuole, lo stesso che
ancora mi scorre bollente, senza che mai abbia perso
speranze, anche se so che sei con tua moglie, ed il
motivo per cui sei tornato da lei.
Mi avevi
detto che non la vedevi da tempo, che le volte che
sparivi per giorni, era un modo per rigenerare la
fonte, del tuo genio d’artista della tua anima
fertile. Io sapevo sai che non andavi lontano, che
se non era tua moglie, era comunque una musa, che ti
scopavi nel letto nel bagno in cucina, come nei tuoi
racconti che leggevo segreta.
Lo sentivo sai e
ne avevo certezza, e quando tornavi lo percepivo
dall’odore, dai tuoi occhi più spenti, dalle voglie
più mute, ma tornavi da me ed io ero contenta.
Ma ci sono anche giorni come questi d’inverno,
in cui la luna la vedo squarciare un cielo di nuvole
nere, come un faro improvviso in un mare nebbioso, e
chiara si scopre di un verde irreale, la valle che
sotto si dipana nel ventre, della terra che nutre e
feconda i miei sogni. Per questo t’aspetto, per
questo ti penso, e ne ho la certezza che domani la
luna schiarirà un’altra notte, una notte di seta, di
labbra che rosse mi faranno più bella, ti faranno
più amante.
Fili di
rafia
Avevo un’amica che si chiamava Lucia,
ornava borse di paglia ricamate con rafia, a punti
lontani ma sempre precisi, a punti vicini con metodo
e cura. Decorava corolle allungate di fiori, con le
mani più stinte di colori avvizziti, d’ossa e di
vene in trasparenza alla luce, con le dita
intrecciate come fossero rafia, unite a traccia che
sembrava un tutt’uno.
Sento ancora l’odore
intenso di rafia, simile a muffa, polveroso ed
opaco, simile a fieno fermentato di stalla, quando
allargavo quei fili sottili, che prendevo dal mazzo
appeso alla sedia, e li lisciavo con cura e li
stendevo per bene, fino a farne una striscia sottile
e perfetta.
E Lucia che parlava senza mai
rifiatare, come fossi un’amica di cinquanta anni più
vecchia, mi raccontava le storie e i suoi vecchi
vent’anni, quando ancora ragazza era bella e regina,
quanto il marito un’estate l’avesse incantata, con
un mandolino stonato sotto la luna, e una voce che
usciva dalle corde del cuore, e Lucia tra le stelle
in piedi al balcone, innamorata per sempre,
strappata all’amore.
Io avevo le trecce nere
fitte e lucenti, e lei denti gialli macchiati dal
tempo, e una debole crocchia infelice e sbiadita,
come la rafia una volta allargata, che odorava di
stenti di miseria e di fame. Eppure parlava e ancora
sognava, di come sarebbe stata la vita, se il
destino più buono fosse stato diverso, se quello
cattivo non si fosse accanito, su di lei e il
marito, tanto bravo davvero, tanto bravo a suonare,
tanto bravo a far tutto. Io la guardavo e mi
chiedevo ogni volta, se era stata davvero bella e
regina, se davvero era stata un tempo bambina.
Cuoceva fagioli ed arrostiva salsicce, ricordo la
stanza riempita di fumi, ed io seduta l’ascoltavo
attenta, ed allargavo la rafia e tendevo i fili,
mentre lei infilava, cuciva e parlava, ed io sognavo
davanti ai suoi occhi, mi davo da fare ed intanto
crescevo.
Era lei la mia amica, Lucia la sola,
perché nel paese non c’erano bimbe, della stessa mia
età o poco più grandi. E da lei correvo per trovare
rifugio, infilavo il portone nello stretto budello,
che mandava miasmi acri di fogna, quando in casa
ogni volta c’era odore di botte, e ad alle volte
davvero non ce n’era il motivo, o almeno pensavo di
non aver fatto nulla di male.
Così tutta di
corsa facevo la strada, per rifugiarmi sicura e
trovare la tana, una culla di bimba, un buco di
ragno, e far finta di niente per non sentire i
richiami, di mia madre infuriata che mi reclamava
strillando.
Mi sorrideva Lucia e mi faceva
l’occhietto, sgranava i dentoni ed io mi
intrufolavo, tra le sue file di borse e i cappelli
finiti, tra le sedie di paglia e le pentole appese,
a far confusione e sentirmi felice, a cantare
canzoni che non conoscevo. Crescevo ogni giorno e si
rimpiccioliva la stanza, ma le sedie spaiate erano
sempre le stesse, come la rafia e i suoi fili
allungati, come l’odore acre di avanzi, come le
storie sempre diverse, per un marito che aveva
creduto diverso, che tornava la sera intorbidito di
vino.
“Ah se il destino fosse stato diverso!”
E lei sempre lì a cucire borse e cappelli, a
crescere figlie con fagioli e salsicce, a ripassare
verdura con aglio e cipolla. Ma a me piaceva quel
cibo e lo guardavo golosa, Lucia lo sapeva e mi
faceva mangiare, e mi diceva che presto sarei
diventata più grande, e qualcuno di giorno m’avrebbe
fatto la corte, e per qualcuno di notte avrei
sentito i grilli, le rane cantare fino all’alba sui
colli.
Ora sono sicura che senza Lucia, tanto
più lunghi sarebbero stati i miei giorni, tanto i
capelli che mi pettinava ogni giorno, la nonna ormai
morta, la mamma lontana, mio fratello per strada a
giocare alla corsa, con biglie e carretti e spade di
legno. Sentivo i suoni dei giochi dei maschi, per
una bimba non c’erano giochi di strada, ma neanche
nient’altro né bambole o libri, o che so io garze e
cerotti per giocare al dottore, ma solo pensare
guardando il paesaggio, o l’aratro precario tirato
da buoi, che lento e lontano risaliva al tramonto.
Ma Lucia, lei sola, era voce e sostanza, era storia
e materia canzoni intonate, nenie e lamenti già
consumati dai tempi, come le sue dita con quell’ago
sicuro, fra i polpastrelli un ditale e la treccia di
rafia. Adesso ricordo come la intrecciava sicura, e
come paziente m’insegnava a forgiare, tenendo
sottobraccio cannucce di paglia, e fare le trecce
con sette e più fili.
A sera quando la finestra
scuriva, tornava il marito ed io fuggivo veloce, lo
vedevo salire e sapeva di fumo, tossiva catarro,
sputi e bestemmie, con il cappello sul viso e una
bottiglia di vino.
Non ho mai saputo cosa
facesse, ma di lui non avevo paura, neanche la volta
quando da sola in cucina, lui dava olio e coppale
suoi legni tarlati. E mi ricordo la faccia, e mi
ricordo i respiri, quelle parole masticate dai
denti, quando d’un tratto abbassò i suoi occhi, tra
le trecce di rafia e i cappelli già pronti, e mi
disse diretto: “Allarga le gambe!”
Io rimasi
impietrita ma era un comando, e le bimbe per bene
ubbidiscono sempre. “Ah! Sei macchiata di sangue!” E
si alzò dal suo posto per venirmi vicino. D’un
baleno rinserrai le mie fragili gambe, provando
vergogna per avere ubbidito, per non aver saputo con
forza negarmi, ad un comando poi strano e per giunta
inatteso.
Ma quella voce diretta alle mie
mutande, mi fece intuire che dovevo scappare, e lui
fece in tempo a sfiorarmi un braccio, e se non fossi
stata più lesta mi avrebbe afferrato, ma io in un
lampo ero già sulle scale, con la paura di essere
grave e ferita, per via di quel dito che indicava il
mio sangue. Non dissi niente a nessuno, ma non
oltrepassai più quel portone, non dissi niente a
nessuno, ma ogni sera allo specchio mi guardavo
attenta, pregando Gesù di non vedere quel sangue.
Fu così che scrissi quella cosa su un
foglio, come se nel mio intimo sentissi la colpa, ma
mia zia lo trovò e lo disse a mia madre, e mia madre
a mio padre, e mio padre una sera mi chiese per
quale ragione, volle sapere ogni minimo gesto, e
infuriato si mise la giacca e il cappello, e andò in
quella casa con i pugni già stretti, con il sangue
negli occhi a cantargliene quattro.
Quando
infine tornò mi venne incontro, il suo viso disteso
mi sorrise persino, con quella bocca gemella che
assomigliava alla mia, con quel ghigno che ora
vorrei rivedere, semmai fosse vivo, semmai mi
chiamasse. Mi prese sulle ginocchia e accarezzò i
miei capelli, mi disse severo con un filo di voce:
“Bambina mia non ci proverà mai più, ma ogni cosa da
oggi dilla a tuo padre”.
Solo allora capii negli
occhi di babbo, che io non avevo fatto niente di
male, che i grandi alle volte non hanno ragione, e
non avevo nessuna colpa per quelle mutande, nessuna
davvero per quelle gambe aperte, quando rimasi
impietrita, ma era un comando, e le bimbe per bene
ubbidiscono sempre.
La padrona di casa
Io soldato le dissi
che avevo paura, mentre l’Europa era sconvolta dal
fumo, di macerie e di treni, di campi e camini, in
terra tedesca, in terra polacca. Ma la padrona di
casa era molto sicura, quando bussai tre volte alla
porta e le dissi tremante che ero inseguito, da
identiche divise del mio stesso colore.
Tutt’intorno la guerra, lampi e bagliori,
tutt’intorno montagne e valli e sorgenti, posti
distanti tra l’Umbria e le Marche, posti più impervi
per me cittadino. Lei sorrise serena e mi fece cenno
d’entrare, ci sedemmo in cucina sulle sedie di
paglia, e mi offrì un caffè caldo, nero di cicoria,
e non mi chiese null’altro soltanto il mio nome. Era
vestita di bianco, di stoffa leggera, ma portava uno
scialle lilla di lana che strinse vezzoso quando
cadde il mio sguardo, sulla camicia scollata, sul
seno importante.
Dalla finestra vedemmo
calare il tramonto, e non era sicuro uscire a
quell’ora, la montagna è amica per chi la conosce,
mi disse apprensiva con una ruga sul mento, e
intanto si alzò e rovistò in un cassetto, porgendomi
un cambio della mia stessa misura, un pezzo di
sapone e un canovaccio di lino. La ringraziai per
tre volte, ma non c’era bisogno, mi disse sincera
sul corridoio, la seguii in bagno assaporando la
sorte, lei riempì la vasca e poi chiuse la porta.
Io soldato le dissi che avevo paura quando
la sera preparò una minestra, calda fumante di
carote e cipolle, il vapore denso mi entrò nei
polmoni, sapeva di casa, di famiglia e di buono,
sapeva di rifugio, di seno materno, di tetto e
riparo da bombe lontane, di tedeschi e italiani in
fondo alla valle.
Su queste montagne il cibo
non manca, disse, versando sui piatti due mestoli
pieni. Poi tagliò il pane e un po’ di formaggio, e
mise sul tavolo una caraffa di olio. Bevemmo un
Verdicchio di quelle parti, lei solo un dito ed io
mezzo bicchiere. Il vino mi dà alla testa, mi disse
ridendo, il vino fa femmine tutte le donne,
sussurrai lentamente, chiedendomi dopo se avesse
capito.
Di sera mi raccontò al lume di
candela, quanto tempo era stata a dormire tutta
sola, sopra quel monte dove si scorgeva il mare,
dentro quella casa dove si udiva la guerra, lontana
mi disse. Aveva tanti anni e tanti più di me, ma la
sua pelle era liscia colore di pesca settembrina.
Era un po’ rozza e un po’ contadina, con due seni
enormi e molli e i fianchi troppo larghi. Sulla
credenza solo due ricordi: una fede d’oro e una foto
in bianco e nero, lei con il vestito bianco, lui con
il vestito scuro.
Io soldato le dissi che
avevo paura quando mi confessò che non aveva più
fatto l’amore, anni disse gonfiandosi il petto, anni
ripeté toccandosi i capelli. Suo marito era soldato,
disertore poi seppi, suo marito era robusto, come me
poi mi disse. Dopo cena rimanemmo a scaldarci in
cucina, al fuoco della stufa con i cerchi di ghisa,
una pentola annerita bolliva piena d’acqua, per la
borsa calda che prese da un cassetto, per un po’ di
malva per via di un mal di denti.
Fuori
cominciò a cadere giù la neve, non l’ho mai vista,
rapito le dissi. Lei rise abbassando la testa, se
taci ascolti il suo silenzio, sussurrò portandosi
l’indice al naso. Si alzò e si accese una sigaretta
su un tizzone, io chiesi il permesso di fumare il
mio trinciato.
Era un po’ rozza e un po’
contadina ma con due seni enormi e molli da dormirci
notti intere, da succhiare latte caldo, come mucche
al tramonto, da dormirci come un bimbo, quando fuori
c’è la neve. Le chiesi quale sorte era riservata ad
un disertore, lei guardò la foto ma poi non disse
nulla, per un attimo infinito rimanemmo a guardarci,
ad intrecciarci dita e fiati sul tavolo di legno.
La battaglia infuriava ed io avevo paura, i
suoi capelli si sciolsero, da soli mi sembrò, ma ero
distratto da lampi lontani. Temporale azzardai
nonostante la neve, tedeschi lei mi disse
aggrottando le sue ciglia.
Salimmo in
mansarda e preparò un letto caldo, tirò fuori
dall’armadio le lenzuola con i fiori, sapevano di
bucato e sapone di Marsiglia, sapevano di morbido
dopo mesi di fieno e crine, di letti di fango, di
terra e di topi. Lei andò in bagno ed io sotto le
coperte, mi chiese d’aspettarla, mi chiese due
minuti, ma mi addormentai quasi subito, lei tornò e
spense la candela.
Di notte la sentii
agitarsi dentro il letto, voltarsi e rivoltarsi ma
era solo un sogno. Fuori ancora nevicava e qualcuno
bussò alla porta. Lei scattò in piedi e mi fece
cenno di seguirla, aprì una porticina che portava
sotto il tetto, mi disse a voce bassa di rimanere
fermo e zitto, di non preoccuparmi perché sapeva
cosa fare. Ma dal buco della chiave la vidi agitata,
scese lentamente allacciandosi la vestaglia,
bussarono ancora, forte contro i vetri, bussarono di
nuovo con i pugni e gli scarponi, erano due uomini
che parlavano l’italiano, erano due fucili che
cercavano un disertore.
Ma la padrona di
casa era molto sicura, li fece entrare e gli offrì
del vino, del pane tostato e miele in abbondanza.
Fuori dalla finestra era quasi l’alba, poi sentii
voci grosse, dure di ufficiali, cercavano un soldato
robusto e vigliacco, sulle scale passi duri di
scarpe militari, impaurito non respirai per decine
di minuti, sentivo il mio sudore colare lentamente,
benché facesse freddo con la neve sopra il tetto.
Non c’è nessuno, la sentii convincente, a parte me,
disse sussurrando. Sentii l’odore di sigari e poi
risa, e poi un invito dolce e femminile, e poi un
silenzio di respiri ovattati, gemiti più fitti senza
voci e né scarponi.
Rimasi immobile, ma non
sentii altro, e l’alba penetrò dalla piccola
persiana, sentii un rumore di motore e di benzina, i
due che salutavano per un prossimo incontro, e poi
risa e un grazie malizioso, una camionetta che
arrancava curvando dopo il ponte.
Tirai un
sospiro grande e uscii dal riparo, mi misi dentro il
letto e feci finta di dormire, non passò che un
momento e la sentii in cucina, poi i suoi passi che
salivano le scale. Mi sfiorò con un bacio, delicato
sulla fronte, due tazze d’orzo e latte fumavano sul
vassoio.
La neve cadeva fitta, non aveva mai
smesso, i lampi più distanti, non sarebbero tornati.
Si rimise dentro il letto accoccolandosi da bimba,
m’accarezzò poi il viso e mi sorrise dolcemente.
Grazie poi mi disse, il pericolo è passato. Grazie
io le dissi e non ebbi più paura.
Il tuo cappello
Donna primavera
che mi porti ogni volta, quando esci di casa tra le
schiarite di Marzo, tra i rami insecchiti dove
timide stanno, le gemme di pesco e dei mandorli
nani, tra le trame di stoffa trasparenti al
chiarore, come tele di ragno in controluce al
tramonto.
Donna primavera che rinasco ogni volta,
quando sopra di te ti faccio femmina bella, e tu
danzi gioiosa all’Aprile che incombe, alle piogge
leggere che fiero trattengo, perché tu ti muova con
le sete dei drappi come fossero note cosparse
nell’aria.
Donna primavera che nascondi le forme
e di velo t’adorni e s’intravede la carne, come se
la stagione che risveglia l’ardore, non sia che la
stoffa che ammicca e traspare, che bianca, che
gialla sciama ed ondeggia al primo bagliore che
l’alba ti dona.
Donna primavera che ovunque
mi porti, tra spose novelle o vedove affrante, e ti
lasci ammansire da un soffio più caldo, che lieve
s’incunea dove il cuore non batte, e giochi col
vento che ti fa vela al bisogno e giochi con l’ombra
che altero ti offro. Perché tu sia la Regina ed io
il tuo trono, unico amante a cui concedi l’onore,
d’accarezzarti i pensieri e preservarli da tutto,
d’accompagnarti nei campi di mammole e viole che
recidi e raccogli per ingentilirmi le forme e tu
femmina appari al riflesso dell’acqua, al contorno
del viso, all’orlo di stoffa, lungo il sentiero dove
all’alba t’inoltri.
Donna primavera che
rinasco e t’aggrazio tra i barbagli decisi d’un sole
alla porte, tra i riverberi a schiera di rovi già
adulti, che covano in seno le spine ed i frutti, e
tu salti e cammini senza che l’erba s’accorga, di
quel fascio di sete incorporee al tatto,
impreziosite dai toni immaturi che stanno, sulla
pelle che diafana rinvigorisci alle labbra, e spalmi
di rosso di fragola e sangue, perché intatto rimanga
il desiderio d’ognuno, quando passi e ti volti e
lasci la scia, di fragranza ed effluvio di viola e
mughetto, di femmina bella che rinasce ogni volta
impalpabile all’aria come carta di riso.
Donna primavera che ti gongoli e pensi, che senza di
me non saresti la stessa, quando prima di uscire ti
guardi allo specchio e vezzosa mi scegli per essere
adatta, al giorno, alla sera, al tè delle cinque, al
tempo che fuori ti rallegra e t’indora, e tu ridi
all’amore ed al noce già in fiore e nell’aria
rispunta la bella stagione.
Il vento
Di giorno non sono nulla,
non riesco a dire parole, nasco di notte e ad ogni
alba poi muoio, sparsa nel buio di tenebre fitte,
che penetrano dentro questo vuoto di casa, questo
lembo di terra che non trova mai pace, quest’enclave
di montagna dove tira sempre vento. Mi s'intreccia
il respiro se solo mi penso, spalancata al bisogno
in attesa che un soffio, di vento che tira, di
brezza che s’alza, m’illuda di essere alcova del
mondo.
Perché è vento che porta rumori
lontani, sapori di muffa di gole profonde, di voci e
bestemmie contaminate dal giorno, piccole onde
strascicate di suoni, che la notte attutisce e li
vela leggeri, che la notte ingrandisce di bufere e
frastuoni. E’ vento che lascia un brivido caldo, che
passa e rimane e fa mulinello, di carezze e
lusinghe, di nobile corte, di voglia che preme e mi
lascia il sapore, di tetti e di case, di sentieri
scoscesi, di funghi seccati al sole a Natale, di
comignoli neri e di legna che arde, di pioggia in
autunno che bagna i sambuchi, i cani randagi ed i
vecchi in veranda, che il vento poi asciuga e passa
di fretta, tra i filari di uva per il Novello a
dicembre.
E’ un vento che soffia e sbatte
deciso, laggiù contro un muro d’ortiche e di muffa,
laggiù c’è una luce fioca che danza, quattro lamiere
che chiamano casa, si sentono grida e rutti
stranieri, con l’alito forte di aglio e di vino. E’
vento che porta voci lontane, si sentono urla di
giochi d’azzardo, qualcuno che esce e piscia sul
muro, perché è un vento notturno chiassoso e
silente, su questa collina dove osservo l’intorno,
su questa finestra dove appoggio le gambe, e unisco
le mani come una donna in preghiera, che apre il suo
cuore e s’affida per caso, agli odori che sento, al
vento che soffia, dove gli anni trascorsi hanno
fatto condensa, dove un uomo a quest’ora farebbe
fatica, a trovarne l’entrata e risalir la corrente.
Lo sento che penetra che ansima fiato, perché è
vento che entra dove lui ora vuole, e arriva e
s’illude e crede sia meta, ma è solo l’inizio e lo
prego di stare, di avere pazienza, vigore e misura,
di bucarmi la pelle di quest’anima stretta, che
intatta s’illude d’essere bella, di far poesia con
le mani ed i pugni, che premono maschi davanti alla
luna, alla casa di fronte di rutti e bestemmie, su
questa finestra dove spalanco l’essenza e un altro
lampo rischiara a giorno il bisogno.
Come
vorrei essergli foce, grotta e spelonca dove stanco
riposa, oppure anche l’ombra di luce e di luna, che
scurisce la strada e prende una forma, calpestata
dai passi che sotto il lampione, m’allungo e
m’accorcio al vento che sbatte. Perché davvero non
ci siano dubbi, quando entra e poi esce e sibila e
ringhia, e quanto all’interno sia fatta di vuoto,
quanto all’esterno mi offra più persa, per essere il
nulla, per essere sgombra, perché non ho polmoni, né
fegato o milza, ma solo il ricordo di amori passati,
che m’hanno negli anni scaricato l’ardore, voglie
bollenti che ancora stasera, m’ardono dentro e il
fiato che esce, assomiglia alle bocche di quei cani
fumanti, al vapore più fitto di acque sulfuree. Nel
sogno succede che non ho occhi né forma, perché non
serve all’amore uno sguardo profondo, e mai questo
vento mi ha chiesto dell’altro, nemmeno di
specchiarsi in un tramonto rossastro, né aghi di
pino quando cadono a grumi.
Perché è vento
che viene dal mare, sapori di sale e di abissi
profondi, piccole onde strascicate di suoni, che la
notte attutisce e li vela leggeri, che la notte
ingrandisce di bufere e frastuoni, e lasciano tracce
di un brivido caldo, che s’insinua deciso tra il
seno che dono, e danza leggero come un aliante che
plana, e si ferma e mi sfiora e s’incanala discreto,
e prende la forma dei miei profili di carne, e mi
fascia e mi vizia come amante lezioso, poi passa e
rimane e fa mulinello, di carezze e lusinghe, di
nobile corte, di voglia che preme e mi lascia il
sapore, di baci e saliva e scie sulla pelle, di
tetti e di case, di sentieri scoscesi, d’erbe e
d’aromi per il sugo Natale, di comignoli neri ed un
ceppo che arde, che serve a scaldarmi per tutta la
notte, e fuori la pioggia lava la strada, di puttane
africane, di bisogni di cani, di tombini intasati
d’avanzi notturni, che il vento poi asciuga e passa
di fretta, tra gli ombrellini da sole di donne per
bene, che arrossiscono a un niente e per un niente
si danno, tra i labirinti d’alloro e la caccia alle
volpi, tra le pergole nane dei rossi francesi.
Perché è tramontana che spira a cielo sereno, è
bora che spazza a raffiche e refoli, alle volte
maestrale che scende diretto, dalla valle del Rodano
e porta bel tempo, oppure un grecale, secco
d’inverno, che porta sapori dell’Est lontano, di
quando bambina giocavo in cortile, di quando mia
madre aveva altro da fare, e si insinua fitto dentro
i portoni, e scorre ringhiere e sale le scale, le
pareti scrostate e le scritte più oscene, tra le
porte socchiuse nei mattini di festa, con la musica
alta ed un vociare di bimbi, tre passi da leone e
due da formica, che facevano l'amore, con la figlia
del dottore, i capelli lavati asciugati in balcone,
i capelli più biondi con la chiara dell’uovo, di
partite alla radio e il circo in piazza, d’infiorate
e ginestre alla festa del santo, d’amori appartati
poco fuori al paese.
Perché è vento che in
grembo porta tutti i tramonti, di tegole rosse e
cupole d’oro d’ogni dove si posa s’incurva e riparte
e corre veloce lungo la strada, e corre più in
fretta per venirmi a cercare, tra fango e miseria,
tra i pini marini, e soffia su fuochi che scaldano
merce, di gambe straniere illuminate dai fari, di
ville stupende sul lago d’Albano, di sogni svaniti e
gli anni in collegio, di convitti femminili, di
suore e novizie, o d’alberghi in stazione con il
bagno di fuori, negli hotel di provincia, nei motel
per due ore, nei letti più caldi disfatti d’amore, e
la padrona con i rolli che t’affida la chiave, come
fosse l’accesso del paradiso terrestre, e ti guarda
e ti scruta le gambe e le tette, per sapere per
quanto impegni la stanza.
E’ vento che soffia
sui pioppi di Roma, sui rami pendenti attirati
dall’acqua, sul fiume che increspa la palude di
costa, di melma e di sterco, di borgate romane, di
bulli da poco e bande assassine, d’antenne e di
croci, di preti e bambini, perché è vento di tutti e
ne prende l’odore, e porta ingiustizie e governi e
regimi, arriva ovunque e raccoglie le voci, d’aiuti
straziati, di cesarei freschi, d’amanti segreti e
ferite di cuore, di parti e d’aborti, di cassonetti
ripieni, che niente e poi niente potrebbe guarire,
che il sole d’agosto non asciuga e non secca. E’
libeccio sabbioso, libico caldo, clandestino e
immigrato su carrette di mare, è vento di speranza
affogata per sempre, di nuvole basse che si
squarciano a pioggia, che pulisce miserie e
fazzoletti di carta, residui d’amore per contrattare
due tette, che smunte che vecchie non danno più
latte e calano molli come pere stracotte.
Perché è vento che torna ogni notte a quest’ora, e
lo sento lontano che curva e si torce, e come un
amante mi sazia e mi sfama, e sale e si infila e
sottile m’asciuga, come se m’offrisse in dono tutti
i sessi del mondo, di valli e montagne, d’ogni
angolo in terra che per giorni ha attraversato
portando l’odore, sfidando il mondo per farmi
godere, duellando di spada per essere il solo, per
poi prosciugare ogni cuore trafitto, bevendone
sangue che in regalo mi porta, tra queste pieghe che
offro aperte alla notte, tra quest’anima in fiamme
aperta al bisogno, di sentirmi scomposta dentro ogni
letto, di sentirmi appagata e femmina persa, alcova
e riparo d’ogni natura che entra, perché soltanto la
somma avrebbe un senso, soltanto la conta
m’appagherebbe del tutto.
Il tuo racconto
Il corpo caldo della
scrittura è impregnato di un bruno unguento, un olio
di carne riserva speciale, un livido odoroso di
brandy invecchiato, nei legni di quercia di colore
giallastro, come quelli che si distillano nel buio
di cantine, nei sottoscala d’ogni casa dove ribolle
odore intenso, di questa città dai camini sempre
accesi, dai ceppi di resina che si fondono al fumo
contro i muri scrostati di incuria voluta, di umido
e muffa, d’inverni perenni.
Come dalle crepe è
estratto nelle crepe ritorna, nei tagli e nelle
pieghe dei nodi di legno, del corpo che riluce e
miete vittime innocenti, perché l'amplesso delle
parole toglie il respiro, spezza il fiato ed
ingrossa il mio cuore, a volte picchia, spinge o si
solleva, come liberato sembra impalpabile e leggero,
esce quasi dal cardine secco del pensiero, sfascia
le stanze e fa alcove di nulla, fa tette a quest‘ora
vuote di maschio, fa buchi di terra dove nulla
germoglia.
Il saperti conforta e ferisce, anche
se non so dove sei, né con chi stai passando questa
notte, un‘altra delle tante dove m‘immergo tra
pagine e pagine lette e rilette. Perché è notte ora
e m’illudo di vederti mentre tocchi i tasti per
scrivere, tu lo fai bene e anch'io sto meglio. E’
notte sì, e mi sento più sola, unica perla rara a
quest'ora, senza un maschio che mi faccia sentire
quell’essenza, il senso che a quest‘ora si fa anima
e sesso e nulla e vuoto denso e sangue che scolora.
Bussano suoni dove la paura cerca l’origine, la
ragione, quel senso che m’avvolge e rende fertile
ogni fantasia che scrivi, che vivo. M’arrampico e
cado, m’arresto e rimando, sospesa su questo
saliscendi dove s’ammassano emozioni che bruciano
come corrente lungo i fili dell’alta tensione.
Dove sei anima mia, davvero questa sera potrei
sentire la tua voce? Se solo lo volessi, se solo
fossi capace di comporre quel numero senza che il
cuore arrivi alle tonsille. Potresti dire che ho
sbagliato, sai a volte succede uno scocciatore di
notte… Non ho mai smesso d’amarti, come ora
t’avverto tra i miei odori che si fanno più acidi,
come ora ti vedo scompagnato sopra queste foglie che
il vento di notte sbatte addosso a questa serranda.
Ma non sono foglie, sono mani, sono pugni decisi di
uomo, sono attimi d’ansia perché solo il desiderio
può credere che a quest’ora il tuo volto diventi
carne e zigomi alti, diventi peluria folta e barba
che bagno di voglia scomposta. Sei tu anima mia? Che
asciughi la mia paura col tuo respiro di vapore e
parole bollenti che ora mi chiamano, che ora
incedono e slabbrano senza resistenza le
intercapedini della mia solitudine.
Ma che dico!
Tu sei niente, niente da quando ti ho incontrato.
Ricordi vero? Era un giorno di festa e la sera si
ballava nel locale della scuola. Io ero con la mia
amica Daria e tu da solo. Tua moglie era rimasta a
casa. Mio figlio ha la febbre mi hai detto. Ma a me
importava poco, già ero affogata nei tuoi occhi
verde bosco, già volavo tra le tue braccia sicure e
capienti. Tu sei uno scrittore famoso ed io avevo
già divorato tutti i tuoi libri, non so sai quante
volte, prima di quella sera, prima di oggi.
Le tue parole scivolavano come nei tuoi libri ed io
ne ero attratta, estasiata, quando mi hai invitato
per un ballo. Già, abbiamo ballato, forse un valzer,
non ricordo. Poi siamo usciti all’aperto, faceva
freddo ed ero vestita leggera, tu mi hai coperto le
spalle, mi invitata nella tua auto. Abbiamo fatto
qualche metro. Segreti e clandestini, intimi e
privati, dentro la tua auto con i vetri appannati
immersa tra gli arbusti di un noceto lì vicino.
Tutto lì dentro era intimo, un gesto, un sorriso, il
fumo della sigaretta, il sedile ribaltato, le tue
parole vellutate, il mio desiderio per nulla
nascosto. La tua sorpresa, il mio abbandono. Abbiamo
fatto l’amore… Tu l’hai fatto con me, io con le tue
parole. Mai m’era successo d’abbandonarmi la prima
volta. Poi siamo tornati, nessuno s’era accorto
della nostra assenza e Daria era tranquillamente
assorta in una conversazione con un nostro ex
compagno di scuola.
Poi più niente e da allora
sono qui che aspetto. Uno squillo, una visita. Più
volte ho pensato a quale servizio da the avrei
usato, quale tovaglietta, quale ricamo. Più volte ho
legato i capelli ed altrettante li ho sciolti nel
dubbio perenne di non essere mai bella, di non
piacerti. Perché tu sei l’attesa, sei tutto ciò che
avviene dentro un’attesa, sei i panni stesi ad
asciugare, il ticchettio della sveglia quando non
dormo, l’odore del pane nei giorni di festa. Tu sei
questa vestaglia nuova con i glicini lilla, se per
caso non m’avvertissi, se per caso bussassi alla
porta. Dio che sbadata, non ti ho detto di Sara, è
un pastore tedesco di taglia grande, mette paura, ma
ti giuro non morde. Non scappare, vuole solo
annusarti. Anche lei aspetta da sempre il suo
maschio, accomunate dallo stesso destino.
Tu sei
l’attesa, dicevo, quella che dipinge a colori i miei
bianchi e i miei neri, quella che fa d’un raggio di
sole l’estate già qui. Tu non hai un corpo ma
giorni, tu non sei di carne, ma sei fatto di tempo
ed il tempo esiste quando cambia stagione, quando
cadono le foglie o gemma il mio pesco, quando si
gelano i tubi, quando la notte mi sorprende dentro
questa casa mia. Non ci sono altre case vicine, non
c’è anima viva nei dintorni, solo cani a branchi e
padroni di tutte le notti che calano presto, di
tutte le albe ancora distanti.
Ed allora come
fai ad essere tu che bussi a questa finestra? Come
possono essere le tue dita perfette a fare questo
rumore? Sai me le ricordo benissimo, quel tatto
prima leggero e poi sempre più potente fino a
scavarmi solchi, perché tu eri l’aratro ed io la tua
terra.
Bussano ancora, ma queste non sono
mani di uomo, di chi, a quest’ora, pretende ad ogni
costo d’entrare, di chi mi vorrebbe come ora io
sono, seduta e spogliata da questo immenso desiderio
di averti vicino. Non aspetto nessuno e l’angoscia
mi sale fino a girare con la mente tutti i muri di
casa ed rassicurarmi che tutte le finestre siano
chiuse e serrate da dentro!
Davvero vuoi che i
miei seni siano liberi? Davvero lo pretendi? Il mio
essere non è nulla senza le tue parole, senza i tuoi
libri adagiati sul mio letto, il mio respiro si
fermerebbe di colpo se dovesse mancare la corrente
come a volte succede, perché il buio mi fa più sola
ed una luce lontana mi fa sentire quanto tu sia
distante.
Ma il rumore non finisce, sono
raffiche di vento che non portano niente di buono,
sarà un temporale che s’ingrossa strada facendo,
come queste tette che si gonfiano ad ogni parola che
leggo, che dico sottovoce. E’ il ricordo di quella
sera che mi fa complice e devota e mi scarna i
pensieri fino a ridurli a desiderio scomposto, e
scardinano il cardine di questa mia porta. E’ bella
sai non l’ho coperta di nulla, è pronta se per caso
venissi, disponibile e fiera d’essere culla, ed ogni
verso la nutre, ogni dito la rende, femmina calda
pronta al bisogno.
Sei tu angelo mio che mi
obblighi, nessun altro finora era riuscito a farmi
sentire così importante e cosi niente, così vuota di
fronte a questo incedere di pause e punti, di
istinti che si fanno vortice e gorgo, si fanno
risucchio dove abbandono questo corpo che si deforma
e si modella ad ogni piacere che sale.
Se penso
che è stata solo una notte, anzi che dico, un’ora,
mezz’ora. Perché tu sei andato via di fretta, il
bambino, la febbre, ricordi? Come hai fatto ad
entrarmi di dentro ed appropriarti del mio orgoglio
senza ferirmi, a far sì che ora io non possa non
seguire la tua ombra, perché di quello si tratta.
Alle volte penso d’averti deluso. Fammelo sapere in
qualche modo, urlami che nessun’altra donna t’ha mai
meritato, gridami fino a farmi sentire più sveglia,
che domani non abbia il minimo dubbio d’averti
incontrato soltanto nel sogno.
Sono pazza vero?
Ti amo amore mio! Sono sicura che con il tuo
silenzio tu mi voglia comunicare dell’altro. Il tuo
ricatto è uno slancio d’amore, le tue pretese un
tatuaggio sul viso, un giuramento solenne di sangue,
perché mai t’approprieresti d’altra anima.
Promettimelo tesoro! Altrimenti perché staresti
ancora qui nella mia casa, nella mia testa e come
ora nel mio letto? A pretendermi senza che abbia
diritto d’oppormi. Non ti basto nuda amore mio? Non
sono sufficienti al tuo amore queste gambe smodate
che involontariamente si schiudono? Questi seni
attirati da un fluido di sole parole, che pendono
senza che uno sguardo, un vapore, li faccia stare
più dritti!
Vuoi davvero farmi ancora tua?
Come fai a convincermi che questo crepitio sulla
finestra non sono foglie, ma sono i tuoi pugni netti
e precisi. Certo che mi sono tolta ogni cosa, che
non sprecheresti il tuo tempo prezioso a spogliarmi.
M’adagio sul cuscino e scrivo AMORE con i miei
capezzoli, ti chiedo umilmente se m’ami con la
stessa forza come lo scrivi.
Sono bella vero?
Sono davvero la donna dei tuoi racconti? Con le
tette grandi come montagne, incavate come abissi
dove ci perderesti per sempre equilibrio e ragione?
Scusa, scusami se in qualche cunicolo del mio
cervello c’è ancora qualche falla che s’apre, dove
animali notturni ci sguazzano e mi corrodono ogni
ragionevolezza, perché se t’amassi veramente non
avrebbe senso e logica questo smarrimento,
quest’insicurezza che sale involontaria senza
controllo.
Vuoi che vada alla finestra e mi
mostri? Perché nel tuo racconto lei lo sta facendo!
Vuoi che un occhio per caso misuri quanta voragine
c’è nel mio cuore? Fino a che punto sono disposta a
sfidare il mio meschino amor proprio, fino a che
punto potresti indurmi e cancellarmi quel poco di
dignità che ancora m’è rimasta. E se fuori ci fosse
davvero qualcuno? Nel tuo racconto non c’è scritto,
non è importante vero?
Le tue parole scorrono
maiuscole, le ordini d’aprire, d’accogliere la
fantasia vivente che un dio le sta facendo dono, che
il destino ha voluto per dimostrarti che t’ama. Mio
amore infinito qui c’è temporale! Come nel tuo
racconto i tuoni mi strappano fuori dal gioco e
m’avvolgono in un brivido di vera paura. Lei resiste
e tu t’arrabbi, minacci di sparire perché sta
bestemmiando, perché per te non è un gioco e questo
è l’unico amore che conosci. Ma sai, hai ragione,
qualunque persona che ora stia bussando non può che
avere i tuoi occhi, non può che avere le tue labbra
che non manchi ogni volta di dire carnose. Ogni
volta che lei tenta di baciarti, ogni volta che io
di notte mi distendo dentro il tuo sogno. Le dici di
stare tranquilla perché chiunque sia l’amerebbe come
l’ami, le farebbe assaporare quei baci che ora le
neghi. Le dici che non ha confini, che è la donna
del mondo, pronta ad accogliere il vento e la
pioggia, qualsiasi natura che a forma di maschio la
fa femmina e tana, nido ed alcova d’ogni essere e
cosa. E tu sei ovunque perché la tua anima non ha
spazio e non ha tempo. Non può non obbedirti!
Eccola, femmina grondante si guarda allo specchio,
come potrebbe opporre le sue ragioni alla passione
che incede, alla tua anima gonfia, ai tuoi occhi che
emanano luce e speranza sopra di lei che tenti
invano d’illuminare, che non crede in Dio perché mai
ha conosciuto l’amore!
Leggo la data del
racconto, l’hai scritto prima che ci incontrassimo,
lo sapevi vero? Leggo come la descrivi, sono io
vero? I capelli castani sopra le spalle, quella
piccola voglia sotto l’orecchio sinistro. Ma come
facevi a saperlo che nel mondo c’era una Musa che
dai piedi ai capelli l’avresti stregata, convinta
che non esiste altro amore come ora lo sento, anzi
non esiste amore senza sentirmi più persa di tutti
gli uomini banali che ho incontrato finora, che
credevano che il sesso fosse solo tra le mie gambe.
Sento ancora rumori, qualcuno bussa, non possono
essere foglie, troppo nitidi e regolari. Vorrei
leggerti ancora, ma sono distratta, quei rumori mi
entrano nel cervello. Passano ancora minuti, sento
rumori alla finestra, alla porta, lungo il muro
dietro la casa. Ed io sono qui nuda, nuda per te,
aperta al mondo, per essere lo sfogo d’ogni tuo
desiderio. Eccoti, ora riesco ad andare avanti,
leggo qualche riga, sì sì amore mio, mi alzo, ma tu
non lasciarmi sola, ti prego, resta qui con me.
Il fiato sale, m’ingrossa il petto e la gola,
non ho nulla in dosso. Ho paura, ma devo resistere.
Come nel tuo racconto tolgo il chiavistello, le
quattro mandate della serratura. Dallo spioncino non
si vede nulla. I rumori sono sempre più forti,
assordanti. Bussano ancora, sarà grandine e pioggia,
saranno rami secchi che sbattono fitti, sarai tu che
reclami il mio corpo… Sono pazza pazza pazza…. Apro!
Seta
Accarezzami
dove fioriscono i capelli, sopra le macerie fumanti
dei miei sudori. Fammi distinguere il verso d’una
passera che cova, lo stesso che negli anni non sono
riuscita a sentire.
Non dire nulla, ti prego,
che non sappia d’amore, ascolta il silenzio di
questa trama di seta, di questa foglia di vite che
danza, che cade e si posa sopra questo regalo.
Ripeti il mio nome per sentirne il fruscio, l’onda
di luce che mi fa femmina bella, il respiro del
suono che denso galleggia sopra questa natura che
t’offro e ti dono.
Chiamami, perché il
paradiso non può essere altrove. Sono queste le mani
che disegnano esatte il profilo dei fianchi, il
ventre del sesso dove intingi le dita. Sanno di
buono e ne gusti il sapore, sanno di me, di resina e
polpa che cola dal tronco di un acero donna.
Fa che l’odore di terra mi salga dal cuore, che
la pioggia che batte si faccia leggera e rimanga a
brillare contro il sole al tramonto. Taci, non
parlare. Qualsiasi parola, che non sia il mio nome,
righerebbe il silenzio, come spine di rose sul mio
seno proteso, che mi cerchi e ne fai sorgente in un
orizzonte di sabbia e di dune.
Dissetati
dentro questa natura. Ingozzati del mistero che mi
fa regina ogni volta che scopro, che ti fa suddito a
branchi come file mansuete di cani che aspettano il
turno. Vorrei dare un nome ad ogni foglia che
calpesto, impararlo a memoria, così come ad ogni
passo un suono ed un rumore per ricordarlo domani e
chiamarlo per nome.
Vorrei che questo corpo
non avesse la pelle, così che tu possa sfamarti del
sangue del cuore, di tutti gli uomini che hanno
goduto prendendolo a calci, di tutti gli altri nei
sogni che sparivano all’alba. Ti prego non chiedermi
perché ora mi offro, se nei miei anni c’è un uomo
con gli stessi tuoi occhi, se ora c’è una colpa che
mi dà brividi forti e salgono fin dove fioriscono i
capelli.
Guardami, come se m’avessi scovata
dentro un guscio di noce, tra le spine dei rovi come
more e lamponi. Accecati al rosso delle mie labbra
perfette, abbagliati e pretendi rispetto per ogni
goccia di sangue che s’addensa e s’aggruma, per ogni
goccia di seme che mi sfama e disseta nei canali
prosciugati dove non ristagna che melma.
Lascia che le mie gambe diventino foce di tutte le
piogge che corrono al mare, di rami, di trote e
bottiglie ormai mute che riparano gelose invocazioni
d’amore. Ascolta il rumore di questo seno che
dondola e selvaggio ti sfida ad esser fedele ad
un’unica bocca, ad un’unica voglia che ti strizza i
pensieri e te ne chiedi ragione, e mi fa remissiva,
cedevole, incredula e nessun sentimento potrà mai
darmi conforto.
Prendimi, prima che le tue
mani esitino all’angoscia di non farmi godere, prima
che il mio corpo ritorni esile e riprenda la forma.
Prendi questa abbondanza, saziati gli anni di
carestia e di stenti, perché ti giuro verranno e
saranno più miseri di quelli passati. Prendimi,
saprò di nulla e bugia se proprio vuoi che rimanga
nel sogno, se proprio non vuoi che sia fatta di
carne e dolori. Prendimi, sarò docile e mansueta
come un cane abbandonato, eterea e fragile come una
rosa in inverno, un bimbo racchiuso dentro la mano
di un padre.
Se questo fosse il paradiso
vorrei già essere morta, ma se per caso fosse
l’inferno peccherei ogni volta per guadagnarmi
questo oblio di spirito e carne. Ora le sento queste
mani scellerate che continuano a toccarmi, a
sfiorarmi come se conoscessero ogni istante che
segue, come se alba e tramonto non avessero un
giorno di mezzo e continuassero a girare in un
vortice denso di brama e passione, di onde di seta.
Mi fai sentire incompleta perché ti desidero,
convinta che il mio corpo sia imperfetto, da ora, da
oggi, da quando son nata, difettoso d’amore in ogni
sua parte, che tocchi, che scavi, e ne cadenzi i
respiri.
Ora ti sento! Impaziente come
qualsiasi uomo, mi cerchi dove l’anima si scompone
al piacere. Mi volti e mi rivolti per riempirmi di
maschio in ogni dove natura m’ha fatto capiente.
Incredula tremo e t’imploro di essere almeno reale,
di chiamarmi per nome perché di null’altro ne ho ora
bisogno.
Amore, infinito amore, dimmi che
esisti, che queste mani non sono le mie, e il vapore
che alita il ventre sono parole che non potrei mai
ridire. Dimmi che ci sei, che sei ragione ed
istinto, natura che torna come la neve a novembre,
l’aprile che sboccia le rose, come l’estate che
matura il suo grano prima che la falce non lo recida
dal gambo.
Amore infinito amore, ascolta le
onde di seta che t’offro, taci, non parlare! Se mi
dicessi amore sarebbe pazzia, se mi dicessi che
m’ami sarebbe un sogno soltanto. Taci, ti prego
taci, perché se amore esiste, non ci sono parole
dentro questo silenzio.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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