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Adamo Bencivenga
Sala da ballo
...
..E’ una sala da ballo anni sessanta, un pomeriggio d’inverno con
la pioggia sui vetri, e fuori un paese di bar e biliardo, con il
gioco di carte e le partite alla radio. E’ una sala da ballo col
pavimento a parquet e dentro è domenica con i vestiti da festa,
le donne non pagano e gli uomini il doppio, una coppia che balla
e gli altri stanno a guardare. E’ una sala da ballo, una
palestra di scuola, con le donne sedute su una panca di legno,
vestite di beige e testa di moro, che parlano mute ma solo tra
loro. Portano gonne su misura di sarta, camicette di seta con le
maniche a sbuffo, le scarpe col tacco aperte davanti, e mostrano
fiere le unghie curate, le labbra dipinte di rosso scarlatto, i
capelli schiariti con la chiara dell’uovo, che sanno di rolli,
di casco bollente, di messa in piega e retina, cotonati di
lacca.
E’ una sala da ballo anni sessanta, con gli uomini in fila che
hanno perso speranze, per quella bruttina che ombrosa si nega, e
rimane seduta a guardare nel vuoto, ed in giro si dice che ha un
ragazzo affettuoso, ma lei non disdegna lasciarsi toccare, ed in
giro si dice che fa bene l’amore, ma lontano da sguardi di una
sala da ballo. Le altre sedute si guardano intorno, con gli
occhi più tristi velati di noia, ed adocchiano in giro furtive e
distratte, casomai dalla porta entrasse qualcuno, un viso
diverso, un principe azzurro, un forestiero per caso con la
macchina bella. Sono tutte in età, di sposa e di madre, ma
nessuna di loro porta al dito la fede, nessuna è promessa ad
un cavaliere di turno, perché è domenica o comunque una festa, e
le coppie ufficiali si dirigono altrove, arrampicate in collina
nelle auto in sosta, tra i vigneti a filari e i meli frondosi,
dove fanno l’amore completo o in parte, pensando al corredo rosa
o celeste, sognando una casa di legno e mattoni.
E’ una sala da ballo con gli uomini in fila, che aspettano il
turno indovinando il momento, per quella più grande che ha un
ciondolo d’oro, che balla e che pende tra il seno importante. E’
lei la regina, l’ambita zitella, è lei la sovrana di quel regno
di sguardi, che ha superato da molto i trent’anni, e fa la
merciaia in un negozio avviato, ereditato per caso da un lontano
parente. Si fa chiamare Lulu ma il suo nome è Zafira, si dice
che è nata in un posto di guerra, da padre soldato, da madre del
posto, e sin da ragazza si è guadagnata la vita, finché ha
conosciuto un ricco mercante, di stoffe e preziosi con sede a
Damasco.
Era bella Lulu con il velo in testa, la sera che chiuse gli
occhi alla notte, e si confuse ai baci, sensuali e bollenti, di
quella bocca avvolgente a forma di culla. Ed erano baci caldi d’amore
e passione, di promesse che un giorno l’avrebbe sposata
senza un corredo e venti cammelli, ma poi un bel
giorno s’è ritrovata da sola, dentro quel letto, grande come un
deserto, dentro quel sogno svanito nel nulla, e fuori era giorno
con il sole già alto.
E’ una sala da ballo anni sessanta, Zafira che balla e si lascia
toccare, da mani che avide scendono ai fianchi, e lei sorride
evitando la presa, rimettendo al suo posto la mano ribelle, ma
sapendo che in fondo non c’è nulla di male, perché sopra la
gonna non c’è alcun contatto, perché sopra le calze non è certo
peccato, come ripete Don Mario ogni volta, quando dopo la Messa,
la confessa e l’assolve, e la mano furtiva si ferma laddove, il
senso di colpa si lascia estirpare. E balla Zafira
ininterrottamente da ore, da quando l’orchestra ha dato il via
alle danze, perché è lei l’attrattiva, perché porta un cappello,
dei guanti di rete ed una calza velata, e si muove leggera sopra
i suoi tacchi, che fini, che alti, la fanno araba bella.
Zafira ha una bocca di cuore di panna, Zafira ha un seno di
nettare e miele, e a chiunque lo mostra per sentirsi migliore, a
chiunque lo nega per sentirsi importante, perché conosce la vita
e conosce l’amore, e si sente diversa da chi ora seduta, fa la
lana e la tela in attesa del sogno, di un principe azzurro o
quantomeno celeste, per fuggire lontano su un cavallo di razza.
Zafira la guarda e vorrebbe spronarla, ad alzarsi e ballare, a
sentirsi leggera, e ridere ridere per tanto e per nulla, perché
l’amore è una gonna che danza e che segue, perché l’amore è una
giostra ed ogni tanto si scende, un duello di sguardi, una sfida
e una corte, e l’anima frivola ha bisogno di gioia, di un’ape
che vola ed un fiore che accoglie.
E’ una sala da ballo anni sessanta, uomini intorno che
assaporano il miele, e il desiderio che sale e l’attesa che
passa, che incombe impaziente per il prossimo ballo, di
stringerla ai fianchi e sentire quel seno, di stringerla ancora
e portarsela a letto. E’ una sala da ballo ed un uomo si alza,
porta un maglione, un dolcevita di lana, e le scarpe a punta
lucidate a bianchetto, un bottone a lutto e i pantaloni a
campana, che indossa soltanto per le feste da ballo. Si chiama
Giuseppe ma lo chiamano Armando, come il nome del padre
scomparso da poco, come il nome dell’azienda di uova e galline,
e prende il coraggio ed attraversa la sala, schivando le coppie
che ora ballano un liscio, e tra poco l’orchestra ha già
annunciato un lento, e coglie il momento che Zafira è da sola,
perché aspetta da ore nel gioco di turni, perché l’ha puntata e
non vuole che un altro, lo possa precedere per il prossimo
invito, e ardente la vuole per un giro e un altro, per ammansire
la gonna e governare il suo petto.
E’ una sala da ballo anni sessanta, l’orchestra di colpo attacca
quel lento, “Smoke gets in your eyes” rifatta alla buona, e
Zafira che ride e non ha nulla in contrario, quando Armando la
stringe e vela il suo sguardo, per via di quel fumo dentro i
suoi occhi, per via della mano che scende sui fianchi. Ed è un
arco di carne, una curva di strada, un tornante, un tragitto, a
picco sul mare, un soffio di vita, di caldo d’estate, un vapore
di fiato e un brivido forte, perché Zafira ci sta e si lascia
toccare, perché Armando lo sa ed altre volte è successo, che tra
le tante musone c’è una femmina vera, calda e sincera come il
pane sfornato, che ride, che balla e non c’è nulla di male, per
sentirsi più bella e riderci sopra, perché Zafira lo sa che è
una sala da ballo, e non è un luogo di incontri di promesse per
sempre, o all’alba in un letto a desiderare che torni, nel tempo
che dura una musica bella.
E mai e poi mai ne concede un altro, sarebbe un delitto, sarebbe
un affronto, al dolore che giace nei fondali del cuore, e a
nessuno è permesso d’andarlo a scovare. Perché Zafira lo sa che
l’amore è un imbroglio, che segna la faccia di vene più dure, di
rughe che solcano la pelle del cuore, mentre il ballo è un gioco
di femmine e maschi, una scusa, un ripiego per passare due ore.
Eh già che lo sa che l’amore è una truffa, che vela lo sguardo e
spegne la luce, che la gioia è un miraggio e la tristezza per
sempre, perché ti lascia su una panca ad aspettare che venga o
in un letto da sola ad aspettare che torni.
E’ una sala da ballo anni sessanta, l’orchestra che replica
l’ultimo brano, qualcuno è già andato, qualcuno indossa il
cappotto, e c’è solo una coppia sulla pista che balla, ed è il
prossimo Armando o il prossimo Antonio che ha aspettato paziente
il suo turno seduto, ed ora la guida, la trasporta leggera, come
una piuma, un velo che plana, e le dice parole appiccicose di
miele, e promesse assolute di mai e per sempre, ma Zafira lo sa
e non si lascia ingannare, e ride e sogghigna, fermando le mani,
alle volte s’arrabbia ma è solo una finta, perché in fondo le
piace e lui non demorde, e lui stringe quei fianchi, quelle
curve di mare, e lui stringe quel petto, di sole e deserto, fin
dove è permesso dentro una sala da ballo, fin dove è concesso
tra i filari all’aperto, ora che la sera fa le forme all’amore,
ora che la bocca fa cerchi di fumo, e lui le sussurra parole
d’amore, dentro una macchina con i vetri appannati, senza sapere
che quel regalo insperato, non ha nulla a che vedere con le rime
del cuore, ma è frutto di un caso, di quel gioco di turni, che
ha voluto che fosse l’ultimo in coda..
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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