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Adamo Bencivenga
Signor Giudice
Signor Giudice, io non so che fine abbia fatto, certo
sì, era lì seduta, ecco vede, lì in quell’angolo vicino
al camino, proprio dove il muro fa la curva e la pietra
s’abbandona a quel filo di crepa che la imperla e la
ricama. Signor Giudice sì che lo ricordo, lei mi disse
che aveva freddo ed io misi un altro ciocco, un faggio
stagionato che profuma e sa di buono, e poi mi ringraziò
alzando appena gli occhi, come se non le importasse,
come se poi non fosse il fuoco a scaldare le sue ossa
facendo un cenno con la testa e tornando ai suoi
pensieri. Signor Giudice certo che me la
ricordo, era venuta qui da sola e da sola poi è andata,
portava un cappello nero e grigio, i capelli sopra gli
occhi, lisci neri, forse castani, due labbra perfette,
di velluto e seta tinte di rossetto, e poi gli occhi,
Dio gli occhi, vedesse Signor Giudice, due lampi a cielo
aperto, due lune nella notte. Come si fa a non
ricordarla, come si fa poi a non sognarla, una donna
così non passa inosservata, signor Giudice lei mi
capisce, vero? Lei è uomo di mondo, scusi se mi
permetto, lei sa annusare il fascino oltre l’evidenza,
sa riconoscere una donna da una femmina, l’anima
dall’aspetto. Mi scusi signor Giudice, ma una
così, non si può dimenticare, anche dopo l’amore lascia
sempre l’amaro in bocca, un sapore di incompleto, un
velo di rimpianto per quello che non si è colto, oppure
per quello che si è colto, che mai è sufficiente, che
mai ti completa. Una così, quando si saluta, quando la
vede scendere dalle scale della camera, fa pensare ad
un’occasione persa, una cartolina appesa sulla credenza
in cucina, una così è un treno quando non si prende, una
coincidenza persa per un niente, anche se poi non si ha
voglia di partire, anche se poi si è alla fine di un
lungo viaggio. No, no, signor Giudice, cosa va
a pensare? Certo che non ci ho fatto l’amore, non mi
fraintenda, dicevo tanto per dire, una così fa pensare a
quello, diventa un chiodo fisso, un palo fermo dentro il
cuore. Non so come spiegarle, ma una così è perla rara e
non sono gli occhi, il viso o magari il seno, è l’anima
che ti resta dentro. Mi scusi se sorrido, magari ci
avessi fatto l’amore… una così è il confine tra il tutto
e il niente, e dopo rimane solo il passato, il ricordo
fisso di ogni attimo stampato nel cervello.
Signor Giudice non ricordo esattamente l’ora, so che era
tardi ed il locale ormai vuoto, forse le undici passate,
forse anche mezzanotte, i camerieri erano da poco andati
via ed io avevo spento la luce dell’insegna e abbassato
per metà la serranda. Sì certo lo confermo, c’era
qualcosa di strano, nei suoi modi e nei suoi occhi,
forse un’amarezza sopportata con decoro, sinceramente ho
pensato ad un addio, sì certo anche ad una fuga, ma
sempre per passione, sempre per amore. Per un attimo
anche a un tradimento, perché Signor Giudice era bella
per davvero, e le donne belle, non so quale sia il
motivo, s’accompagnano da sempre a uomini infedeli. La
prego Signor Giudice, la mia è solo una congettura, non
mi faccia dire ciò che non ho detto, no, no, io non
l’avevo mai vista prima d’allora e in quel momento non
ho pensato ad altro. Signor Giudice mentre parlo
cerco di ricordare, mi faccia le domande così non
tralascio nulla, esatto, ero in cucina lavando pentole e
stoviglie, beh sì, in tempo di crisi faccio un po’ di
tutto, anche il cuoco e il cameriere, il lavapiatti e il
titolare, a volte anche l’inserviente che poggia le
sedie sopra i tavoli e spazza e lava il pavimento. Ecco
il contesto era esattamente questo. Vuole ricreare la
stessa situazione? Aspetti spengo la luce fuori ed
abbasso la serranda. Ecco sì, credo adesso vada
meglio. Come le dicevo sentii la porta aprirsi e uscii
dalla cucina, vidi una donna avvolta nel calore del
cappotto, un’ombra della notte che si scrollava di dosso
il freddo, come fosse nebbia, come fosse neve. Mi guardò
senza interesse, come fossi trasparente o una brocca con
dei fiori sopra il tavolino, ed è a questo che pensai,
quando lei, con fare disinvolto, appoggiò sciarpa e
cappotto sopra questa sedia. Signor Giudice ci stavo
arrivando, vero, non si tolse il cappello e non disse
nulla, neanche “Buonasera”, o “Scusi per l’ora”. Niente,
almeno così ricordo, forse un accenno di sorriso, ma
comunque nulla, come fosse normale entrare in un locale
e pretendere a quell’ora un servizio ed una cena.
Signor Giudice le confesso che non rimasi indifferente,
pensai ad un premio del destino, ricevere quel dono come
fosse un compleanno, portarmi quel regalo senza mai
averlo chiesto. Dio, Signor Giudice, cosa penserà di me…
quasi mi vergogno, ma che ci posso fare? Io amo quel
tipo di femmina fatale, quel sapore malinconico
d’antico, adoro quei dettagli, le unghie rosse e ben
curate e una pietra che riflette la pelle morbida del
seno. Non lo nascondo, lei sapeva d’altri tempi, di
cappelli a cloche e scarpe con il cinturino, sapeva di
gonna stretta sopra il ginocchio, ma sapeva anche di
storia recente e vissuta intensamente. Ecco sì, sapeva
di sesso e di calza smagliata, d’odore di lenzuola
disfatte d’amore, di squallida pensione, di lei in bagno
e lui che fuma, di lei che fugge e lui che la insegue, e
poi di folle corsa per sentirsi più distante, come se
scappasse da un dolore, esatto, d’addio in mezzo ad un
strada, sì perché un addio all’aperto è molto più
romantico, sa di dramma e sa di pianto, sa di storia
ormai finita, sa di pioggia e sa di notte, anche se
fosse stato giorno in pieno sole. Giuro, Signor
Giudice, questo ho pensato, sì è vero, era seduta qui su
questa sedia, con il viso rivolto verso il caminetto, ed
io da dietro le guardai le gambe, le calze fin dove la
trama si fa rada, e fanno immaginare che sotto quel
vestito, ci siano fiocchi e merletti, ci sia un circo ed
una giostra, un lanciatore di coltelli, acrobati e nani,
ci siano i leoni, le scimmie e gli elefanti, patatine e
popcorn aspettando i pagliacci. Signor Giudice
sì, va bene, ho capito, non mi dilungo e vengo al
dunque, se non ricordo male si alzò di scatto e mi
chiese dove fosse la toilette, ecco sì, lì per la prima
volta sentii la sua voce, calda e delicata, sentii quel
suono come fosse il canto della merla, così
inconfondibile che se la risentissi potrei riconoscerla
all’istante. Dio che andatura e come camminava, Dio che
portamento e come era bella, uscita poco prima da un
film in bianco e nero, come una modella in una sfilata
di Chanel. Quando tornò dal bagno, guardai i
suoi occhi, erano rossi e cerchiati, di freddo e di
pianto, notai l’abito a tubino, semplice lineare senza
la cintura… Mi scusi, Signor Giudice, lei ha ragione,
farò in modo di essere più preciso, in effetti era un
soprabito e non un cappotto, anzi pensai che fosse
leggerino, sa qui nei giorni di marzo andiamo sempre
sottozero. Aspettai qualche secondo, che si rilassasse e
si mettesse comoda, poi come ho detto all’inizio misi un
ciocco nel camino. Questa volta mi sorrise ed io non
feci altro che volare. Ha presente un volto triste che
sorride? Come dire? Mosse solo le labbra, anzi no, le
strinse come un fremito, mentre il resto della faccia
rimase immobile e dolente. Sì esatto, Signor
Giudice, pensai che avesse avuto un diverbio, forse
anche un pugno o uno schiaffo, pensai a parole grosse
cadute facilmente, pensai a quell’addio sopra un
marciapiede, oppure in una casa, le scale e tutto il
resto. La prego non mi creda pazzo, oppure ossessionato,
qui ne vengono spesso di donne sole, oppure con un uomo
che è solo un pretesto, e non sono il tipo che ogni
volta si innamora, e non sono il tipo che ogni volta poi
ci prova, perché si sente maschio, perché si sente uomo,
perché si sente in obbligo di farsi sempre avanti, come
una missione, un ordine dall’alto! Qui vengono donne
d’ogni specie, attrici affermate e signore da salotto,
comparse affamate e stelline da ribalta, disposte a
tutto per una scrittura, per un minimo compenso, qui
vengono donne sposate al primo incontro clandestino,
donne incinte alcolizzate, sobrie e timorate, qualcuna
fa il mestiere per hobby o per campare, altre per
scambiare soltanto due parole. Signor giudice,
lei conosceva il mio locale vero? Ma non l’ho mai vista
da queste parti! Forse qualche suo collega, ho due, tre
clienti ma non ricordo i nomi, e non so precisamente se
sono magistrati, oppure avvocati, oppure poliziotti, a
volte chiedono informazioni altre mangiano soltanto. Sa,
questo locale esiste dai primi del Novecento, come
ristorante è molto conosciuto, in tanti anni di
sacrifici s’è guadagnato apprezzamenti ed io ho messo da
parte una discreta somma, per vivere tranquillo, per
godermi la pensione. Avrei molti posti dove andare,
avrei molte donne per far l’amore, ma mi capisca, quella
sera vidi entrare il paradiso, lei era diversa dalle
altre, aveva un alone da svelare, un mistero da
spogliare, non so come dire, lei che sa di donne di
certo può capire. Signor giudice, come vede mi
faccio prendere dal discorso, perché sono sincero, ok
rimango ai fatti come vuole, ed i fatti dicono che
m’avvicinai, lei mi chiese del vino rosso da allungare
con un po’ di acqua di rubinetto, mi chiese un po’ di
verdura cotta senza secondo e senza primo e poi una
fetta enorme di torta con le mele. Fu un secondo o forse
meno, quando mi diede modo di vedere, tra il contorno di
mascara, l’ombra di un amore perso chissà dove. Fu un
attimo soltanto, poi mi chiese se per caso avessi un
giornale. Le portai il Messaggero e lei lo aprì sulle
pagine interne, le divorò freneticamente, lesse ogni
notizia, ogni trafiletto, finché di colpo si fermò su un
titolo e una foto. Senza chiedermi il permesso ritagliò
la pagina con il coltello, notai che lo fece con estrema
cura, poi piegò la carta in quatto e la mise nella
borsa. Signor Giudice, no, non ricordo cosa ci
fosse scritto, ma ricordo che non le dissi niente,
sarebbe stato un delitto, come sgridare un bambino, mi
fece tenerezza, così fragile e indifesa, avrei voluto
solo proteggerla dal mondo, dai fantasmi della mente,
dalle insidie e dal tormento, da ogni cosa le stesse
accadendo, dagli uomini e dalle donne, da qualsiasi
dolore. Le offrii un aperitivo della casa e un’arancia
di Sicilia, sa, quelle buone e succose che vengono dalle
mie parti, lei mi guardò come per ringraziarmi, strinse
gli occhi e mise in bocca uno spicchio come fosse un
pensiero, un ricordo di una bocca che fa sangue e che fa
male, che fa sesso aspro e dolce, che fa bene e che fa
fame, e lascia solchi fondi e neri, nell’anima e nel
cuore. Signor Giudice, no, non ho conservato la
copia di quel giornale, ricordo che andai in cucina a
prepararle la verdura, e non lo nascondo, pensai anche
ad altro, ad abbassare del tutto la serranda e
soffondere le luci, a come fare il primo passo ed anche
il secondo, perché sa io di donne sole mi intendo e per
come le conosco, so quanto sia importante il primo
approccio, pensai di andare in bagno e lavarmi alla
buona, di togliermi l’odore di fritto e di cucina.
Sì certo pensai a tutto questo, quando preparavo la
verdura, pensai a una storia bella, tipo un bacio sulle
labbra, tipo una donna col cappello che si concede
all’amore, magari su un tavolino, magari apparecchiato,
accostato al muro oppure al centro della sala, pensai a
mettere un altro ciocco per spogliarle almeno il seno, e
salire con la mano sotto il nido della gonna, e sentire
quella giostra di lusso esagerato, di nettare vischioso,
d’amante ancora calda, e poi con le bocche mute unirsi
in un bacio, tutti e due ad occhi chiusi per sentire il
fiato denso, il rumore inconfondibile del faggio dentro
il fuoco e tutti e due con le braccia aperte, per
spiccare almeno un salto e poi provare a galleggiare.
Giuro Signor Giudice, non pensai ad altro, ma
quando uscii dalla cucina vidi il posto vuoto, vidi la
forma dell’alone come fosse stato un sogno, o come mai
lei fosse entrata, sentii un senso di freddo nelle ossa,
una nevicata a fine marzo, fissai il giornale a terra e
l’articolo rimosso, come se cercassi prove, o quanto
meno una traccia. Rimasi impietrito con il piatto in
mano, non c’era più niente di lei, né il soprabito, né
il cappello, nulla. Mi precipitai fuori, chiesi ad una
coppia infreddolita se avessero visto passare una donna,
ma nulla, andai fino alla stazione di taxi, ma nulla di
nulla, cercai ancora, domandai a caso, ma nessuno
l’aveva vista, tornai sconsolato verso il ristorante,
cadeva una leggera pioggerellina e stranamente il mondo
fuori funzionava come al solito. Signor Giudice
mi perdoni, non so perché lei la stia cercando, o perché
vuole informazioni, ma qualunque sia il motivo la prego
di non dirmelo, perché non le nascondo che il destino di
una donna così è solo bianco o solo nero, è gioia o
morte senza mezzi termini. Ancora mi chiedo perché mai
non abbia osato e se lo avessi fatto cosa sarebbe
accaduto, perché nel sogno succede che un oste qualunque
sia baciato dal cielo, e l’odore di fritto diventi
violetta, e prenda la donna per mano, e rimanga a
fissarla, a dirle che è bella, che ha le labbra di
carne, di rosso velluto, che ha lo sguardo di cielo e i
capelli di grano, che paura, che voglia di portarla
lontano, di prenderla in braccio e sussurrarle parole, e
intingere il dito nella bocca di miele, e invitarla a
danzare senza nessuna fatica, perché nel sogno lui è
maschio, muscoli e ferro, e lei una piuma che danza
leggera, una soffice spuma sulla cresta dell’onda,
perché lei ora contro il muro, maliziosa si offre, e lui
allibito guarda quel fiore, ringraziando il cielo, la
fortuna, la sorte… E la prego Signor Giudice,
non mi prenda per un pazzo, lo so che è solo un sogno,
ma ogni sera dopo le undici io l’aspetto e con gli occhi
la cerco, tra questi tavoli imbanditi rivedo
quell’alone, la serranda appena aperta, il ciocco nel
camino, quello sguardo torvo e denso, pieno di nemici e
di fantasmi, quella bocca rosso fuoco che sorride e poi
mi chiama, mentre le servo la portata di verdura cotta,
e mi dice di sedermi, e avvicina le sue labbra, al
bicchiere di vino rosso allungato con dell’acqua.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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