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Adamo Bencivenga
Sweet Movie
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Probabilmente uscì lasciando la sua casa in penombra, probabilmente era
inverno e faceva molto freddo, e pensò all’incertezza, a come fosse vago,
l’andare incontro al giorno, affidarsi ad un destino, senza conoscere
l’epilogo o quanto meno una traccia, anche se la storia qui non entra nei
dettagli. Ma a noi fa piacere vederlo camminare, lungo il fiume di
mattina, per mano al suo destino, tenebroso e un po’ retrò, perché fa
giallo e fa noir, col cappello a tre quarti e l’impermeabile sbiadito, il
bavero alzato che fa tanto poliziotto, e quel ghigno tanto triste che
solca la sua faccia, da cane bastonato, da attore consumato, che si volta
e sconsolato guarda quella casa, con l’intonaco scrostato e la facciata
fatiscente.
Probabilmente è la sua casa, probabilmente al piano terra, di una villa a
due piani di fine ottocento, ma non è antica, è solo tanto vecchia, vicino
al Flaminio a due passi dove il fiume, fa l’ansa e fa la curva e San
Pietro si rispecchia, dove Roma si fa il trucco e s’imbelletta per la
foto, e rimane ferma in posa proprio come una modella, dipinta dei colori,
densi di un tramonto. Ma ora è l’alba e il cielo è bianco latte, e lui
probabilmente attraversò la strada vuota, probabilmente si fermò lungo il
parapetto, e si lasciò affascinare dall’acqua e dal riflesso, forse da un
gabbiano che adocchia la sua preda, forse da una zingara che spenna un
altro pollo.
Probabilmente l’acqua è sporca di un colore verde marcio, ma lui
l’immaginò chiara e trasparente, e vide i pesci tropicali, la flora
variopinta, e vide come un sogno il riflesso di sua moglie, con la fede
ancora al dito, lui, lei ancora insieme, ma fu un attimo soltanto, un
effimero miraggio, poi guardò per caso l’ora e decise di affrettarsi.
Perché oggi era il suo giorno, non proprio il compleanno, ma uno di quei
giorni che dividono un’esistenza, e sapeva quanto fosse, la sua vita
appesa ad un filo, e per questo s’affrettava e per questo ora andava, o
forse non lo sapeva, o forse solo immaginava.
Probabilmente sentì nel cuore quell’arrivederci, e rivide quei frammenti
di lei alla stazione, il viso ed il cappello, le labbra rosse rosse,
sicuro che lei non pianse, sicuro aveva fretta, probabilmente imbarazzata,
probabilmente impaziente, poi un gesto come dire il treno sta partendo,
poi un gesto con la mano e quell’arrivederci, proprio in quel momento che
uno sbuffo di vapore, avvolse quei due visi e invase il marciapiede.
Probabilmente erano passati anni, ma lui non li aveva mai contati,
probabilmente ora indugiò perché tutto aveva un senso, tutto un obiettivo,
un piccolo tassello di un piano stabilito, come il bavero alzato, come il
giornale sotto il braccio, il cappello a tre quarti, la barba appena
incolta, perché ci piace ricordarlo che cammina da eroe, misterioso e
solitario nel bel mezzo degli anni trenta, anche se siamo molto dopo, agli
inizi del duemila, o in un giorno senza senso alla fine di un bel sogno.
Probabilmente proseguì guardandosi intorno, controllò nella tasca destra
la sua Beretta Parabellum, una M9 nera, la pistola d’ordinanza, perché lui
era un poliziotto e si chiese il motivo, per cui non fosse in servizio,
perché non fosse in divisa. O forse probabilmente stava solo nella parte,
e per questo camminava evitando i tombini, rasentando quel muretto dove il
fiume scorre lento, e i piccioni sopra i rami facevano i bisogni, su una
parvenza scivolosa sopra quell’asfalto.
Probabilmente si diresse verso Ponte Milvio, o quanto meno lui credeva in
quella direzione, lasciandosi alle spalle la cupola ed il fiume, uno
strascico pesante di dubbi e di pensieri. Perché probabilmente pensò a suo
figlio, che ora in quell’istante faceva colazione, sotto lo sguardo
attento della giovane Maria, l’ucraina che suo figlio riconosceva come
madre. Sì perché probabilmente sua moglie era andata, fuggita con l’amante
lì alla stazione, oppure era morta in un giorno di settembre, forse solo
nella sua mente, o mancava poco tempo.
Probabilmente era in pena, o in preda allo sconforto, pensando quale
faccia facesse parte della scena, e allora si guardò nel riflesso di una
vetrina, e vide la sua faccia tra le scarpe e gli stivali, e s’accorse
delle rughe nonostante l’ombra piena. Solo ora gli venne in mente quale
fosse il motivo, per cui non era in servizio e non portasse il basco nero,
ma solo la pistola, la cintura e la fondina. E si vide in bianco e nero,
giurò senza sonoro, con il bavero alzato che fa maschio e fa vissuto, che
fa uomo e poliziotto che fa attore nella parte. E allora ripassò in fretta
il suo copione in equilibrio sul confine, in bilico nel film, la finzione
e il ruolo vero, appaiati nella scena, perché era uno dei quei giorni che
non puoi dimenticare, per questo s’era alzato presto, per questo doveva
andare.
Probabilmente il telefono era spento, erano giorni che giaceva morto, ma
poi si chiese se anche questo facesse parte della scena, oppure era solo
un uomo, senza amici e senza affetti. Poi fischiettò un motivo, “Il vento
caldo dell’estate”, si chiese per quale diavolo di ragione, s’annidasse
nella mente, forse per quel film, Sweet Movie a Berlino, quando conobbe
sua moglie, lui attore e lei comparsa, la cassiera mora del WunderBar,
dagli occhi grandi, gialli e viola.
Probabilmente era vicino alla sua meta, anche se lui ignorava quale fosse,
ma si sa che il destino passa solo una volta, e lì sul lungotevere apparve
una signora, di fatto un’attrice, di fatto traditrice, portava un tailleur
che le fasciava i fianchi, un cappello e una veletta per passare
inosservata, ma lui la riconobbe, dagli occhi grandi, gialli e viola, la
vide invecchiata e non era sola, e allora gli venne in mente tutta la sua
vita, flash, lampi e fotogrammi, e quell’arrivederci, quando la conobbe
comparsa a Berlino, il giorno delle nozze, suo figlio nella culla. Ma
probabilmente non era nel copione, e allora in quell’istante vide anche il
suo futuro, un grande funerale, quel loculo su in alto, quei fiori finti
appassiti, il carcere a vita, i giorni del gran freddo e quello del gran
caldo.
Perché probabilmente si accesero le luci, e attimi e frammenti
s’accalcarono sul da farsi, e ripassò a mente le battute ad una ad una,
perché guardò l’ora e guardò le cineprese. Probabilmente vide tutto questo
e forse altro ancora, sentì il sudore colare dalle ascelle, sentì il cuore
fino in gola. Qualcuno gridò Ciack si gira e lui si immerse nella parte,
si alzò da grande attore e le andò incontro, ma non c’era angoscia, non
c’era amore su quel viso, neanche un velo amaro, un dolore appena appena,
solo esattamente una logica vendetta, come da copione come nella scena.
Perché probabilmente lei sorrise a stento, e lui s’avvicinò e la fissò
negli occhi, si avvicinò a quell’uomo ed estrasse la pistola, e come da
copione sparò due colpi secchi, uno per ciascuno, senza un’emozione, così
a sangue freddo. La donna cadde a terra senza un lamento, e un rivolo di
sangue corse sull’asfalto, l’uomo barcollò per due secondi eterni, ma poi
cadde muto senza alcun decoro. Poi tutto fu silenzio, tutto come previsto,
anche il traffico e Roma, San Pietro e Ponte Milvio, un leggero vento
verso nord alzò il bavero dell’uomo, due comparse con l’ombrello
attraversarono la strada, il semaforo all’angolo rimase rosso fisso. Tutto
fu perfetto, tutto fu reale, il regista esclamò “Ottima la prima!” e non
ci fu bisogno di ripetere la scena.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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