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Adamo Bencivenga
VILLA STUCK (L’età
matura)
...
.Probabilmente uscì alla solita ora per andare al lavoro, probabilmente si
mise a piovere durante il tragitto. Ecco immaginalo con il cappello,
l’ombrello e l’impermeabile chiaro, le spalle dritte, la barba appena
accennata e la consapevolezza di essere un bell’uomo.
L’ufficio non era distante. Conosceva a memoria quella strada. Qualche
volta aveva provato a chiudere gli occhi e con sua soddisfazione ed
amarezza aveva evitato senza troppa fatica tombini, lampioni e lavori in
corso nonché la solita cacca di cane che ogni mattina trovava puntualmente
sul bordo del marciapiede all’altezza del negozio di autoricambi.
Probabilmente aprì l’ombrello, probabilmente lo richiuse subito dopo, ma
quel giorno era comunque diverso dagli altri. Il sette di marzo era sempre
un giorno diverso. Due pietre miliari appaiate. Il suo compleanno e la
morte di sua moglie. Probabilmente l’evento tragico aveva messo in secondo
piano la conta dei suoi anni. Sta di fatto che all’altezza della
Prinzregentenstraße cambiò direzione e girò a destra, prese il telefono
dalla tasca e chiamò l’ufficio. “Pronto sono Helmut…” La sua segretaria
non lo fece continuare, semplicemente guardò il calendario… Eh sì, quel
giorno il suo capo si sentiva proprio male…
Proseguì lungo il marciapiede di destra, ora la strada era un lungo viale
alberato. Al Bayerisches Museum c’era una bellissima personale dedicata a
Gustav Klimt, adorava l’Art Nouveau. Si fermò un attimo ad ammirare il
grande manifesto della mostra che riportava un particolare del Bacio
dell’artista austriaco. Probabilmente pensò a quanto gli fosse mancato in
questi anni il bacio di una donna, poi decise di proseguire. Dopo il ponte
attraversò il grande parco finché all’altezza di Villa Stuck si bloccò.
Sotto il porticato la riproduzione di alcune statue catturò la sua
attenzione. Decise di entrare.
La grande sala in penombra era completamente deserta. Grazie alla luce
algida dei faretti, proveniente dal pavimento, spiccava un enorme blocco
di marmo dal sapore neoclassico. La scultura raffigurava un uomo, una
donna ed un bambino mai nato. L’uomo era piuttosto maturo, dai lineamenti
spiccatamente mascolini e i muscoli ben definiti costellati da una serie
di buchi sparsi all’altezza del cuore, della pancia e del sesso. La donna
era rappresentata semi curva con un grosso fardello sulle spalle, mentre
il bambino era semplicemente un embrione. Sicuramente, al primo impatto
visivo infondevano un grosso disagio e nell’insieme trasmettevano una
sensazione di grande vuoto.
Colpito da quella rappresentazione Hemult prese posto sul divanetto di
velluto verde rivolto verso la statua. Tirò fuori dalla tasca
dell’impermeabile la sua Moleskine e si concentrò su quella sensazione di
grande vuoto… Era come se l’artista avesse voluto sottolineare, attraverso
quei buchi, l’incapacità dell’uomo maturo di amare, soffrire e generare,
inoltre, attraverso il grave peso della donna, il disagio contemporaneo in
un ruolo non suo e nel complesso, una forte incapacità di comunicare.
Sui loro volti notò i tratti tipici di una sofferenza diffusa: il classico
male di vivere.
Immancabilmente fece un paragone con la sua vita, gli eventi tragici e
l’attuale condizione connessa alla difficoltà di relazionarsi e di dare e
ricevere amore vero.
Probabilmente quel pensiero non durò molto. Probabilmente durò ancora un
istante quando davanti a lui apparve una signora decisamente elegante:
“Spero che queste statue marmoree non l’abbiano fatta addormentare…”
Sorrise accomodandosi sul divanetto accanto al vaso di aspidistra.
“No, anzi, questa opera trasmette quanto di più tormentoso si possa
scovare nell’essenza dell’uomo contemporaneo. Almeno per quanto riguarda
il mio genere d’appartenenza.” Rispose lui automaticamente, mantenendo lo
sguardo rivolto verso la scultura.
“Mi scusi se non l’ho fatto prima. Mi presento sono la scultrice di queste
opere…” Helmut questa volta girò lo sguardo e notò la raffinatezza dei
modi e quella disinvoltura tipica di chi fa da padrona di casa.
“Complimenti allora! Mi sento degnamente rappresentato e lei ha centrato
in pieno le mie considerazioni su come va il mondo e… il mio stato
d’animo.” Le ultime parole furono quasi un sussurro.
Probabilmente lei decise di non indagare, preferendo una piacevole
conversazione sull’arte contemporanea e soprattutto per avere un giudizio
artistico sulla sua opera. Probabilmente lui andò oltre, probabilmente non
riuscì a separare il parere critico dall’emotività che le procurava quella
vista e dopo circa mezz’ora lo scenario era molto evidente: lui vedovo,
nato e sempre vissuto a Monaco, visitatore occasionale, entrato per caso o
per deformazione professionale quel sette di marzo in quel museo. Lei,
artista, pittrice e scultrice, nata a Monaco, sposata con un italiano e
residente a Roma.
“Sa, tramite amici comuni, ho avuto questa opportunità di esporre la mia
opera nella mia città natale ed ho preso l’occasione al volo. Il problema
è che lei è il terzo visitatore in quattro giorni. Spero che nel week-end
questa sala si affolli…”
In effetti durante l´ultima mezz’ora in quella sala del museo non si era
vista anima viva e Susanne, questo il suo nome, aveva un desiderio enorme
di parlare della sua opera. Lui lo notò e le propose di continuare quella
conversazione davanti ad un tazza bollente di caffè. Il bar del museo era
chiuso e si incamminarono per la Prinzregentenstraße.
Probabilmente lui le parlò del suo lavoro, probabilmente lei se ne
interessò. Era titolare di una piccola società editrice. Tra i numerosi
libri d’arte vantava la pubblicazione di una rivista mensile di successo.
Il Kunst-Events era diventato negli anni il fiore all’occhiello di una
certa società colta e molto sensibile all’arte. Si informò sul
responsabile stampa della mostra e chiese il motivo per cui l’evento non
fosse stato pubblicizzato come meritava..
Passeggiarono lentamente nonostante il freddo pungente. Lui ammirò il suo
cappello tipo cloche nero con una rosa di lato dello stesso colore. Lei
non poté fare a meno di apprezzare l’impermeabile chiaro di lui. La
lunghezza, sopra al ginocchio, dava sicuramente l’idea di un’eleganza
ricercata ma non stucchevole.
Girarono a destra e sulla Ismanstraße trovarono una piccola sala da thè.
Il locale tutto rivestito in legno era molto accogliente. I due trovarono
il modo ed il tempo di raccontarsi parti delle loro storie. Ci furono
anche delle lunghe pause, ma era chiaro che tutti e due fossero alla
ricerca di argomenti stimolanti con l’obiettivo di risultare
reciprocamente interessanti. Poi lui ricevette un messaggio dalla sua
segretaria, lei una telefonata dalla Direzione del Museo.
“In confidenza, più guardo la mia opera e più mi lascia una sensazione di
incompiuto, come se mancasse qualcosa, lei non trova?” Disse lei fissando
un punto impreciso del tavolo di legno.
“A mio parere ha rappresentato in modo perfetto l’assenza d’amore e
l’incomunicabilità tra donna e uomo. Generalmente lo stato d’animo
dell’artista non si distacca dalle sue opere…”
Probabilmente lui aveva ragione, probabilmente lei annuì preferendo non
continuare. Ancora qualche minuto e si salutarono ringraziandosi a vicenda
per la piacevole mattinata e non prima di essersi scambiati le rispettive
email.
“Mi prometta che elaborerà quel concetto sul vuoto contemporaneo. L’ho
trovato molto interessante e vorrei sfruttarlo come presentazione per le
mie future mostre. Ci conto!”
Lui farfugliò qualche parola sentendosi onorato da quell’invito e
promettendole un grande articolo sul suo giornale.
Ci fu anche qualche timido invito per la sera da lei gentilmente stroncata
sul nascere. Sarebbe ripartita per Roma il giorno dopo.
Probabilmente lui pensò al destino, avrebbe accettato ben volentieri che a
quel sette marzo si aggiungesse una nuova ricorrenza. Probabilmente lei
pensò al caso quando dal finestrino dell’aereo vide in lontananza i due
grandi pini marini della sua bella villa dell’Olgiata. Inevitabilmente
pensò a suo marito, ormai erano più di tre anni che non facevano l’amore…
Probabilmente passarono alcuni giorni finché una mattina presto, seduto
nel suo ufficio sulla Königinstraße con ampia veduta sull’Englischer
Garten, Helmut ricevette l’email di lei tanto attesa. La lesse
immediatamente, pur sapendo che non era importante il contenuto, ma il
fatto che lei gli avesse scritto. Susanne parlava genericamente del suo
ritorno a Roma e gli domandava se avesse ancora l’intenzione di pubblicare
un articolo sulla Mostra. Probabilmente lui le rispose immediatamente ma,
calcolati i tempi del buon gusto e della circostanza, inviò l’email
soltanto il giorno dopo.
Da quel momento ci fu uno scambio fitto di email, finché una sera si
ritrovarono a guardarsi negli occhi tramite le proprie cam. Lui notò il
trucco fresco, lei la sua camicia appena stirata.
Susanne lo ringraziò più volte per la recensione sul Kunst-Events.
L’articolo aveva procurato una certa attenzione tra gli addetti ai lavori.
Qualcosa si stava muovendo, anche se l’afflusso di pubblico rimaneva al di
sotto delle aspettative.
Quella sera si scambiarono opinioni e preferenze sull’arte. Lui amava
l’impressionismo francese, lei quello americano e spagnolo. Lui il
neoclassico italiano, lei quello vittoriano. Si salutarono dopo circa
un’ora con la promessa reciproca di rivedersi il giorno dopo.
Così accadde e da quella sera divennero inseparabili e, compatibilmente
con gli impegni di lavoro e le presenze a dir il vero sporadiche del
marito di lei, passavano praticamente intere giornate insieme. Giorno dopo
giorno affinarono i loro interessi e la loro sintonia, giorno dopo giorno
scoprirono una piacevole attrazione sentimentale e fisica. Si ritrovarono
ad ascoltare musica, vedere film, scambiarsi foto, correggere testi,
bisticciare e piangere, sognare viaggi e vacanze su spiagge esotiche,
addirittura una sera cenarono insieme a lume di candela e dopo la cena,
per la prima volta, fecero l’amore.
Probabilmente lei non se ne accorse, probabilmente lui era distratto, ma
qualche mese dopo erano ufficialmente insieme, senza essersi mai baciati e
men che meno toccati. Flebili si aggrappavano a quello sporadico incontro
a Monaco ingigantendo i dettagli e incensando ogni piccolo particolare.
Susanne era affascinata da quell’uomo, metodico ma allo stesso tempo
imprevedibile. Helmut invece l’adorava per i suoi voli pindarici che la
portavano ogni giorno a fantasticare su situazioni e progetti.
E un giorno di giugno non molto lontano, lui prese un volo per Roma
Fiumicino.
Si ritrovarono seduti ai tavolini all’aperto del Cafè de Paris gustando un
delizioso aperitivo analcolico a base di frutta fresca. Li accolse una
meravigliosa giornata di estate romana. Per l’occasione lei indossava un
vestito plissettato beige chiaro di Prada con grandi margherite rosse. I
loro sguardi si fusero nella magia della complicità e di quell’incontro
vagheggiato più volte.
Avevano organizzato tutto. Lui alloggiò in un albergo del centro, vicino a
via Boncompagni, lei riuscì a trascorrere due notti con lui inventandosi
un improbabile work shop di scultori a Riccione. Quel soggiorno suggellò
la loro unione. Furono notti magiche e giorni di scoperta.
Lei vide negli occhi di lui una nuova luce, lui nel corpo di lei quel
bisogno d’amore reclamato spesso in chat, ma soprattutto scoprirono che
quel vuoto filosofico e fisico veniva via via riempito dall’incredibile
sintonia.
Tutto avvenne in modo così naturale al punto che dubitarono più volte che
quella fosse davvero la prima volta. Nelle loro regressioni scandagliarono
il loro passato cercando di immaginare come e quando si fossero già
incontrati. Non trovando nulla andarono oltre e con l’aiuto dei sensi e
della passione ebbero la certezza di essersi già conosciuti in una vita
precedente.
Durante quelle notti rividero e scomposero la statua marmorea che lei
volontariamente aveva rappresentato nella confusione di ruoli con quei
grandi buchi, il grande peso e l’embrione. Quell’amore, quella fusione di
sensi ridefiniva i contorni, incollava pezzi persi per strada e
immancabilmente ridistribuiva il peso della donna nei grandi buchi.
Nell’armonia ritrovata l’uomo si riprendeva la propria parte maschile e la
donna ben volentieri gliela cedeva.
Probabilmente passò ancora un po’ di tempo, lui tornò a Monaco, lei si
prese un momento di riflessione. Accompagnata dalle sue statue si stabilì
in completa solitudine nel suo casolare ristrutturato nella Val d’Orcia.
Ormai era tutto chiaro.
Quel trittico marmoreo non era altro che la prima parte del suo pensiero.
Si rese conto che quell’enorme disagio volontariamente rappresentato era
fine a se stesso e non trasmetteva alcuno spiraglio di luce. Era
semplicemente un’opera incompleta e senz’altro ora riusciva a capire la
fredda accoglienza che aveva ricevuto nella mostra di Villa Stuck. Non si
perse d’animo e ordinò immediatamente da un’industria della Brianza, del
materiale plastico adatto a quel tipo di lavorazione, poi si mise
all’opera…
Probabilmente passò qualche mese, probabilmente un po’ meno e con l’aiuto
di scalpelli, raspe, resine, smerigliatrici e soprattutto del suo genio, i
buchi furono riempiti in sequenza, parzialmente ed interamente, in modo da
dare l’idea di un percorso. Il materiale plastico e il colore
completamente diverso dal marmo davano l’idea del riempimento e
soprattutto del faticosissimo riequilibrio. Il grosso carico sulle spalle
della donna fu lavorato e trasformato in modo che, con un gioco di
prospettive, risultasse sempre meno grave. L’embrione accennato divenne
per magia un feto dai caratteri ben definiti. Le figure nude furono
avvolte da drappi svolazzanti che misero ancora più in risalto la rapidità
del cammino e la raggiunta maturità. Ora quel blocco di marmo era davvero
un’opera d’arte che senza sforzi lei intitolò “L’età matura”.
Le foto del gruppo marmoreo così modificato, corredate dalla recensione di
Helmut sul vuoto filosofico dovuto alla confusione dei ruoli, fecero il
giro del mondo. Siti specializzati e riviste del settore fecero a gara per
intervistare la nuova Camille Claudel.
Nel frattempo lei si era definitivamente stabilita in Toscana. Suo marito
apprese la notizia nel giardino della loro villa dell’Olgiata.
Probabilmente lei si commosse trattenendo a stento le lacrime
dell’ineluttabilità, probabilmente lui continuò a potare le rose
imprecando sul malbianco che quell’anno aveva colpito alcune piante rare.
Chiese soltanto quando sua moglie avrebbe liberato il grande garage dai
suoi lavori ed attrezzi ingombranti, ma, per tutto il tempo, non la guardò
mai negli occhi.
Il nostro Helmut dopo una breve permanenza in Germania, seguì le attività
della sua rivista direttamente dalla Val d’Orcia. Furono mesi
indimenticabili, le giornate si susseguivano all’insegna del vivere sano a
contatto con la natura e degli ultimi preparativi per l’imminente mostra.
Alternavano lunghe passeggiate a veri e propri lavori nel grande orto che
si estendeva oltre la collina. Raccolsero fichi, ricci di castagne, mele
primizie e prugne nere in grande quantità. Susanne ne fece marmellate,
mentre Helmut preparò la legna per l’inverno.
Lei era entusiasta, finalmente aveva un uomo accanto a sé, il quale, tra
le altre cose, si occupava anche delle sue attività di scultrice. Venne
l’inverno e venne la neve, le loro giornate si rincorrevano in quella
magica armonia dove ogni cosa si incastrava perfettamente. Lui riparò due
tegole rotte, sostituì un tubo dell’acqua intasato, lei accudì una mamma
gatta partoriente e non finì mai di stupirsi.
Con Helmut la vita era molto più facile pensò probabilmente quella sera,
quando mano nella mano, gustarono un thè verde con una foglia di menta
seduti in veranda, probabilmente sarebbero andati a dormire molto presto,
probabilmente non avrebbero fatto l’amore. La sveglia era prevista per le
cinque, un taxi già prenotato li avrebbe accompagnati alla stazione e da
lì un treno fino all’aeroporto.
Il grande gruppo marmoreo era già nei locali della mostra, loro sotto
quella veranda senza vuoti e zavorre, ciascuno perfettamente nel proprio
ruolo.
Era il sei di marzo, era passato esattamente un anno, il giorno dopo ci
sarebbe stata la prima mondiale, a Madrid, naturalmente...
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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Photo Maja Topcagic
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