Io ci sono stato a
Tijuana, città di dogana, capitale del traffico di
carne umana, corridoio di speranza, lì al confine
tra il sogno americano e la disperazione messicana,
punto di frontiera obbligato per tutti i clandestini
che vogliono rischiare e per i regolari che si
vogliono divertire. Sì certo ci sono stato lì,
immerso nell’infinito blu dell’oceano e i vicoli
stretti che odorano di piscio e contrabbando, lì,
proprio lì, a passeggio lungo l’Avenida Revolucion e
la via elegante dei bordelli esclusivi, lì, tra le
luci accecanti dei locali notturni e quelle in
penombra dei tramonti autunnali.
Eccola
Tijuana la città più a Nord e più a Est del Messico,
le sue spiagge confinano con quelle della California
e solo pochi chilometri la separano dalla ricca San
Diego, ma la vicinanza con gli Stati Uniti ne ha
fatto una specie di Sodoma e Gomorra in salsa
messicana.
Eccola Tijuana, un mix di inglese
essenziale e colorito spagnolo, centro di libero
scambio di qualsiasi merce, dalle armi all’alcol,
dalle donne alle droghe. Qui tutto sa di illegale,
sa di marcio e disgusto, dal taxista orientale che
ti offre indistintamente a poco prezzo sua moglie o
un pacchetto di sigarette, al minorenne che vende
munizioni e pistole vere. Qui è nato il grande
Cartello che gestisce tonnellate di droga al giorno
ed ogni grammo spacciato genera violenza, omicidi,
sparatorie, aggressioni, morti per strada, vendette,
facili arricchimenti e sangue, soprattutto sangue
che scorre rosso sull’asfalto delle vie lungo il
grande oceano della baia californiana.
Sì certo
ci sono stato a Tijuana dove gli abitanti gridano
alla luna di farsi i fatti propri, lungo quelle
strade che si interrompono contro un muro, il muro
della vergogna, alto tre metri e lungo tremila
chilometri, costruito per spezzare la speranza a
migliaia di reietti. Ed è proprio qui che
incontro all’imbrunire Reyna che si sta iniettando
eroina vicino al fatidico muro, è qui che incontro
Pedro che vive in un tombino, Carlos che mi invita a
passare la notte con sua madre o sua sorella, anche
contemporaneamente. Qui vive Oscar che si veste da
donna prima di andare a lavoro, con tanto di tacchi,
trucchi, gonnellina rosso fuoco e parrucca platino,
ma assicura di essere uomo vero e lo fa solo per
lavoro. E per essere più credibile mi invita nella
sua casa di lamiera per una birra e mi presenta sua
moglie e i suoi cinque bambini.
Poi torno in
strada ed è qui che incontro Fernanda un giovane
travestito che vive e lavora nel distretto a luci
rosse. Mi ricorda la Prinçesa di Fabrizio de' Andrè:
"Sono la pecora sono la vacca
Che agli
animali si vuol giocare
Sono la femmina camicia aperta
Piccole tette da succhiare..."
"Che Fernandinho è come una
figlia
Mi porta a letto caffè e tapioca
E a ricordargli
che è nato maschio
Sarà l'istinto sarà la vita"
La Zona Norte è un vero e proprio distretto a luci
rosse nel quale la prostituzione è legale, sia nei
bordelli che per strada, dove la Paraditas,
arricchiscono l’arredo urbano come i semafori o i
cestini per la spazzatura. Devono stare lì 24 ore su
24 e sono schiave dei cartelli criminali affidate di
solito ad un padre padrone che ne gestisce
l’attività, i ritmi di lavoro, l’affitto temporaneo
e la vendita. Se sei bella puoi avere mercato e fare
carriera o addirittura finire dentro una valigia e
passare la frontiera.
Tutte questa anime di
vetro hanno in comune la disperazione e la malattia.
Qui, a causa dell’eroina e della prostituzione, due
persone su cento sono malate di aids e Fernanda,
come Martha e Patricia, sebbene sappiano come
proteggersi, accettano per un dollaro in più di fare
sesso non protetto. Come del resto Reyna che addosso
a quel muro si sta iniettando una dose con una
siringa usata chissà da quante altre persone.
Patricia invece accetta di raccontarmi la sua storia
per un dollaro. Ha i capelli lunghi di un colore
indefinito, occhi grandi, è povera e bella e questo
a Tijuana significa avere il destino segnato. Mi
dice che un tempo è stata sposata ad un boss della
malavita di una provincia del Sud. Ha sopportato per
anni soprusi e violenze. Alla fine è riuscita a
scappare e ora l'unica ragione per andare avanti è
Isabel, la sua bambina, affidata a una zia in
California. Non la vede da anni, mi mostra una foto
ingiallita di una bimba di appena qualche anno. È
per ricongiungersi a lei che Patricia è qui giorno e
notte lungo il famoso muro. Sta cercando qualcuno
disposto a farla espatriare clandestinamente,
intanto però ha incontrato un uomo che si è preso
cura di lei, ma è un alcolizzato senza fissa dimora,
per cui per il momento vive di espedienti e si
prostituisce.
Ecco tutte questa anime sono,
malgrado tutto, il simbolo di Tijuana, il simbolo
della miseria e della disponibilità, il simbolo di
un sogno che non si realizzerà mai. Loro sanno che
l’aspettativa di vita in questa città è di un sesto
inferiore alla media nazionale, e il Messico è in
fondo alla classifica delle nazioni, come sanno che
un bambino su sei finisce ineluttabilmente lungo le
strade della malavita. In Messico la
prostituzione ha iniziato ad essere regolamentata a
partire dal 1885 e attorno agli anni ’30, a Tijuana
come nelle città di confine, l’enorme flusso di
turisti americani ha visto nascere come funghi
bordelli e locali vaudeville.
Certo sì io ci
sono stato a Tijuana lungo l’Avenida e sul caotico
lungomare, crocevia di anime, degrado e
contrabbandieri, tra le orde di teenagers
statunitensi in cerca di emozioni. A Tijuana non
serve andare a cercare una donna, come non serve
andare a cercare droga, a Tijuana la merce è a
portata di mano, c’è e basta, si respira in ogni
angolo della citta, e gli stessi abitanti non appena
capiscono che sei straniero ti affiancano per
proporti donne e droga. Oppure basta entrare in un
qualsiasi bar, alla Mezcalera ad esempio, dove
dentro quel buio suggestivo ti servono il Mezcal,
l’infernale e potente distillato di agave.
E
qui le donne sono belle, belle, belle e messicane,
sono tutte belle per definizione, e ti invitano nei
loro ampi e colorati vestiti a fiori, dentro le
tende pesanti di un inverno che non arriverà mai. Oh
sì, sono esperte e ci sanno fare, come tutte le
donne che fanno il mestiere nelle città di
frontiera. Sono giovani ventenni con il seno grande
quanto basta, sfruttate come mucche da latte per
questi famigerati protettori poco più grandi di
loro. Sono dappertutto, non solo agli incroci, ma
anche nei grandi parcheggi, come nei cortili dei
caseggiati, oppure negli alberghi, in fila al
supermercato, nei ristoranti, davanti alle chiese o
nelle fabbriche di fiori, oppure nei mercati dove si
confondono con la merce esposta. Il posto dove
allargare la gambe non è un problema, basta girare
l’angolo, basta un antro semibuio, bastano tre dollari
per alzare la gonna e mostrarsi senza mutandine,
ammiccano e ti invogliano ad entrare, chiedono solo di
non essere giudicate con gli occhi di una straniero. Poi
tutto va come deve andare, loro lo chiama amore ma è
solo sesso animale che dura quanto un bicchiere di Pepsi
Cola. Sono duty free e
non devi pagare alcuna imposta ed è lì che avviene
l’approccio, tutte belle ed a buon prezzo, ragazze
madri abbandonate dai loro mariti, tutte con una
storia di miseria e sfruttamento alle spalle e con il sogno di una
vita futura diversa. Credono davvero che quella vita
possa durare solo qualche anno e poi varcare la
frontiera, saltare quel muro, sposarsi a Los Angeles
oppure a San Diego.
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