Correva l’anno 1599, in una Roma
giunta all’apice dello splendore, grazie ai papi mecenati che
avevano reclutato i più grandi artisti per rendere splendida la
città eterna, si celebrò uno dei processi più famosi della
storia. Protagonista della vicenda fu una giovane romana di 22
anni, Beatrice Cenci, la cui figura, narrata da grandi
scrittori, tra cui Stendhal, e storici e immortalata nel celebre
dipinto attribuito a Guido Reni, ha oltrepassato la storia per
entrare a far parte della leggenda.
Beatrice, lei nacque a Roma. Chi era suo padre?
Mio
padre Francesco proveniva da un casato nobile, figlio di un
tesoriere dello Stato Pontificio. Era ricchissimo, proprietario
di numerosi latifondi nell’Agro Romano.
Purtroppo era un
uomo violento e sadico, dedito a comportamenti turpi fin dalla
prima giovinezza.
Fu incriminato più volte per i suoi vizi,
venne accusato tra l’altro di sodomia e rilasciato grazie alla
sua ricchezza.
Sua Madre?
Purtroppo
mia madre Ersilia Santacroce è morta quando avevo solo 7 anni,
in seguito a un parto gemellare. Poverina, aveva già messo al
mondo dodici figli e il suo corpo non resse.
Si
racconta che i suoi fratelli chiesero più volte udienza al papa
per denunciare le violenze di suo padre.
Clemente
VIII, vista l’influenza di mio padre e nonostante conoscesse
tutta la verità, punì i miei fratelli con l’esilio.
Quindi, lei e la sua sorella rimaneste sole a Palazzo
con vostro padre?
In assenza dei miei fratelli fu
più facile per mio padre organizzare festini e quant’altro.
Dicono che lei fosse bellissima?
Beh in
effetti vincevo i cuori di molti uomini, purtroppo, compreso mio
padre.
Ma sua sorella più grande riuscì a
salvarsi?
Per interessamento del Papa fu inviata
come sposa al nobile Carlo Gabrielli della famiglia di Gubbio,
riuscendo così a liberarsi dalle attenzioni di mio padre.
Lui come reagì?
Sentendosi nell’occhio
del ciclone decise di portarmi via da Roma. Naturalmente non
rinunciò alle sue pratiche sessuali. Andammo nel possedimento
della fortezza di Petrella vicino L'Aquila.
Insieme a me
c’era la sua seconda moglie Lucrezia Petroni. Lucrezia, vedova e
madre di tre figlie, era vittima anch’essa dei soprusi del
marito. Praticamente vivemmo segregate. Per fortuna potevamo
contare sull’aiuto del castellano Olimpio Calvetti che si era
follemente innamorato di me.
La storia racconta
diversamente ovvero che lei si era innamorata di Olimpio, un
plebeo, e non viceversa…
Olimpio aveva una moglie e
due bambini e lavorava per mio padre. Olimpio mi ammirava, era
innamorato di me, ma mai io avrei potuto corrispondere
quell’amore.
Perdoni la domanda madame, lei
assecondò suo padre?
Cosa altro potevo fare? Tentai
comunque di far pervenire a Roma, tramite persone di corte, una
lettera dettagliata al Papa di quello che succedeva nella
fortezza. Non so se la lettera arrivò oppure fu in qualche modo
preventivamente stracciata. Sta di fatto che il Papa non
intervenne.
I continui soprusi la portarono così
all'estrema decisione…
La decisione fu appoggiata da
mio fratello Giacomo con l’aiuto di due vassalli Marzio Catalano
e appunto Olimpio Calvetti. Tentammo dapprima con un finto
rapimento, ma i due commessi sbagliarono i tempi. L’idea era
quella di simulare un rapimento e poi ucciderlo a causa del
ritardato pagamento del riscatto.
Agiste durante
il sonno vero?
Fu la sera del 9 settembre 1598.
Riuscimmo con qualche stratagemma a dare una piccola dose di
oppio a mio padre. Cadde immediatamente in un sonno profondo.
Chiamammo poi Marzio e Olimpo che con freddezza conficcarono una
canna di sambuco nella gola colpendo ripetutamente il cranio con
un martello. Poi avvolsero il corpo in un lenzuolo e lo
gettarono da un balcone nell’orto sottostante, in modo da far
pensare ad una disgrazia.
La versione della
caduta accidentale dal balcone risultò credibile?
Il sopralluogo effettuato dagli inviati di papa Clemente VIII
mise in evidenza che non vi erano tracce di sangue sul terreno.
Si insospettirono e cominciarono ad interrogarci, ma noi tutti
confermammo la versione.
Stava andando tutto
bene… tranne il particolare della lavandaia…
Infatti, il giorno dopo avevo dato alla lavandaia il lenzuolo
sporco di sangue giustificandomi che la notte prima avevo avuto
il ciclo mestruale. Durante l’interrogatorio la lavandaia mise
in dubbio l’origine di quelle macchie….
Quindi i
commissari del Papa si convinsero che non era stata una banale
disgrazia…
Gli indizi divennero prove finché Marzio
Catalano confessò di avere partecipato al delitto dichiarando
che ero stata proprio io a chiedergli di trovare qualcuno
disposto ad uccidere mio padre.
La situazione
precipitò...
Venimmo arrestati, le testimonianze
raccolte dai giudici erano sufficienti per condannarci a morte.
Ma la confessione era indispensabile per ottenere la certezza
della colpevolezza e per la salvezza delle anime dei condannati.
Ma sottoporci a tortura non era possibile in quanto la nostra
condizione sociale era di alto rango per cui serviva un
intervento diretto del Papa.
Il 5 agosto 1599 papa Clemente
emanò il Motu proprio Quemadmodum paterna clementia che dava
piena facoltà al giudice di sottoporci a tortura.
Poi cosa successe?
Giacomo, Bernardo vennero
torturati nel carcere di Tordinona mentre Lucrezia nella
fortezza di Corte Savella. Nessuno resistette alla tortura della
corda, che consisteva nel tenere appese le vittime dalle
braccia. I miei fratelli si accusarono a vicenda del delitto,
mentre Lucrezia mi addossò tutta la responsabilità, accusandomi
di essere stata l’ispiratrice del delitto.
Infine toccò a lei…
Mi contestarono le piene
confessioni di Catalano e di Lucrezia. Nel disperato tentativo
di allontanare da me i sospetti di essere stata spinta dall’odio
che nutrivo nei confronti di mio padre negai di essere stata
maltrattata e picchiata dal defunto padre, negai la storia del
veleno e negai anche di aver conosciuto Marzio Catalano.
Per convincerla a dire la verità furono condotti e
torturati davanti a lei sia Giacomo che Bernardo.
Naturalmente resistetti finché toccò anche a me la stessa sorte.
Fui legata e sollevata. Per un tempo interminabile e nonostante
le braccia slogate non uscì una parola dalla mia bocca finché
non mi appesero per i capelli.
La confessione non
lasciava dubbi…
Già, anche se in nostra difesa si
attivarono diversi principi e cardinali per tentare almeno di
farci scontare la pena in prigione evitando così la condanna a
morte. Fu tutto inutile.
Venerdì 10 settembre
1599 Clemente VIII ordinò l'esecuzione.
Mentre si
allestiva il patibolo a Piazza Ponte Sant’Angelo il nostro
avvocato Prospero Farinacci riuscì a parlare con il Papa e
insistendo ottenne la grazia almeno per il quindicenne Bernardo,
che fu costretto a pagare 400.000 franchi entro un anno alla
Santissima Trinità di Ponte Sisto.
Per voi più
adulti non ci fu nulla da fare…
Già, a nulla
servirono le testimonianze a nostro favore che evidenziarono la
brutalità di mio padre e i sospetti di ripetuto incesto ai miei
danni.
Eppure nella sentenza Francesco Cenci, la
vittima, era descritto come miserrimum patrem et infelicissimum
maritum…
Sa cosa le dico? La nostra fu soltanto una
pena esemplare affinché altri non avessero a ripetere un simile
atto. Per giustificarla scrissero quelle menzogne.
11 settembre 1599 Ci racconta quella giornata?
La notizia dell'esecuzione mi giunse alle sei del mattino. Feci
subito testamento lasciando tutto in beneficenza. La processione
verso il patibolo partì dal carcere di Tor di Nona, dove era
rinchiuso Giacomo. Fu fatto passare lungo due file di persone
indemoniate che lo colpirono ripetutamente in quanto nella
sentenza era scritto chiaramente che Giacomo, figlio maschio e
assassino, fosse condannato ad essere picchiato sopra il carro
per Roma e condotto al luogo del supplizio mentre ferri
infuocati attanagliavano le sue carni.
Un'esecuzione davvero orribile! E lei?
Il carro
percorse via dell’Orso e via del Giglio, passò per
Sant’Apollinare, per la statua di Pasquino, proseguì per il
Palazzo della Cancelleria. Entrato poi a piazza Farnese proseguì
per via di Santa Maria di Monserrato e si fermò davanti alle
carceri di Corte Savella dove venimmo prelevate io e Lucrezia.
Ricordo tanta gente, il corteo fece fatica a raggiungere la
piazzetta di Castel Sant’Angelo.
Ai lati del corteo si
aprivano ali di folla che seguivano il corteo dai balconi dei
palazzi, dai cigli delle strade. Io rimanevo in piedi, dritta e
impassibile, mi stavo avviando orgogliosa verso la morte,
convinta di aver fatto soltanto giustizia e di essere stata
ingiustamente condannata.
Chi venne ucciso per
primo?
Con noi c’era anche Bernardo che fu
condannato ad assistere al supplizio dei suoi familiari. La
prima a salire sul patibolo fu Lucrezia. Le venne tolto il
mantello e rimase a petto nudo. Perse i sensi e fu distesa sulla
panca, pochi istanti e la mannaia recise la testa.
Poi fu il
mio turno, ricordo che mi sistemai i capelli da sola per non
farmi toccare dal boia. Lanciai un urlo che credo si sentì fino
a San Pietro.
Dopo la sua decapitazione fu il
turno di Giacomo…
Lui poverino subì un trattamento
ancora più atroce. Colpi di mazza gli sfondarono il cranio. Poi
fu ridotto a brandelli, i quali vennero appesi a dei ganci
attorno alla piazza. Sono felice per quanto sia di non aver
assistito a quel supplizio di carni.
La storia la
ricorda come donna coraggiosa.
So che molti hanno
pianto la mia morte ed hanno sperato fino all’ultimo nella
grazie del Papa. In vita ero adorata da tutti, naturalmente non
solo per il coraggio dimostrato in quell’occasione.
Sa che ancora oggi i Romani visitano la sua tomba?
Mi fa piacere essere l’emblema della lotta contro quegli orrori.
Alle 21.15 il corpo di Beatrice fu
condotto e sepolto, secondo le volontà della defunta, nella
chiesa di S.Pietro in Montorio al Gianicolo.
Ogni anno, in
ricorrenza dell'undici settembre, Beatrice Cenci viene ricordata
con la messa pomeridiana voluta dal Principe e dall'Associazione
Beatrice Cenci nella Chiesa di Gesù e Maria a Via del Corso. La
figura di Beatrice fu ripresa in diverse opere, fra cui il
racconto di Stendhal inserito in 'Cronache Italiane'.
Nell'inchiesta lo scrittore francese riuscì a risalire
all'archivio dei documenti riguardanti la data di nascita di
Beatrice Cenci ed il luogo della sua sepoltura, da cui è emerso
che la ragazza morì a 22 anni e non a 16 anni come erroneamente
alcune cronache letterarie hanno preferito usare.
Il
ritratto di Beatrice Cenci è esposto nella Galleria Nazionale di
Arte Antica. L'attribuzione però è ancora incerta: le cronache
romane dell'epoca parlarono del maestro Guido Reni che venne
appositamente per vedere e dipingere la giovane condannata a
morte. nel luogo in cui è stata decapitata, è invalsa la
credenza di vedere la sua figura aleggiare sopra il ponte la
notte dell'11 settembre.